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Autore Discussione: Umberto DE GIOVANNANGELI -  (Letto 92918 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Marzo 04, 2008, 04:51:21 pm »

Salam Fayyad: «Il dialogo è stato rotto, l’Anp ora tenterà una tregua»

Umberto De Giovannangeli


L’annuncio della fine di «Inverno caldo», l’operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza, non attenua la sua rabbia per ciò che è avvenuto. Riusciamo a parlare per pochi minuti con Salam Fayyad, primo ministro palestinese, ma quei pochi minuti danno conto di una lacerazione nei rapporti con le autorità israeliane che non sarà facile ricucire.

Signor primo ministro, Israele ha appena annunciato il ritiro dei suoi soldati da Gaza. Qual è la sua reazione a caldo?
«Quei soldati lasciano dietro di loro morte e distruzione. Ciò che è avvenuto in questi giorni a Gaza è un fatto di straordinaria gravità. Abbiamo dovuto subire una aggressione senza precedenti, la più grave dopo il 1967 (l’occupazione dei territori palestinesi dopo la Guerra dei sei giorni, ndr.). Malgrado l’annuncio del ritiro, la situazione rimane estremamente grave. Lo ripeto: ciò che è avvenuto in questi giorni supera in peggio quello che noi palestinesi dovemmo subire dopo l’occupazione del 1967».

Cosa l’ha più colpito di ciò che è avvenuto in questi giorni a Gaza?
«Le vittime civili. Le donne, i bambini uccisi nell’offensiva israeliana. Diciassette bambini sono stati uccisi e oltre cento feriti. Una enormità. E nessuno venga a dire che si è trattato di uno spiacevole incidente».

Signor primo ministro, in queste ore Hamas festeggia il ritiro israeliano cantando vittoria.
«Il cinismo di Hamas non sembra conoscere limiti. Come si può esultare di fronte a quanto è accaduto in questi giorni? Hamas porta pesantissime responsabilità per la condizione disastrosa in cui versa la popolazione della Striscia. Il loro comportamento irresponsabile ha favorito il pugno di ferro israeliano».

Nel vivo delle operazioni militari, il presidente Abu Mazen ha annunciato il blocco di tutti i rapporti con Israele. Dopo l’annuncio del ritiro israeliano il negoziato riprenderà?
«Discuteremo sul da farsi. Di certo, nessuno potrà far finta che non sia successo nulla in questi giorni. Ma il nostro impegno per raggiungere una pace giusta, duratura, che porti alla nascita di uno Stato palestinese indipendente a fianco di Israele, non verrà meno. Nell’immediato siamo pronti a operare perché si giunga ad una tregua totale con Israele. Per noi la priorità assoluta è oggi quella di evitare un nuovo bagno di sangue».

In passato, Lei ha chiesto una protezione internazionale per la popolazione di Gaza. È ancora di questo avviso?
«Ancora di più. Mai come oggi è necessario che la comunità internazionale si assume responsabilità dirette e concrete sul campo. Per questo torno a chiedere la dislocazione di una forza internazionale a Gaza. D’altro canto, l’asserito ritiro dell’esercito israeliano dalla Striscia non deve far dimenticare che da tempo è in atto a Gaza una tragedia umanitaria che riguarda un milione e quattrocentomila essere umani. Faccio mie le parole del segretario generale delle Nazioni Unite: il diritto all’autodifesa non giustifica le punizioni collettive inflitte alla popolazione civile di Gaza, esse sono contrarie al diritto internazionale e alla stessa Convenzione di Ginevra».

Nei mesi scorsi, Lei ha messo a punto un piano, sostenuto dall’Egitto, per il passaggio del controllo dei valichi di frontiera tra Gaza e Israele, e tra Gaza e l’Egitto, alle forze di sicurezza dell’Anp. Questo piano è ancora attuabile?
«Al primo ministro Olmert ho ripetuto più volte che siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità in materia di sicurezza. Ma con il suo comportamento, Israele finisce per rendere impraticabile questo disegno. Guardi cosa è avvenuto a Nablus (la più popolosa città della Cisgiordania, ndr.): avevamo fatto uno sforzo straordinario per ristabilire ordine e legalità schierando sul terreno centinaia di agenti. Ebbene, dopo qualche giorno l’esercito israeliano è entrato a Nablus, vanificando il nostro sforzo. È come se fossimo in "libertà" vigilata. Una condizione che non aiuta certo il dialogo».

(ha collaborato Osama Hamadan)


Pubblicato il: 04.03.08
Modificato il: 04.03.08 alle ore 10.24   
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« Risposta #46 inserito:: Marzo 08, 2008, 04:43:32 pm »

La diplomazