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« Risposta #150 inserito:: Gennaio 16, 2010, 07:22:02 pm » |
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Sempre meno libertà
Più di due miliardi senza diritti nel mondo
di Umberto De Giovannangeli
Due miliardi e trecento milioni di persone. Senza diritti, senza libertà. Dal Medio Oriente all'Africa, dall'Asia alle repubbliche dell'ex Unione Sovietica. Libertà civili e diritti umani sempre più in crisi a livello mondiale. Per la quarta volta consecutiva, negli ultimi 40 anni di storia, si registra un peggioramento sostanziale delle libertà nei cinque continenti. A certificarlo è Freedom House, l'autorevole osservatorio americano fondato da Eleanor Roosevelt che, dal 1972, si occupa di registrare ogni piccola variazione sul fronte del rispetto e della tutela dei diritti in tutti i Paesi del pianeta. È un quadro inquietante, drammatico, quello che emerge dal rapporto annuale di Freedom House, «Freedomin the world 2010». I risultati di quest'anno riflettono le crescenti pressioni sui giornalisti e sui blogger, le restrizioni alla libertà di associazione, la repressione esercitata sugli attivisti civili impegnati a promuovere le riforme politiche e il rispetto dei diritti umani. Il Medio Oriente - comprensivo dell'Iran - resta la regione più repressiva del mondo, l'Africa quella che ha subito il calo (di libertà) più significativo. I miglioramenti più rilevanti, rispetto all'anno precedente, si sono registrati in Asia, in virtù delle elezioni democratiche svoltesi in India, Indonesia, Giappone, a fronte, però, di un peggioramento registrato in Afghanistan, con le contestate elezioni presidenziali, e nelle Filippine, dopo il massacro di civili e di giornalisti e la successiva dichiarazione delle legge marziale. «Nel 2009 - dice a l'Unità Jennifer Windsor, direttrice esecutiva di Freedom House - abbiamo assistito ad una preoccupante erosione di alcune libertà fondamentali, la libertà di espressione e di associazione, e ad innumerevoli attacchi contro gli attivisti in prima linea in questi settori». «Dalla brutale repressione a Teheran agli arresti dei dissidenti in Cina, agli omicidi di giornalisti e attivisti dei diritti umaniin Russia - rimarca la direttrice di Freedom House - abbiamo registrato un ulteriore, pesantissimo giro di vite nei confronti di donne e uomini che nel mondo si battono per far valere quei diritti umani riconosciuti dalla Dichiarazione dell'Uomo delle Nazioni Unite e dalle più importanti Convenzioni internazionali».
In un anno segnato dall'intensificarsi della repressione contro i difensori dei diritti umani e attivisti civili, un declino delle libertà è stato registrato in 47 Paesi in Africa, America Latina, Medio Oriente, e le repubbliche dell'ex Unione Sovietica, che rappresentano il 20% del totale dei sistemi politici del mondo. Stati autoritari come l'Iran, la Russia, il Venezuela sono diventati ancor più repressivi. Un declino delle libertà si è registrato anche in quei Paesi che avevano registrato un andamento positivo negli anni precedenti, tra i quali il Bahrein, la Giordania, il Kenya e il Kirghizistan, Lamaglia nerissima tra i 47 Paesi classificati «Not Free»- negazione dei diritti politici e delle libertà civili - spetta a Birmania, Guinea Equatoriale, Eritrea, Libia, Corea del Nord, Somalia, Sudan, Turkmenistan e Uzbekistan. Nel complesso, oltre 2,3 miliardi di persone vivono in società nelle quali fondamentali diritti politici e le libertà civili non vengono rispettati. La Cina rappresenta la metà di questo universo illiberale. Inoltre è calato il numero di democrazie elettive, passato da 119 a 116, il più basso dal 1995 a questa parte. Ad aggravare la situazione i tanti fronti di guerra e la violenta repressione delle proteste di piazza dei dissidenti, dall'Iran alla Cina. Ci sono poi gli attentati terroristici in Pakistan, Afghanistan, Iraq, Somalia e Yemen. «I dati registrati nel 2009 sono motivo di reale preoccupazione - ci dice Arch Puddington, direttore responsabile del settore ricerca di Freedom House -. Il calo è globale e interessa Paesi con il potere militare ed economico, investe Paesi che in precedenza avevano mostrato segni di potenziali riforme, e mette in evidenza una maggiore persecuzione dei dissidenti politici e giornalisti indipendenti.Apeggiorare le cose, i più potenti regimi autoritari sono diventati ancor più repressivi, più influenti sulla scena internazionale, più intransigenti».
Pochi i segnali positivi: nel 2009 appena 16 Paesi, su 194 monitorati, sono più liberi rispetto al passato. Tra questi alcuni Paesi dei Balcani, tra cui Kosovo, Montenegro, Croazia, Moldavia e Serbia. In questa lista compaiono anche Libano, Malawi e Togo. Ilnumerodei Paesi designati da «Freedom in the World» come “Free” nel 2009 ammonta a 89, che rappresentano il 46% di 194 Paesi del mondo e il 46% della popolazione mondiale. Il numero dei Paesi “Partly Free” (Parzialmente liberi) è sceso a 58, il 30% di tutti i Paesi valutati nel sondaggio. Il numerodei Paesi “Not Free” è aumentato a 47, il24%del numero totale di Paesi. Ad essere declassata è anche la Russia, seguita a ruota da tutti i Paesi del Mar Baltico e dell' ex Unione Sovietica, tra cui il Kazakistan e il Kirghizistan. In America Latina, l'Honduras ha perso lo status di democrazia elettorale a causa del colpo di stato; un significativo calo degli standard democraticihanno riguardato Guatemala, Nicaragua e Venezuela. Quanto all’Europa, il rapporto cita le tensioni culturali e sociali collegate al grande flusso di immigranti provenienti da Paesi musulmani. Migrazioni che, sostiene Freedom House, «sfidano la tradizione europea fatta di tolleranza e tutela delle libertà civili». «Preoccupazioni sull'immigrazione - conclude il rapporto - hanno portato all' avanzata elettorale dei partiti di destra che propongono maggiori restrizioni al fenomeno». L'incremento delle politiche anti-immigrazione ha portato al declassamento di Svizzera e Malta.
15 gennaio 2010 da unita.it
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« Risposta #151 inserito:: Febbraio 03, 2010, 04:39:38 pm » |
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Berlusconi, paladino di Israele con qualche amico imbarazzante
di Umberto De Giovannangeli
I silenzi, le ambiguità e amicizie imbarazzanti del Cavaliere autoproclamatosi Paladino dello Stato ebraico. «È Israele che alimenta le crisi in Darfur, nel Sud del Sudan e nel Ciad... È Israele che alimenta le guerre per sfruttare le ricchezze di quelle aree. Via le ambasciate d’Israele dall’Africa». Così parlò (il giorno dei festeggiamenti per il 40esimo anniversario della Rivoluzione verde) un grande amico di Berlusconi: il Colonnello Muammar Gheddafi. Ad ascoltarlo, per inciso, c’era anche il presidente sudanese Omar al-Bashir, ricercato dal Tribunale penale internazionale dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità.
«Quel circo equestre itinerante che è Gheddafi è divenuto da tempo uno show tragicomico che imbarazza chi lo ospita e la nazione libica che ne paga il conto. Mi chiedo se vi sia ancora qualcuno al mondo che prende seriamente ciò che dice quest’uomo. Noi comunque siamo certi che nessuno Stato darà peso alle azioni teppistiche di questo bulletto», commentò il 31 agosto 2009 il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Yigal Palmor. Per la verità qualcuno che prende molto sul serio Gheddafi c’è. E oggi pronuncerà uno «storico discorso» alla Knesset. È il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi. Quello che per Israele è un «bulletto», per il Cavaliere è un «leader pragmatico», uno «statista accorto e moderato», e un «amico personale». «Dobbiamo distruggere Israele...». «Esorto gli arabi ad aprire la porta del volontariato per combattere Israele a fianco dei palestinesi...». Non è Mahmud Ahmadinejad a pronunciare questi bellicosi propositi. È lo «statista accorto e moderato»: Muammar, l’amico di Silvio. Ai musulmani ha chiesto di «unirsi contro l’Occidente cristiano e di affilare le spade...». Ha proposto di trasferire in Alaska lo Stato d’Israele, poiché «occupa un territorio che non appartiene agli ebrei». Indietro nel tempo: dopo l’eccidio degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco ’72 - ricorda Giulio Meotti su Il Foglio - «tutti i Paesi arabi si contesero i corpi dei cinque terroristi di Settembre Nero. Vinse la Libia, dove da tre anni al potere c’era il colonnello Gheddafi. Fu lui a salutare come “eroi” e “martiri”, con tutti gli onori militari, i cinque assassini degli atleti ebrei». Il Paladino smemorato dimentica il Colonnello e «spara» sull’«Hitler di Teheran». «Berlusconi traccia un parallelo fra Ahmadinejad e Hitller» titola Haaretz nella sua edizione in inglese. E cita il Consiglio: «Dobbiamo vigilare, abbiamo già avuto un pazzo simile storia». Parole non riferite in modo esplicito al presidente iraniano, ma attribuibili al regime di Teheran, secondo il giornale di Tel Aviv.
Ma più delle parole, Israele attende dal Paladino atti concreti sul fronte iraniano. Uno di questi lo ha indicato il vice premier Silvan Shalom: «Nel mio incontro di lunedì con il presidente Berlusconi gli ho proposto che l’Italia voti una legge che consideri i Guardiani della rivoluzione un’organizzazione terroristica, in vista di una sua adozione da parte dell’Unione Europea, e gli ho ricordato che aveva già usato la sua influenza per includere Hamas in questo elenco - dichiara Shalom alla radio pubblica israeliana - Sarebbe un colpo assai duro per il regime iraniano». Vedremo se il Cavaliere-Paladino farà sua la richiesta, per il momento la risposta fornita agli amici israeliani è interlocutoria, low profile («serve un’istruttoria approfondita a livello europeo...»). «Non abbiamo segreti con nostri amici israeliani sul nostro interscambio con l’Iran. Ma siamo assolutamente fermi nel bloccare nuovi investimenti su gas e petrolio e abbiamo già bloccato l’assicurazione Sace per chi investe in Iran», annuncia il ministro degli Esteri Frattini.
Ma Israele ricorda al Paladino che uno dei satelliti per le comunicazioni con cui l’Iran potrebbe spiare Israele e le basi Usa nel Golfo in vista di un eventuale attacco, il Mesbah, lo sta realizzando la Carlo Gavazzi space spa. Azienda di Milano partner abituale di Agenzia spaziale italiana, Cnr o Cern. Un contratto da oltre dieci milioni di dollari. Che Israele – confida a l’Unità una fonte autorevole di Gerusalemme – vorrebbe fosse disdettato dall’Italia. Dieci milioni, parte di quel business tra Roma e Teheran che nel solo 2008 ha «fatturato» 7 miliardi di interscambio. Troppi per Gerusalemme. «Con l’Iran servono sanzioni forti», proclama Berlusconi. Israele gli chiede il conto. Le parole, per quanto infiammate, non bastano più.
03 febbraio 2010 da unita.it
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« Risposta #152 inserito:: Aprile 28, 2010, 08:58:29 am » |
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L'onda nera dell'ultra destra razzista macchia l'Europa
di Umberto de Giovannangeli
L’«Onda nera» si allarga. Dall'Austria all'Ungheria, dall'Olanda al Belgio, dalla Francia, alla Finlandia, dalla Danimarca alla Gran Bretagna, «sconfinando» nell’ex Europa comunista: dalla Romania alla Russia.
Continua l'avanzata dell'estrema destra in Europa, un dato confermato dal 15,6% alle presidenziali in Austria conquistato dalla candidata del partito Fpoe, Barbara Rosenkranz, dichiaratamente filo-nazista. In Ungheria, dove il partito conservatore Fidesz ha conquistato i due terzi dei seggi in Parlamento, la formazione xenofoba Jobbik si consolida come terza forza del Paese con 48 seggi in Parlamento. Viaggio nell’«Onda nera» dei movimenti dell’estrema destra europea. Movimenti e partiti razzisti, ultrazionalisti, nazifascisti, antisemiti spinti. L'estrema destra, specie quella di ispirazione fascista e neonazi, tra i suoi programmi principali ha il superamento del liberismo e la guerra alla globalizzazione, oltre che un forte connotato antiamericano e anti-israeliano. Austria: «Non sono felice ma decisamente contenta»: così Barbara Rosenkranz dopo l'annuncio dei risultati. Si era data come obiettivo il 17% mentre il leader del suo partito, Hans-Christian Strache, aveva indicato addirittura il 35%. A frenare i consensi sono state alcune dichiarazioni della Rosenkranz in favore dell'abolizione delle leggi sul divieto di apologia del nazismo in Austria. Al suo fianco c’è il marito Horst Jakob, con un trascorso di militanza in vari gruppi neonazisti ed oggi editore della rivista dell’estrema destra «Fakten». Da segnalare inoltre l'affermazione alle europee 2009 del «qualunquista» Hans Peter Martin, che ottenne il 18%, appena 5 punti meno dei socialdemocratici. Ungheria: Il partito conservatore Fidesz, dell'ex e futuro premier Viktor Orban, ha conquistato i due terzi del Parlamento, che consentiranno di avviare anche riforme costituzionali senza il contributo di altre formazioni. Jobbik, il partito di estrema destra guidato dalla coppia Krisztina Morvai e Gabor Vona, ha conquistato almeno 48 seggi. Lo slogan preferito di Vona è: «L'Ungheria è stata venduta, i nemici da combattere sono le multinazionali, gli ebrei, i rom ed i comunisti». Olanda: Nelle amministrative di marzo scorso, la destra xenofoba del partito della Libertà (Pvv) guidato dal leader anti-Islam Geert Wilders, ha ottenuto una significativa vittoria, soprattutto in vista delle elezioni politiche previste per il prossimo 9 giugno. In una recente intervista, Wilders ha confessato che il «sogno» che vorrebbe realizzare è la «deportazione in massa degli islamici» Belgio: In Belgio il maggiore partito di estrema destra è il Vlaams Belang che ha raggiunto nelle ultime elezioni Europee il 9,85% di voti. Il partito lotta per l'indipendenza delle Fiandre sia linguistica che territoriale, per il respingimento dell'immigrazione e per creare una forma di Stato nazionalista. In Belgio il partito ha dovuto cambiare nome nel 2007 a seguito di una condanna per violazione della legge sul razzismo e la xenofobia, che sottolineava come il partito avesse «aiutato e supportato organizzazioni che sosteneva e divulgavano l'odio razziale e xenofobo». Francia: Il Fronte Nazionale di estrema destra di Jean Marie Le Pen ha ottenuto nelle regionali del marzo scorso l'8,7% dei voti al livello nazionale, con punte che schizzano oltre il 20% in alcune regioni del nord e del sud della Francia. Le Pen, 81 anni, nel 2011 cederà il posto di presidente del partito che tiene dalla fondazione nel 1972. Due i candidati finora in corsa: la figlia Marine e l'europarlamentare Bruno Gollnisch. Gran Bretagna: Il partito nazionalista (Bnp) di Nick Griffin ha conquistato nelle scorse europee due seggi, scioccando sia i laburisti che i conservatori. Griffin nel 2004 è stato arrestato perché sospettato d'incitamento all'odio razziale. Rilasciato su cauzione, aveva definito l'Islam una religione «viscida e perversa». Dal 1999 è leader del Bnp, che punta a «sfilare la Gran Bretagna» dalla «dittatura europea». Finlandia: Occhi puntati sul partito nazionalista, euroscettico e anti-immigrati dei «Veri Finlandesi», guidato da Timo Soini. Alle europee 2009 ha ottenuto il 10% dei voti, rispetto allo 0,5% del 2004. Soini, con oltre 130.000 preferenze è risultato il politico più votato in assoluto nel Paese. Danimarca: Il partito del Popolo Danese, nazionalista, xenofobo e euroscettico, che appoggia in Parlamento la coalizione al potere liberali-conservatori, ha ottenuto il 14,4% alle europee, con un balzo del +8,6% rispetto al 2004. Germania: l'NPD viene considerato dalla popolazione un partito neonazista e xenofobo, non a caso vengono soprannominati, nel gergo comune, i nazi. Nelle ultime elezioni hanno ottenuto l'1,8% dei consensi. Sono forti in Sassonia. Est Europa Infine ci sono i partiti dell'Est europeo ex comunista dove la connotazione ultranazionalista e fascista è prevalente, come il Partito della Grande Romania, i liberaldemocratici russi di Zhirinovski, il Partito nazionalista slovacco, il Partito della destra croata (Hrvatska Stranka Prava), il Partito radicale serbo di Vojislav Seselj. In Bulgaria il partito d'unione attacco nazionale, che persegue politiche nazionaliste, anti-turche, euro-scettiche e populiste, ha raggiunto nelle Europee 2009 il 12% dei voti. Il partito si è reso partecipe di molti scandali, sia giudiziari che politici. L'osservatore Stayanov nel parlamento europeo aveva inviato a tutte le parlamentari romene una e-mail in cui proponeva l'acquisto di bambine zingare. Non a caso, infine, l'estrema destra nazista ha il maggiore seguito proprio nell'ex Germania Est e in Russia con il partito Pamyat. Per quanto riguarda i Paesi baltici, in Lettonia sono presenti e radicati i seguenti partiti di estrema destra: Nuova era (16,38%), il partito per la madrepatria e la libertà (6%) e l'Uniti per la Lettonia (1,48%) che ha un simbolo che ricorda la svastica. In Lituania, Ordine e Giustizia, partito euroscettico della destra estrema, riceve il 12,9% dei consensi.
27 aprile 2010 da unita.it
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« Risposta #153 inserito:: Giugno 08, 2010, 10:26:51 am » |
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I sopravvissuti ai lager: «Brutta china, Italia» di Umberto De Giovannangeli Senza memoria non c'è futuro. E per Israele la Memoria è custodita nel grande edificio sul monte Herzl, nel cuore della Gerusalemme ebraica: lo Yad Vashem, il Museo della Shoah. Tutti i Grandi della Terra che fanno visita a Israele iniziano da qui, per non scordare mai ciò che avvenne a Dachau, Auschwitz-Birkenau, Treblinka, Bergen-Belsen... «Ricordo che a morire nelle camere a gas non furono solo gli ebrei, ma gli zingari, gli omosessuali, i bambini down...tutti coloro che nella follia nazista contaminavano la purezza della razza...». Yaakov Lesher era poco più di un bambino quando fu internato ad Auschwitz con la sua famiglia: madre, padre e tre sorelle poco più grandi di lui. Yaakov è l'unico sopravvissuto della sua famiglia. Quando gli raccontiamo del “Piano” messo a punto dalla Regione Veneto, a guida leghista, Yaakov passa in pochi attimi dall'esterrefatto all'indignato: «Ma è possibile – dice – che ci sia ancora oggi qualcuno che possa discriminare sulla base di diversità fisiche e psichiche? Ma questa è barbarie, barbarie...». Solo ad Auschwitz morirono 1,1 milioni di persone: ebrei provenienti da tutta Europa uccisi in gran parte nelle camere a gas, fucilati, impiccati, morti di fame, di malattie, dell'eccessivo lavoro in condizione di schiavitù...E a causa di esperimenti medici. Stupore e indignazione La purezza della razza. Da ottenere cancellando dalla faccia della terra milioni di esseri umani, trasformando molti di loro in cavie. Ariel Hartman è un altro sopravvissuto ad Auschwitz. Sono passati 65 anni d'allora, ma mai, neanche per un attimo della sua vita da sopravvissuto, Ariel Hartman ha potuto scordare il “Volto del Demonio”. Il volto di Josef Mengele. «Era ossessionato dagli esperimenti su cavie umane – ricorda Hartman – per lui non eravamo persone ma organi...Ricordo il suo disprezzo soprattutto verso gli handicappati...In una sala del Museo ci sono alcune immagini di questo mostro e di ciò che ha fatto...Lei mi parla di questo piano, cosa vuole che le dica: chi ha conosciuto l'inferno in terra, ha imparato sulla propria pelle che non devono esistere discriminazioni, in ogni campo, soprattutto quando c'è di mezzo la vita stessa...». Il rispetto della vita umana. Al di là di ogni appartenenza di fede, di razza, di religione. E di condizione psico-fisica. E' il messaggio che ogni giorno viene trasmesso a quanti fanno visita allo Yad Vashem. Yael Klein ha visto morire i suoi quattro fratelli a Treblinka. «Ogni giorno – ci dice mentre assieme visitiamo la parte più emozionante, commovente, del Museo dell'Olocausto, quello dedicato ai bambini morti nei lager nazisti – guardo quei numeri che mi furono incisi sul polso dai nazisti a Treblinka: ecco quello che eravamo per loro, un numero. Senza identità, senza volto...Non seguo le vicende politiche del suo Paese, in Italia sono stata due volte nella mia vita, ricordo Roma, la bellissima Venezia, Firenze...Ho amore e rispetto per l'Italia e non riesco a credere che sia possibile arrivare ad escludere dalla possibilità di trapianti persone che hanno avuto gravi problemi psicologici o di salute mentale...Ma allora assieme alla pietà è morto anche il buon senso?». Rispetto e solidarietà Pietà. Buon senso. Solidarietà. Rispetto. Sono parole che ritornano nel conversare dei sopravvissuti ai lager nazisti. Non vogliono, non possono dimenticare. Lo devono ai milioni che da quei campi di sterminio non fecero più ritorno: «Cosa significa escludere persone che hanno avuto “gravi problemi psicologici” o di salute mentale?» – dice Joshua Levinson, che una foto passata alla storia lo inquadra vicino ad un altro giovane ridotto a un mucchio di ossa: quel giovane è Elie Wiesel, futuro Premio Nobel per la Pace –«Il solo sentire queste affermazioni mi sconvolge, mi fa inorridire...E' come se risentissi le parole dei capi nazisti che una volta giunti nei lager, individuavano quelli da loro ritenuti insani di mente, o affetti da turbative...Li schernivano e poi li facevano uscire dalla fila.. Erano i primi a finire nelle camere a gas o a diventare cavie viventi per i criminali in camice bianco...». «A quelli che si fanno venire certe idee – aggiunge Ehud Goldstein, sopravvissuto a Bergen-Belsen – farei imparare a memoria il libro di un grande italiano: Primo Levi - “Se questo è un uomo” ha fatto onore all'Italia...Non certe leggi. Che meritano solo un aggettivo: vergognose». 08 giugno 2010 http://www.unita.it/news/italia/99715/i_sopravvissuti_ai_lager_brutta_china_italia
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« Risposta #154 inserito:: Luglio 03, 2010, 04:09:57 pm » |
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Massacro in Libia L'appello de l'Unità per gli eritrei prigionieri di Umberto De Giovannangeli Il dramma dei 245 rifugiati eritrei e somali trasferiti forzatamente dal centro di detenzione di Misurata al centro Sebha, nel sud della Libia, il 30 giugno si sta ulteriormente aggravando. Cresce l'indignazione dopo la denuncia dell'Unità. Secondo testimonianze dirette raccolte oggi dal Consiglio Italiano Rifugiati, i 245 sono stati sottoposti a forti maltrattamenti e sono tenuti in estrema scarsità di acqua e di cibo. Alle persone che presentano ferite e gravi condizioni di salute non sono fornite cure mediche. Molti rifugiati, riferisce il Cir, sono feriti ed estremamente debilitati dopo un viaggio nel deserto chiusi in container di metallo per oltre 12 ore: dall'alba al tramonto del 30 giugno. Il centro di Sebha Si trova nel mezzo del deserto del Sahara dove attualmente la temperatura supera i 50 gradi. Sembra che questo trattamento sia stato decretato come «punizione» per una rivolta e un tentativo di fuga che si è verificato nel centro di Misurata la sera del 29 giugno. Il Cir sottolinea che tra le persone ci sono numerosi rifugiati eritrei respinti nel 2009 dalle forze italiane dal Canale di Sicilia in Libia. Anche in riferimento al trattato di amicizia italo-libico, già la sera del 30 giugno il Cir aveva chiesto l'intervento del premier Berlusconi e del ministro degli Esteri Frattini. Il Cir ha inviato oggi una lettera al Presidente della Repubblica Napolitano, appellandosi alla sua sensibilità per i diritti umani; contemporaneamente, ha scritto una lettera al ministro dell'Interno Maroni, chiedendo che l'Italia si faccia carico di queste persone, offrendo al governo libico l'immediato trasferimento e reinsediamento nel nostro paese. Il Pd: Frattini continua a tacere «Per salvare la vita ai circa trecento eritrei che si trovano ora rinchiusi nel centro di detenzione di sebha in libia, il governo italiano deve muoversi immediatamente usando tutti i mezzi diplomatici e tutte le pressioni politiche del caso».Llo chiede Jean Leonard Touadi, parlamentare del Partito Democratico. Toaudi sottolinea che «a tutt'oggi frattini continua a tacere, il suo silenzio è imbarazzante e se dovesse proseguire getterebbe un'ombra pesante sulla credibilità internazionale dell'Italia. Siamo di fronte a una palese violazione del diritto internazionale - conclude il deputato Pd - il governo italiano deve intervenire su Tripoli. Alla luce di questo ennesimo episodio di negazione dei diritti umani ci dobbiamo interrogare sull'opportunità degli accordi sui respingimenti con il governo libico». Indignato anche l'Idv «La vicenda dei 300 cittadini eritrei fa emergere sempre di più il grave errore commesso dal governo italiano che ha scelto di delegare la Libia nelle politiche d'immigrazione», sottolinea il portavoce dell'Italia dei Valori, Leoluca Orlando. Il Pd e il partito di Antonio Di Pietro annunciano una interrogazione parlamentare sul caso. 02 luglio 2010 http://www.unita.it/news/italia/100693/massacro_in_libia_lappello_de_lunit_per_gli_eritrei_prigionieri
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« Risposta #155 inserito:: Luglio 04, 2010, 06:32:21 pm » |
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Il pugno duro di Gheddafi sulla rivolta dei senza diritti di Umberto De Giovannangeli La rivolta dei senza diritti si consuma nel silenzio. Il silenzio complice della Comunità internazionale. Il silenzio di un Governo, quello italiano, che ha aperto un credito illimitato al Colonnello di Tripoli.Il silenzio che copre la vergogna dei « desaparecidos» voluti dall’Italia. Un silenzio rotto dalla coraggiosa e documentata denuncia di Fortress Europe e del suo giovane e instancabile animatore, Gabriele Del Grande. Nessuna notizia Ciò che aspetta i respinti è cosa nota (tranne ai governanti italiani...): rinchiusi in carcere in Libia. Ma adesso - rimarca Del Grande - il problema è capire che fine faranno. All'alba del 30 giugno Fortress Europe ha perso le loro tracce. Due container sono partiti carichi di 300 persone - uomini, donne, bambini - lasciandosi alle spalle i cancelli del campo di detenzione di Misratah. Un reparto dell'esercito ha fatto irruzione nelle celle in piena notte. Le ultime telefonate d'allarme sono giunte alle cinque del mattino. Poi il silenzio: tutti i telefonini sono stati sequestrati. I detenuti portati via sono tutti eritrei, uomini e donne, compresi una cinquantina di minorenni e diversi bambini. Tutti arrestati sulla rotta per Lampedusa, chi respinto in mare nell'ultimo anno e chi fermato nelle retate della polizia libica a Tripoli. «La diaspora eritrea, da Roma e da Tripoli, ci ha chiesto - afferma Del Grande - di dare la massima diffusione alla notizia, perché il rischio di un'espulsione di massa a questo punto è molto alto». Che a Misratah tirasse una brutta aria lo si era capito da un pezzo. Da quando, tre settimane fa, il governo libico aveva espulso l'Alto Commissariato dei Rifugiati delle Nazioni Unite, che proprio a Misratah aveva regolare accesso da ormai tre anni. Ma i guai sono arrivati nella giornata dell’altro ieri. I militari libici - è sempre Del Grande a denunciarlo - hanno consegnato ai detenuti i moduli dell'ambasciata eritrea per l'identificazione. Tutti si sono rifiutati categoricamente di fornire la propria identità all'ambasciata, temendo che fosse il primo passo per un'espulsione collettiva. Al loro rifiuto la tensione è salita, fino a sfociare in una rivolta, con un durissimo scontro con le forze di sicurezza. Qualcuno ha tentato di scavalcare il muro di cinta e fuggire, ma l'evasione è stata presto sventata e la protesta duramente repressa a colpi di manganellate. Appello accorato Secondo Mussie Zerai, responsabile dell’agenzia Habesha(Ong che si occupa dell’accoglienza dei migranti africani) che da Roma ha potuto raggiungere telefonicamente alcuni detenuti di Misratah, ci sarebbero una trentina di feriti gravi, che sarebbero stati portati via nei container insieme a tutti gli altri. Habesha riferisce anche di tentati suicidi per evitare la compilazione dei moduli di identificazione: «La situazione è drammatica», conferma a l’Unità Zerai. La comunità degli eritrei di Tripoli ha lanciato ieri pomeriggio un allarme per lo stato in cui versano i loro connazionali trasferiti ieri dal Centro di Detenzione di Misurata al carcere di Brak, nella valle dello Shaty, nel Sud della Libia, a circa 75 chilometri da Seba. Dopo una intera di giornata di viaggio all'interno di tre camion-container,gli eritrei sono arrivati al centro di Brak nella serata di ieri. «Li stanno picchiando - riferisce un eritreo in contatto con alcuni di loro - temono di non sopravvivere». Secondo alcune testimonianze sempre di fonte eritrea, fra loro ci sarebbero anche diversi feriti, che però non avrebbero ancora ricevuto alcuna cura. Intanto le Ong di Tripoli che si occupano di rifugiati, Cir e Iopcr, riferisce una fonte vicina alle associazioni, riceveranno nella giornata di domenica una visita da parte del direttore del Centro di Brak e nei prossimi giorni hanno programmato una visita a Misurata, dove sono rimaste 80 donne eritree e alcuni bambini e poi, almeno questo è nelle loro speranze, una visita a Brak per constatare le condizioni degli eritrei. La diaspora eritrea da anni passa attraverso Lampedusa per chiedere asilo politico in Europa. La situazione ad Asmara si fa di giorno in giorno sempre più grave. Violenze quotidiane Non è da oggi che Fortress Europe documento le violenze che segnano la quotidianità di migliaia di disperati nei «campi di accoglienza» libici. Grazie a Fortress Europe sappiamo, ad esempio, del massacro di Benghazi. Attraverso foto scattate con un cellulare, e sfuggite alla censura, Del Grande ha svelato come la polizia libica ha ucciso sei rifugiati somali a Ganfuda. E sempre grazie a Fortress Europe si è saputo che erano eritrei i passeggeri dell’imbarcazione respinta al largo di Lampedusa il primo luglio di un anno fa. Rifugiati eritrei. Respinti nell’inferno libico dall’Italia di Berlusconi e Maroni. 02 luglio 2010 http://www.unita.it/index.php?section=news&idNotizia=100666
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« Risposta #156 inserito:: Agosto 13, 2010, 04:16:20 pm » |
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Quegli oscuri intrecci di interesse tra Silvio e i suoi potenti amici di Umberto De Giovannangeli Domanda: un cognato, sia pur ingombrante, vale un Colonnello e uno «Zar»? Nella stagione dei dossier avvelenati, del killeraggio mediatico, tutto sembra eguale nel ventilatore dei colpi bassi. Così non è. C'è qualcosa di enorme nella resa dei conti tra gli ascari del Cavaliere e la fanteria finiana. E riguarda la politica estera. O per meglio dire la «diplomazia degli affari» del presidente del Consiglio e osannata dal suo pasdaran alla Farnesina. I deputati più vicini al presidente della Camera lo ripetono da giorni: tra le questioni da chiarire con urgenza, e trasparenza, c’è la «natura reale» dei rapporti di questi anni di Silvio Berlusconi con Muammar Gheddafi e Vladimir Putin. Un salto di qualità nella polemica. Che non può passare sotto silenzio. Le implicazioni sono gravissime e riguardano i condizionamenti e la ricattabilità di un primo ministro in campo internazionale e nei rapporti bilaterali con leader discussi quale il rais libico e l'uomo forte della Federazione Russa. Per il ministro degli Esteri, Franco Frattini, gli attacchi a Berlusconi su Gheddafi e Putin sono «un gesto di disperazione politica». E «stanno disonorando l’Italia». Ma le cose sono più complesse. E inquietanti. Perché da tempo, l'Unità ne ha dato conto, la «diplomazia degli affari» varata dal Cavaliere è sotto osservazione degli alleati europei e Usa. Dalla «diplomazia del ga» con la Russia di Putin agli appalti miliardari con la Libia di Gheddafi: c’è poco di «disperato» e di «sciocco» negli interrogativi sui punti oscuri di queste «relazioni pericolose». Molto si è parlato, l’Unità lo ha fatto prima degli altri,, del «Patto del gas» tra i due «amici» Berlusconi e Putin, via Eni e Gazprom, mal digerito alla Casa Bianca. La «diplomazia degli affari» sull'asse Roma-Mosca trascina voci e indiscrezioni, che chiamano in causa, pesantemente, aziende di intermediazione gestite da vecchie amicizie del Cavaliere, fino a evocare «dossier» esplosivi in mano all'ex capo del Kgb pronti a passare nelle mani dell'amico Silvio. La musica non cambia se da Mosca ci spostiamo a Tripoli.Con il leader libico, Berlusconi ha sottoscritto un Accordo di cooperazione bilaterale molto segnato da risarcimenti e intese economiche e finanziarie, e poco e niente sul rispetto dei diritti umani. Affari che investono gas, petrolio, infrastrutture, sistemi d'arma, ferrovie, banche... Qual è la «natura reale» dei rapporti tra il Cavaliere e il Colonnello? Ed è un caso che ad accompagnare sotto la tenda di Bengasi il Cavaliere nei giorni cruciali della «limatura» dell'Accordo Italia-Libia non è stato il ministro Frattini ma il finanziere franco-tunisino, oltre che produttore cinematografico, Tarak Ben Ammar? Ben Ammar, 61 anni, ricorda Il Foglio , è «l'uomo che ha in mano i rapporti economici con i libici», oltre ad essere consigliere di Mediobanca e di Telecom. Amico di vecchia data di Berlusconi, è stato membro del Cda di Mediaset. Scriveva lo spagnolo El Pais : «L’oscuro trattato bilaterale di amicizia firmato a Bengasi (Libia) nell’agosto del 2008 da Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi è stato fino ad ora controverso a causa del chiaro baratto di gas e petrolio con gli immigrati clandestini, che l’Italia ora restituisce alla Libia non rispettando il diritto diasilo. Una piccola notizia secondaria, apparsa a giugno scorso, era passata quasi inosservata. È l’acquisto, da parte della compagnia libica Lafitrade, del 10% di Quinta Communications. La Lafitrade, con sede olandese e controllo libico, porta alla famiglia Ghedddafi attraverso la Lafico. Quinta Communications è un’azienda produttrice e distributrice fondata nel 1990 dal finanziere franco-tunisino Tarak Ben Ammar, socio e amico intimo di Berlusconi. La principale società finanziaria del Cavaliere, Fininvest, possedeva alla fine del 2008 il 29,67% delle azioni di Quinta attraverso la lussemburghese Trefinance. Dopo l’aumento del capitale, Berlusconi mantiene circa il 22%....». La notizia dell’accordo privato tra Berlusconi e Gheddafi è ripresa da The Guardian , che sottolinea lo «sconcertante conflitto di interessi» e «un interesse comune in affari altamente discutibile». Domanda al combattivo Carmelo Briguglio, deputato «finiano» e membro del Copasir: qual è la «natura reale» dei rapporti tra il Cavaliere e il Colonnello? 13 agosto 2010 http://www.unita.it/news/italia/102335/quegli_oscuri_intrecci_di_interesse_tra_silvio_e_i_suoi_potenti_amici
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« Risposta #157 inserito:: Agosto 24, 2010, 10:17:37 pm » |
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Berlusconi e la ricerca dell'energia Boccone da 10 miliardi con Putin di U. De Giovannangeli Dal Colonnello allo «Zar». Dalle Tv all’«oro nero». Un affare da oltre 10 miliardi di dollari. Per costruire 900 km di tubazioni che dopo la profondità del Mar Nero attraverseranno solo Paesi dell’Unione europea, rafforzando il cordone ombelicale energetico con la Russia. Nasce sotto il segno del gas l’amicizia tra il Cavaliere e il nuovo «Zar» di Russia: Vladimir Putin. Le cronache rosa raccontano della prima volta di un estasiato Putin a Villa Certosa. Le cronache dell’epoca si soffermano sulle esibizioni canterine dell’immancabile Apicella, su bandane esibite dal premier e su spaghettate notturne. Ma quella esplosa tra Silvio e Vladimir non è un’amicizia disinteressata. Gli affari c’entrano, eccome se c’entrano. Perché ai ripari di occhi indiscreti, nella villa berlusconiana si gettano le basi per la maxifornitura che l’Eni avrebbe dovuto trattare con Gazprom. L’affare riguardava il prolungamento dal 2017 al 2027 dei contratti per 3 miliardi di metri cubi di metano che sarebbero dovuti arrivare in Italia attraverso una società «terza». E qui entra un amico di vecchia data del Cavaliere. Amico e socio. Pure lui. Si tratta del commendator Bruno Mentasti Granelli, erede della dinastia San Pellegrino (l'acqua minerale, poi ceduta a Nestlè), amico di famiglia di Berlusconi già socio del Cavaliere in Tele +. Dopo aver venduto la società dell’acqua con le bollicine Mentasti si è buttato nel business dell’energia con la società Central Energy Italia e nel 2003 è diventato l'uomo di fiducia sia di Berlusconi che dei russi di Gazprom. Qui una storia di affari assume i tratti di una spy story. In ballo c’è sempre Berlusconi e con lui l’amico Putin. Nell’ombra agisce un personaggio-chiave: il colonnello Alexander Medvedev (gradi dell'Fsb, l’ex Kgb) che tratta quale direttore generale di Gazexport, che redige i contratti esteri di Gazprom. Il colonnello Medvedev è un uomo di fiducia dell’allora inquilino del Cremlino, Un’amicizia cementata negli anni in cui “Zar Vladimir” era a capo del Kgb. È con Medvedev che s’incontra a Vienna l’allora presidente dell’Eni, Vittorio Mincato. Siamo alla fine dell’ottobre 2003. Il colonnello Medvedev consegna a Mincato un foglietto su cui è vergato il nome del commendator Mentasti. Il contratto Eni e Gazprom non viene siglato – Mincato non trova motivazioni plausibili nel coinvolgimento di una società privata, la Central Energy Italia - ma resta alle cronache il ruolo di grande intermediario della società gestita da Mentasti e “controllata da soggetti russi, alcuni dei quali riconducibili a Gazprom”, come scrive, in un articolo illuminante, Giuseppe Oddo sul Sole 24 Ore del 4 novembre 2005. Sono gli anni in cui le cronache danno conto di numerosi viaggi in Russia del il fratello del presidente del Consiglio, Paolo Berlusconi, del fondatore di Publitalia, Marcello Dell’Utri e dell’ex amministratore di Fininvest Ubaldo Livolsi alla ricerca del «Santo Gral» energetico. Senza grandi risultati. La ragione, secondo indiscrezioni attribuite a fonti bene informate, è nel rifiuto dell’ex amministratore delegato dell’Eni, Vittorio Mincato, che non ha mai dato il permesso a nessuno di far transitare altro gas dall’«imbuto» di Tarvisio, la connessione via Austria del gasdotto per la Siberia. Un particolare non del tutto secondario nel siluramento di Mincato dal vertice dell’Eni. Oggi come ieri siamo alle prese con transazioni miliardarie (in dollari), che «di mercato» non hanno mai avuto quasi niente, piuttosto politica, potere e intelligence. A ricucire i rapporti, e a firmare gli accordi, sarà qualche anno dopo una figura-chiave nella partita energetica (e politica) giocata dal Cavaliere. In Russia come in Libia: l’Ad dell’Eni. Paolo Scaroni. D’altronde Eni sembra sempre pronta a dare una mano al gigante russo, come il caso della vendita delle ex azioni Neft dimostra, quando Eni permise a Gazprom di mettere le mani sugli ex asset della Yukos, rivale di Gazprom e liquidata con il controverso arresto dell’ex proprietario (e nemico di Putin) Khodorkovskij. Ieri come oggi è la storia del Cavaliere venditore. E dei suoi amici interessati. La triangolazione del gas coinvolge anche la Libia. Gli accordi con Tripoli, infatti, rappresentano un ulteriore rafforzamento del duo Eni-Gazprom. Il gigante russo viene coinvolto anche in Elephant oil field, il giacimento libico di proprietà dell’Eni, e, in futuro, in Transmed e Greenstream, che porteranno petrolio dall’Africa all’Europa. Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter, e ascoltato consigliere di Barack Obama, così rispondeva alla domanda rivoltagli dal corrispondente negli Usa de La Stampa, Maurizio Molinari, su cosa ne pensasse del legame tra Putin e Berlusconi: ««È simile a quello che Putin ha con l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder». Schroeder lavora per la Gazprom, osserva l’intervistatore: «Intende dire che Berlusconi fa affari con Putin?» «La risposta che ho appena dato si spiega da sola», risponde Brzezinski. Ma non è di soli affari – per quanto miliardari – che si nutre l’amicizia tra il premier italiano e il vero padre-padrone della «nuova Russia». Ciò che unisce Berlusconi e Putin è una visione del potere, una concezione «deregolamentata» della democrazia, e una diffidenza, che spesso si trasforma in aperta ostilità, verso la stampa libera e una opposizione che osi parlare, e rivendicare, il pieno rispetto di spazi e regole di democrazia. Più della Bielorussia, più della Libia. Il super Paese-pacchia per il Cavaliere è la Russia dei nuovi oligarchi e dei loro protettori politici. La Russia di Vladimir Putin. Non c’è un atto compiuto dall’amico Vladimir che il Cavaliere non abbia difeso, se non dichiaratamente avallato. Ecco allora che i massacri compiuti dalle truppe russe in Cecenia vengano liquidati da berlusconi come una «leggenda» inventata da giornali ostili. Scriveva su La Stampa Barbara Spinelli: «Proprio lui, che si vanta d’aver costruito una visione del mondo sulla lotta al comunismo e che sempre ricorda i disastri prodotti dal totalitarismo comunista, abbraccia oggi un regime che di quel disastro è figlio e continuatore, e sul quale regna sempre più fortemente l’ex Kgb da cui Putin proviene….». Era il 2002. Sono passati otto anni d’allora. Otto anni in cui l’amicizia tra il Cavaliere e lo «Zar» non ha subito smagliature. «Berlusconi non solo mostra di non conoscere la Russia… Non conosce nemmeno da dove veniamo noi: da quale idea della democrazia, della correttezza istituzionale, della libertà di stampa. Finge di ignorare e mostra di sprezzare tutti coloro che, in nome di questa libertà, si oppongono oggi a Putin: giornalisti indipendenti come Anna Politkovskaja, che sulla Cecenia raccontano non già leggende ma fatti, ed ex dissidenti come Vladimir Bukowski, Sergej Kowaliov, o la vedova di Sacharov Elena Bonner….». Così rifletteva nello stesso articolo Barbara Spinelli. Anna Politkovskaja ha pagato con la vita il suo essere giornalista indipendente, scomoda al regime. E come lei sono stati eliminati altri giornalisti scomodi, attivisti dei diritti civili. Sulla Cecenia, Berlusconi non ha mai avuto dubbi: «In Cecenia c'è stata un'attività terroristica con molti attentati anche contro i cittadini russi senza che ci fosse mai una risposta corrispondente». L’amicizia fa chiudere gli occhi. Fa fare sconti incredibili. I dimostranti vengono presi a manganellate a poche centinaia di metri dallo stesso palazzo Kostantinovsky dove poche ore prima Berlusconi era stato ricevuto da Putin (15 aprile 2007)? Centinaia di oppositori vengono arrestati? La colpa, spiega il Cavaliere col colbacco, è della stampa che ha «gonfiato» la repressione delle manifestazioni a San Pietroburgo e Mosca. La verità, giura, è che al Russia è un Paese che crede nella democrazia: «Ma non in una democrazia di secondo piano». Nella «verità» capovolta del Cavaliere, i colpevoli sono i dimostranti: «Lo so - spiega - perché ero con Putin mentre parlava con il ministero dell'Interno: l'opposizione aveva organizzato manifestazioni in strade non concesse dal comune per questioni di traffico». Ecco tutto. Nulla di grave, in fondo. La polizia ha soltanto fatto il suo dovere. Per facilitare il traffico….». L’amicizia tutto giustifica. Cosa rappresenti il Cavaliere per il nuovo-vecchio potere moscovita, lo chiarisce benissimo il quotidiano Izvestia (di proprietà di Gazprom Media): Silvio è «l’avvocato difensore della Russia ...». Un avvocato con cui si possono stringere patti politici. E di affari. Il Gas. E non solo. 24 agosto 2010 http://www.unita.it/news/italia/102718/berlusconi_e_la_ricerca_dellenergia_boccone_da_miliardi_con_putin
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« Risposta #158 inserito:: Agosto 29, 2010, 08:59:03 pm » |
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Le vacanze romane di Gheddafi Fra proteste e caroselli a cavallo di U. De Giovannangeli Stavolta il contrordine non è arrivato. Il Colonnello, i purosangue, le tende beduine, le amazzoni con i baschi rossi e in alta uniforme, sono a Roma. Nessun rinvio, stavolta. Nessuna imbarazzata correzione dell’ultim’ora da parte della Farnesina. I fotoreporter, i cineoperatori, possono prendere d’assalto il super blindato aeroporto di Ciampino. L’appuntamento è a mezzogiorno. Gheddafi c’è. A ricevere il Raìs non sarà l’«amico Silvio» ma il ministro degli Esteri Franco Frattini. Resta il mistero su come il Colonnello trascorrerà la domenica romana. I primi appuntamenti ufficiali per i festeggiamenti del Trattato di Amicizia sono fissati per lunedì, a due anni esatti dalla firma dell’accordo di Bengasi del 30 agosto 2008. Ma anche stavolta non si escludono possibili «blitz» nelle strade della Capitale o più generici «incontri con la gente». DOMENICA LIBERA «Il leader ama fare queste cose...», raccontavano nel pomeriggio di ieri fonti libiche. E tornano alla mente le «serate di gala» dello scorso novembre, quando Gheddafi - a Roma per il vertice Fao - si fece reclutare centinaia di avvenenti ragazze da un’agenzia di hostess per impartire lezioni di Islam sotto la tenda. «Non sappiamo cosa vorranno fare questa volta i libici, decidono sempre all’ultimo minuto - raccontano dalla sede dell’agenzia che “servì” Gheddafi l’ultima volta -. Ci hanno contattato negli ultimi giorni per allertarci nel caso servisse, ma ci sembra di capire che se Gheddafi vorrà, inviterà solo alcune delle ragazze che ha già visto l’altra volta. Noi comunque - assicurano - siamo pronti per qualsiasi evenienza». Sorprese a parte, c’è già anche qualcosa di già definito. È confermato ad esempio che Gheddafi pianterà la sua inseparabile tenda beduina nella residenza dell’ambasciatore Abdulhafed Gaddur in un elegante quartiere a ridosso della Cassia (e non nel bel mezzo di Villa Pamphili, come nel giugno del 2009) e che domani pomeriggio inaugurerà assieme a Berlusconi una mostra fotografica sulla storia della Libia all’Accademia libica. SPETTACOLO ASSICURATO Il clou della serata sarà uno spettacolo equestre davanti a Berlusconi, Gheddafi e agli oltre 800 invitati che culminerà con le figure disegnate dal Carosello dei Carabinieri. Sarà sempre nella caserma «Salvo D’Acquisto» di Tor di Quinto, che il premier offrirà al suo ospite l’Iftar, la cena di interruzione del digiuno previsto nel mese di Ramadan. Fino a questo momento è l’ultimo appuntamento segnato in agenda, con Gheddafi che dovrebbe - ma il condizionale diventa d’obbligo - ripartire martedì. Nel frattempo, cresce la protesta. «Ancora non abbiamo visto un euro», denuncia l’Airl, l’associazione degli italiani rimpatriati dalla Libia. Dell’Airl, Giovanna Ortu, nata nel 1939 nel Paese africano da padre sardo e madre siciliana e cacciata assieme ad altre 20.000 persone nel luglio 1970, subito dopo la presa del potere da parte del colonnello Gheddafi nel settembre 1969, è la presidente. VOCI DI PROTESTA «Più che di risarcimento - spiega Ortu in un colloquio con l’Adnkronos - , si tratterebbe di un modesto indennizzo, rispetto ai 400 miliardi di lire al valore del 1970 che rivalutati sarebbero pari a circa 3 miliardi di euro di oggi; una somma praticamente pari ai 5 miliardi dollari destinati dal nostro governo alla Libia per i cosiddetti danni del colonialismo e pagati attraverso la costruzione di un’autostrada e altre opere urbanistiche, per i cui lavori sono comunque interessate aziende italiane: una sorta di “partita di giro” insomma. Ma la realtà è che anche di questo modesto indennizzo nelle nostre tasche non è arrivato finora nulla». A Berlusconi si rivolge anche l’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi chiedendogli «di rinegoziare in tempi rapidissimi gli accordi Italia-Libia in maniera tale che includano strumenti di garanzia del rispetto dei diritti umani, con il coinvolgimento delle istituzioni dell’Europa e dell’Onu». «Chiediamo inoltre - dice il responsabile generale, Giovanni Paolo Ramonda - la cessazione di ogni respingimento verso la Libia o verso ogni altro Paese che non garantisca il pieno rispetto dei diritti umani; la garanzia a tutti gli immigrati che cercano di raggiungere l’Italia di poter accedere alle procedure per la richiesta di asilo; il rispetto delle leggi del diritto del mare; la promozione di una politica seria per l’innalzamento dei finanziamenti ai progetti di sviluppo, unici in grado di combattere la povertà e quindi di agire sulla causa». L’associazione ricorda alle istituzioni italiane «che dal 7 maggio 2009, in aperto spregio delle norme internazionali sui diritti umani, il nostro Paese ha consegnato alle autorità libiche centinaia di donne, uomini e bambini, migranti e richiedenti asilo, che tentavano di raggiungere l’Europa imbarcandosi attraverso il Mediterraneo su mezzi di fortuna, rischiando la vita per sfuggire a persecuzioni, torture, guerre e condizioni di povertà estrema». 29 agosto 2010 http://www.unita.it/news/italia/102880/le_vacanze_romane_di_gheddafi_fra_proteste_e_caroselli_a_cavallo
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« Risposta #159 inserito:: Settembre 01, 2010, 03:05:38 pm » |
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In ginocchio dal dittatore L'avanspettacolo della diplomazia di Umberto De Giovannangeli Ci mancava solo questa: la diplomazia dell'avanspettacolo. Con protagonisti miliardari senza limiti di decenza. La diplomazia dei sermoni tenuti da un improbabile convertitore. La diplomazia degli ammiccamenti, del cappello in mano. Di un'amicizia personale ostentata, esibita con orgoglio. La diplomazia dell'indecenza. Roma ne è stata per due giorni la capitale. Protagonista assoluto: Muammar Gheddafi. Spalla compiaciuta: Silvio Berlusconi. Il Colonnello h fatto il bis. E ha voluto iniziare la sua seconda giornata capitolina riscoprendosi di nuovo imam. La platea è la stessa dell'altro ieri. Cambia solo il numero: stavolta ad ascoltare il leader libico ci sono 200 ragazze, trecento in meno del primo giorno. «In Libia la donna è più rispettata che in Occidente e negli Stati Uniti», evidenzia il raìs nel corso della seconda lezione di Corano. Accompagnando questa asserzione con l'invito alle sbigottite ragazze di sposare uomini libici. LEZIONE BIS A raccontarlo è una delle hostess, Elena Racoviciano, uscendo dall'Accademia libica dove si è tenuto l'incontro. Il raìs, spiega Elena, ha sottolineato che in Occidente «la donna fa dei lavori non consoni al proprio fisico». E ha posto come esempio il mestiere del macchinista dei treni: «Una donna può farlo ma è un lavoro troppo pesante, in Libia non sarebbe mai possibile». Elena ha poi aggiunto che prima di questo incontro le 200 hostess avevano un'idea sbagliata del ruolo della donna in Libia, dove - secondo quanto è emerso dall'incontro «è libera e rispettata». E il leader è stato molto attento alle "condizioni" delle ragazze che lo attendevano. «Gheddafi non voleva vederci in stato di disagio mentre lo aspettavamo. Anche per questo eravamo trecento in meno» rispetto al giorno precedente, precisa Elena. La seconda lezione si conclude come la prima: l'Islam «è l'ultima religione: se bisogna credere in una sola fede, deve essere quella di Maometto», sentenzia il Colonnello-Imam. In linea con il carattere mistico delle lezioni, niente pranzo, solo qualche drink per le 200 ragazze, e in regalo ad ognuna una copia del Corano e del Libro verde. La diplomazia dell'avanspettacolo si alimenta di incredibili particolari: la "conversione" all'Islam di tre ragazze suggellata l'altro ieri dal leader libico durante la prima lezione di Corano si è consumata tra le foto dello stesso Colonnello foto dello stesso colonnello da un lato e dall'altro del premier Silvio Berlusconi, affisse ai lati di un tavolo dove erano disposte varie copie del Corano. A raccontarlo a Sky Tg24 è Erika, le tre ragazze, riferisce, «erano felici e contente: Hanno acconsentito a cambiare nome e chissà cos'altro...». SOTTO LA TENDA Nella diplomazia dell'avanspettacolo, il Cavaliere fa il suo ingresso trionfale poco dopo le 17. L’incontro con il Colonnello avviene sotto la tenda beduina allestita nel giardino della residenza dell'ambasciatore libico e Roma. Nella tenda s'imbuca anche il titolare della Farnesina, Franco Frattini Il folklore s'intreccia con gli affari. Il “convertitore” si mostra munifico. E tra gli affari definiti sotto la tenda c'è la fornitura di un sistema satellitare di controllo delle frontiere terrestri libiche che sarà realizzato da Selex sistem di Finmeccanica. Tra Italia e Libia è un giro di affari, realizzato e potenziale, sull'ordine dei 25-30 miliardi di euro.«Il colloquio è andato bene, molto bene, si è parlato soprattutto di economia internazionale e di come uscire dalla crisi, ma anche di politica internazionale, soprattutto di Africa e Medio Oriente», afferma Frattini uscendo sorridente dalla tenda. L'incontro tra i due amici, Muammar e Silvio, dura una trentina di minuti. Insieme, a bordo di una mini-car elettrica, Berlusconi e Gheddafi lasciano poi la tenda, per raggiungere l'Accademia libica contigua alla residenza dell'ambasciatore di Tripoli a Roma. Con loro a bordo c'è anche il sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta. Per Gheddafi, abito tradizionale color biscotto su pantaloni bianchi e vistosi occhiali da sole che non si è mai tolto, neanche all'interno dell'Accademia durante la visita alla mostra fotografica. Il Cavaliere va via muto. Affari e hostess. Applauditissime esibizioni circensi, indimenticabili caroselli di purosangue, e l'attesa cena finale - alla Caserma dei carabinieri Salvo D'Acquisto di Tor di Quinto - per 800 selezionatissimi invitati, tra i quali spiccano i big dell'economia, della finanza, del sistema bancario italiani: da Eni a Fiat, da Unicredit a Finmeccanica, da Impregilo a Fonsai... Nessuno è voluto mancare, sperando in nuove commesse. Tutti si affollano attorno al raìs. Gli omaggi al Colonnello si susseguono sotto lo sguardo compiaciuto del presidente del Consiglio, che loda lo statista di Tripoli: Muammar è «un vero amico dell'Italia». Di diritti umani violati neanche un accenno. La diplomazia dell'avanspettacolo, e degli affari, non lo contempla. 31 agosto 2010 http://www.unita.it/news/italia/102943/in_ginocchio_dal_dittatore_lavanspettacolo_della_diplomazia
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« Risposta #160 inserito:: Settembre 01, 2010, 10:49:50 pm » |
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Frattini, piazzista di Tripoli: porta in Europa il ricatto libico di Umberto De Giovannangeli Dalla diplomazia degli affari a quella del ricatto. Un Paese trasformato nell’«Ambasciata di Libia» in Europa. È l’Italia del Cavaliere. Non è folklore. È farsi carico del «ricatto» del Colonnello all’Ue. Muammar Gheddafi ha concluso ieri la sua visita-show a Roma affidando un incarico pressante all’«amico Silvio»: farsi parte attiva con l’Europa perché sia sancito il ruolo della Libia come Gendarme del Mediterraneo. Il raìs ha fissato anche il prezzo: 5 miliardi di euro all’anno. FRANCO IN CAMPO L'Italia - aveva affermato Gheddafi l’altra notte dal palco della caserma “Salvo D’Acquisto” - deve convincere i suoi alleati ad accettare la proposta libica». perché, secondo il Colonnello, c'è il rischio che l'Europa, davanti a milioni di immigrati che dall'Africa attraversano il Mediterraneo, «potrebbe diventare nera, così come», in passato, «popolazioni provenienti dall'Asia» si sono stanziate nel vecchio continente. La Libia, aveva aggiunto il Rais-Gendarme, «è l'ingresso dell'immigrazione non gradita» e, senza un contrasto efficace, «non possiamo sapere cosa accadrà. Contrastare l'immigrazione clandestina è un'opera grande per l'Europa e per tutta l'Africa. Bisogna fermarla sulle frontiere libiche», aveva concluso Gheddafi. Il mandato è chiaro: farsi piazzisti in Europa del «modello» Italia-Libia. Inteso nella versione osannata dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni: repressione e impedimenti. Gestiti dalla Libia. Pagati dall’Italia. E, Gheddafi docet, in un futuro che deve farsi presente, dall’Europa. Con l’eccezione della Francia del «Respingitore» Sarkozy, l’Europa ha assistito con imbarazzo e sconcerto alla «colonizzazione» libica del Belpaese. IRRITAZIONE E IMBARAZZO Si spiega così l’irata uscita di Frattini: Attorno alla visita di Gheddafi a Roma «c'è molta speculazione politica misera ai danni dell'Italia», tuona il ministro degli Esteri, a margine di un incontro alla University of Washington a Roma. «Abbiamo visto sulla stampa internazionale grande enfasi sugli affari, sull'aumento dei rapporti economici italo-libici, e questo - sottolinea il titolare della Farnesina - viene fatto legittimamente dai nostri competitor, cioè quelli che gli affari vorrebbero farli loro al posto dell'Italia». 01 settembre 2010 http://www.unita.it/news/italia/102984/frattini_piazzista_di_tripoli_porta_in_europa_il_ricatto_libico
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« Risposta #161 inserito:: Settembre 16, 2010, 04:37:42 pm » |
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Sparare si può? «Pensavano fossero migranti». E la Lega insorge di U. De Giovannangeli «Io immagino che abbiano scambiato il peschereccio per una nave di clandestini». Parola di Roberto Maroni, ministro dell’Interno della Repubblica italiana. Parole incredibili. Parole agghiaccianti. L’«immaginazione» del titolare del Viminale rimanda a scenari inquietanti. A non detti terrificanti: hanno scambiato il peschereccio (italiano) per una nave con clandestini. Domanda: signor ministro, ma su una nave di clandestini è lecito, giustificabile, sparare mitragliate ad altezza d’uomo? E farlo usando motovedette regalate dall’Italia al «Gendarme del Mediterraneo», al secolo Muammar Gheddafi? Domande che restano senza risposta. Per il Governo italiano gli spari contro il peschereccio «Ariete» sono da considerare un «incidente». SOLO UN INCIDENTE «Penso che si sia trattato di un incidente grave, ma pur sempre un incidente: studieremo le misure perché non accada più, quello che è successo l’altro ieri sera (domenica, ndr) è un fatto che non doveva accadere e la Libia si è scusata», ripete Maroni a Mattino5. Un incidente... Ben diversa è la valutazione della Procura di Agrigento. Danneggiamento di navi e tentativo di omicidio plurimo aggravato: sono i reati ipotizzati, contro ignoti, dalla Procura della Repubblica di Agrigento che coordina l’inchiesta sul motopesca «Ariete» mitragliato da una motovedetta libica sulla quale erano presenti anche alcuni militari italiani come osservatori. Titolari dell’inchiesta sono il procuratore capo Renato Di Natale, l’aggiunto Ignazio Fonzo e il sostituto Luca Sciarretta. IL CAPITANO CONTRATTACCA «Era evidente chi fossimo: dei pescatori italiani. Glielo avevo detto prima dell’attacco». Gaspare Marrone, il capitano dell’«Ariete», conferma la sua versione di fatti. E rifiuta l’ipotesi dell’«equivoco» avanzata da Maroni. «Non so perché il ministro dica queste cose - spiega - ma tutto si può affermare tranne che sia stato un incidente. Nè è possibile sostenere che ci abbiano scambiati per clandestini. Hanno sparato per colpirci e potevano ucciderci». Il comandante Marrone torna su quei momenti drammatici: «Ho parlato col comandante che mi ha chiesto di fermarmi . L’italiano mi ha detto che se non mi fossi fermato, mi avrebbero sparato addosso. Parlava italiano meglio di me», racconta Marrone, riferendo che l’uomo «si era presentato come guardia costiera o di finanza libica, non ricordo bene. C'era agitazione». «Potevano controllarmi, ma dopo 5 minuti invece hanno cominciato a sparare e io sono sceso giù. C’era il pilota automatico, sparavano ad altezza d'uomo». «Un peschereccio italiano che viene mitragliato da una motovedetta donata alla Libia dal governo italiano e che a bordo aveva militari italiani della Guardia di Finanza è certamente un caso anomalo», sottolinea Vincenzo Asaro, armatore del peschereccio mazarese. «Il mio rammarico - dice Asaro - è che si è sparato ugualmente nonostante la presenza sulla motovedetta libica dei militari italiani». L’armatore non nasconde stupore e amarezza per le dichiarazioni del ministro Maroni che ha definito un «incidente» la vicenda: «Se i colpi di mitragliatrice avessero perforato la bombola del gas e fossero saltati tutti in aria - si chiede - che sarebbe accaduto? Si sarebbe sempre parlato di incidente? Non posso entrare nel merito di quello che ha dichiarato il ministro perché non mi compete, ma sa perché i comandanti dei nostri pescherecci non si fermano all’alt dei libici? Una volta in Libia confiscano la barca e mettono in carcere l’equipaggio». A dar man forte al suo collega di governo, scende in campo Franco Frattini. Il comandante del peschereccio “Ariete” «sapeva di pescare illegalmente», sentenzia il titolare della Farnesina. «Le regole di ingaggio - puntualizza però il ministro degli Esteri - devono essere chiare. La regola di non sparare è assoluta ed evidente per le forze italiane». E per quelle libiche, signor ministro? 15 settembre 2010 http://www.unita.it/news/italia/103551/sparare_si_pu_pensavano_fossero_migranti_e_la_lega_insorge
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« Risposta #162 inserito:: Ottobre 22, 2011, 06:09:22 pm » |
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Libia e debito Ue, Berlusconi? Non esiste di Umberto De Giovannangeli Neanche un sms. Emarginati anche nell’ultimo atto della guerra in Libia. Nonostante le basi concesse, nonostante le missioni aeree condotte. Erano passate poche ore dalla conferma della morte di Muammar Gheddafi, che la «diplomazia delle videoconferenze» riprende a funzionare. A prendere l’iniziativa è la Casa Bianca. Interlocutori di Barack Obama sono il presidente francese Nicolas Sarkozy e il primo ministro britannico David Cameron. L’Italia non c’è. Neanche un sms. Esclusione umiliante, Tanto più che non riguarda solo la Libia. Nella stessa giornata - l’altro ieri - poco della fine del Colonnello, Obama tiene un’altra videoconferenza. Stavolta il tema, non meno scottante, riguarda gli sviluppi della crisi del debito europea. A discuterne, stavolta, sono in quattro: i «tre della Libia» - Obama, Sarkozy e Cameron - e la cancelliera tedesca Angela Merkel (a comunicarlo è la Casa Bianca). Neanche in questa occasione, Silvio Berlusconi viene interpellato. Semplicemente, non esiste. Trattativa in notturna Il caos libico si estende a Bruxelles. La riunione degli ambasciatori del Consiglio Atlantico si protrae oltre il previsto. Alla fine, dopo ore ed ore, finalmente l’annuncio di Rasmussen: «La Nato metterà fine alla missione in Libia il 31 ottobre». In realtà, cominciata poco prima delle 17, al quartier generale della Nato a Bruxelles sembrava quasi impossibile trovare la quadra. Una conferenza stampa del segretario generale era stata annunciata per le 18, poi è stata rinviata. L’impressione, suffragata da diverse fonti anonime e dalle dichiarazioni ufficiali dei giorni scorsi, è che non ci sia ancora una linea condivisa sul futuro in Libia. È stato lo stesso ammiraglio James Stavridis, comandante supremo della Nato per l’Europa, a proporre la fine della missione con un post su Facebook. Linea condivisa dal presidente francese Nicolas Sarkozy, che da Parigi ha ribadito la posizione della Francia, contraria a un proseguimento delle operazioni militari alleate: «La missione sta chiaramente arrivando alla fine». Londra frena Il ministro degli Esteri britannico, William Hague, da Londra ha invece affermato che la morte di Gheddafi «avvicina molto» la fine delle operazioni aggiungendo però di pensare che «noi vorremo essere sicuri che non ci siano ancora sacche di forze filo-Gheddafi ancora in grado di minacciare la popolazione civile». Comunque vada, la chiusura delle operazioni militari, sarà con tutta probabilità graduale. L’Alleanza dovrà verificare se vi siano le condizioni di sicurezza per i civili e se le nuove autorità libiche siano in grado di mantenere il controllo e la pace nel Paese. Anche Rasmussenn, nel pomeriggio, aveva sostenuto che il momento di dichiarare concluse le operazione «è molto più vicino. Concluderemo la missione coordinandoci con l’Onu e il Cnt». E sulla stessa linea si è espresso anche il presidente americano Barack Obama. «Tutto lascia immaginare che l’operazione non durerà ancora per molto», hanno confermato fonti diplomatiche a Bruxelles. Certo, osservano le stesse fonti, la morte del Colonnello non era l’obiettivo della missione, avviata in base alle risoluzioni approvate dal Consiglio di sicurezza dell’Onu per proteggere la popolazione civile. Ma in ogni caso «dovrebbe essere al massimo una questione di giorni. La decisione sullo stop alle azioni dovrà comunque essere presa dal Consiglio Atlantico». A Bruxelles si discute nella notte per trovare un punto d’incontro tra Londra e Parigi. L’operazione della Nato in Libia aveva preso il via il 31 marzo scorso. Fino a oggi gli aerei delle forze dell’Alleanza hanno compiuto oltre 26 mila missioni, di cui 9.618 considerate d’attacco, cioè contro obiettivi specifici. Il 21 settembre la durata della missione era stata prolungata di tre mesi. 22 ottobre 2011 da - http://www.unita.it/mondo/libia-e-debito-ue-berlusconi-non-esiste-1.344694
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« Risposta #163 inserito:: Ottobre 24, 2011, 05:24:57 pm » |
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Berlusconi tra gli eredi del raìs? In ballo oltre 200 miliardidi Umberto De Giovannangeli Oltre 200 miliardi di dollari. È il tesoro che Muammar Gheddafi è riuscito a nascondere all’estero. A rivelarlo è il Los Angeles Times online citando alti ufficiali dell’amministrazione libica. Quei 200miliardi di dollari arricchiscono la «torta libica». Una torta da centinaia di miliardi di dollari, legati allo sfruttamento delle risorse petrolifere ma anche alla ricostruzione del Paese. L’eredità del raìs fa gola a molti. Anche in Italia. Tra questi, ci sarebbe il Cavaliere. «Più vicina ora l’eredità del socio Berlusconi, dopo la morte di Gheddafi, che insieme all’altro socio Tarak Ben Hammar hanno la partecipazione della Quinta Communications acquistata due anni fa dalla famiglia del raìs», rimarca in proposito il senatore dell’Italia dei Valori e capogruppo del partito in commissione Esteri Stefano Pedica. Nel 2009 Gheddafi era entrato col suo capitale nella società messa in piedi vent’anni fa da Berlusconi e Ben Hammar per la produzione e distribuzione di film. Due anni fa il coup de théâtre: Gheddafi viene inglobato nella società, da allora non risulta sia cambiato nulla - continua Pedica - anzi l’ultima precisazione è del marzo scorso, quando lo stesso BenHamnmardichiarò: «Il fondo sovrano libico Lybian Investment Authority, attraverso la società Lafi Trade, è presente con il 10% in Quinta Communications S.A, società di diritto francese controllata al 68% dal finanziere franco tunisino Tarak Ben Ammar, dove è presente anche la Fininvest, con una quota del 22% detenuta attraverso la controllata lussemburghese Trefinance». «Abbiamo le carte- insiste Pedica - e spiegheremo perché siamo convinti di essere di fronte ad un palese conflitto di interessi del presidente del Consiglio». Da (ex) amico a erede. Affari e fondi sovrani. Petrolio e ricostruzione. Armi e infrastrutture. 140 miliardi di dollari: è l’ammontare dei contratti sottoscritti complessivamente con il regime di Gheddafi dalle 130 aziende italiane impegnate in Libia. In ordine sparso, solo per citarne alcune: Eni, Enel, Finmeccanica, Ansaldo, Iveco spa, Augusta-Westland, Alenia Aermacchi, Oto Melara, Intermarine spa, Selex Sistemi Integrati, Mbda Italia. E ancora: Telecome Alitalia, Edison e Grimaldi, Alenia Aermacchi e Martini silos, Gruppo Trevi e Impregilo, Italcementi e Astaldi, queste ultime impegnate nell’opera di infrastrutturazione della Libia, a partire dai 1.700 km della nuova superstrada Rass Ajdir-Imsaad, la cui realizzazione è stata affidata, dagli uomini del Colonnello, a imprese italiane. L’asse degli affari Tripoli-Roma investe anche le Banche, settore sul quale la Libia ha messo gli occhi e anche molti soldi. La Libyan Investments Autorithy - il braccio finanziario di Gheddafi nato con lo scopodi gestire i proventi del petrolio - ha incrementato (2010) la propria partecipazione in Unicredit, facendo così lievitare l’intera compagine libica oltre il 7,5%, visto che la Banca Centrale Libica e la Libyan Arab Foreign Bank sono insieme titolari del 4,98%.Nel 2002 il fondo Lafico ha acquistato il 5,31%della Juventus calcio, corrispondente a circa 6,4 milioni di euro in azioni. Nel 2009 la partecipazione è salita al 7,5 per cento. Il fondo libico possiede azioni di Mediobanca per 500 milioni di dollari, e il26%di Olcese, un’azienda tessile. Nel 2000 il fondo è tornato a investire in Fiat, acquistando il 2% delle azioni della fabbrica automobilistica. Oggi la Libia possiede una quota di Fiat di poco inferiore al 2%. Dalle banche alle costruzioni. La voce più importante è quella relativa all’Autostrada sulla costa mediterranea libica: il Trattato di amicizia - sottoscritto nell’agosto 2008 da Berlusconi e Gheddafi - prevede che Romaversi a Tripoli 5 miliardi di dollari per la realizzazione dell’opera alla quale partecipano 21 imprese italiane. Sempre nel settore, è da registrare che a Lybian Development Investment Co si è associata con l’Impregilo Lidco, che ha ottenuto contratti per 1 miliardo di euro per la costruzione di tre centri universitari e infrastrutture a Tripoli e Misurata. Venti miliardi di dollari: è quanto ha investito l’Eni in Libia. Negli ultimi 10 anni la società petrolifera italiana ha investito lì 50 miliardi di dollari. Nel2009 Finmeccanica ha sottoscritto un memorandum d’intesa col governo libico per la cooperazione in un vasto numero di progetti in Libia, Medio Oriente e Africa. L’accordo prevede la creazione di una joint venture di cui faranno parte Finmeccanica e il fondo Lafico. Da gennaio iI fondo Lia detiene il 2,01% di Finmeccanica. La società italiana ha vinto diversi contratti d’appalto in Libia, tra cui uno del valore di 247 milioni di euro per la costruzione di una ferrovia. Nel gennaio 2008 Alenia Aeronautica, altra società del gruppo Finmeccanica, ha siglato con il ministero dell’Interno libico un contratto daoltre31milioni di euro per la fornitura del velivolo da pattugliamento marittimo ATR-42MP Surveyor. La nuova Libia dovrà dotarsi di regole sulla concessione di appalti petroliferi e non deve affidarsi a scelte politiche. Il monito viene dal primo ministro del Cnt, Mahmoud Jibril. «Avviso il nuovo governo che le regole economiche dovrebbero essere la Regola. È molto pericoloso avere contratti politici». Tutti i contratti saranno mantenuti, ripete il ministro Frattini. Ma sono in molti a dubitarne. 23 ottobre 2011 da - http://www.unita.it/italia/berlusconi-tra-gli-eredi-del-rais-br-in-ballo-oltre-200-miliardi-1.345141
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« Risposta #164 inserito:: Dicembre 30, 2011, 11:12:21 pm » |
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Così può cambiare il mondo dopo l'intesa Cina-Giappone Di Umberto De Giovannangeli 29 dicembre 2011 La Corea del Nord era e resterà un Paese in cui i diritti umani non hanno corso. Per quanto riguarda il lascito di Kim-Jong-il, il macigno che pesa sul futuro del Paese è quello di una economia di guerra e come tale continua a impoverire la Corea del Nord». A sostenerlo è Alessandro Politi, analista strategico. Dall’uscita di scena del «Caro leader» nordcoreano al patto tra Giganti, Giappone e Cina: «Questo patto - osserva Politi - nasce dalla grande crisi americana che ha contagiato il resto del mondo. Tanto il Giappone quanto la Cina sono grandi creditori degli Stati Uniti: in questo modo, con l’accordo monetario, l’interscambio tra i due Paesi salta la mediazione del dollaro. E questa naturalmente non è una buona notizia per Washington». La Corea del Nord ha dato l’ultimo saluto il «Caro leader» Kim-Jong-il. Ora si guarda al futuro. Quali gli scenari possibili anche in una chiave geopolitica? «In chiave geopolitica, il serio problemi per tutti gli attori è la riunificazione delle due Coree. Perché ciò cambierebbe gli equilibri consolidati dal 1953, oltre che creare, almeno all’inizio, una grave crisi umanitaria. È vero che ci sono state conversazioni private tra un alto diplomatico nordcoreano e due alti funzionari cinesi, i quali hanno affermato che una Corea riunificata ma non ostile alla Cina, sarebbe stata accettata, in linea di principio, da Pechino, a patto che non vi fossero dislocamenti americani a Nord della zona smilitarizzata. Osservatori locali prevedono un possibile collasso di Pyongyang nel giro di 2-3 anni, e quindi si comincia a pensare di coordinare gli sforzi in caso di crisi». C’è chi ha parlato, riferendosi a quelle ripetute scene di pianto collettivo, di disperazione manifesta per la morte di Kim-Jong-il, della Corea del Nord come di una «necrocrazia». È così? «In realtà quando muore un dittatore le scene di pianto sono frequenti. Bisogna capire chi prova delle emozioni reali e chi si accoda per opportunismo. Al di là dei pianti, il lascito di Kim-Jong-il è che ancora non si è resa sostenibile l’economia nordcoreana, che resta una economia di guerra e come tale continua a impoverire il Paese». E sul piano dei diritti umani? «In quel Paese non hanno diritto di cittadinanza, semplicemente non esistono. La Corea del Nord era e resta un Paese totalitario e praticamente sotto legge marziale». C’è chi impoverisce e chi, invece, stringe patti tra Giganti: il patto monetario Cina-Giappone. Quale lettura dare di questa iniziativa? «Innanzitutto questo patto nasce dalla grande crisi americana che ha contagiato il resto del mondo. Tanto il Giappone quanto la Cina sono grandi creditori degli Stati Uniti: in questo modo, con l’accordo monetario, l’interscambio tra i due Paesi salta la mediazione del dollaro. Questa naturalmente non è una buona notizia per Washington, anche perché porta un tradizionale alleato degli Usa, il Giappone, più vicino a Pechino. Poiché ci sono dei capitali che escono dalla Cina, c’è anche una disponibilità giapponese a comprare il debito cinese. In questo contesto, il debito americano e quello europeo diventano molto meno interessanti». L’anno che viene, il 2012, si prospetta sempre più come l’anno dell’Asia? «Non necessariamente, ma sarà un anno vissuto pericolosamente. Sarà l’anno in cui si possono porre le basi per uscire dalla crisi nel 2015, oppure cominciare ad inasprire l’attuale guerra finanziaria e rischiare, nel medio periodo, una vera e propria guerra». La nuova governance mondiale tende sempre più ad essere «asia-centrica»? «Direi di no, il problema è che è finito l’ordine mondiale ed è stato sostituito da un sistema di riferimento internazionale che somiglia ad un mercato dei cambi politico. Ciò che manca sono i vecchi riferimenti. Oggi i Paesi del cosiddetto “Brics” (Brasile, India, Cina, Sud Africa), non hanno né la voglia né la possibilità di avere un ruolo di guida mondiale». E chi è destinato a riempire questo vuoto? «Per ora nessuno. Il vuoto viene riempito da accordi temporanei fra potenze instabili, e quindi siamo in una situazione di equilibri fluidi». Per tornare al patto Cina-Giappone. C’è chi sostiene che gli affari riunificano i Nemici di un tempo. «Mi pare una lettura un po’ forzata. Quel patto è il risultato di una risposta tattica ad una crisi strategica, e quindi il nemico di ieri diventa il compagno di strada di oggi. Infatti, mentre c’è un movimento di avvicinamento tra Giappone, Cina e Corea del Sud basato su interessi economici, non c’è ancora una visione complessiva dello scacchiere, tanto è vero che le rispettive società sono ancora molto nazionaliste». da - http://www.unita.it/mondo/politi-l-intesa-cina-giappone-br-puo-cambiare-gli-equilibri-mondiali-1.366971
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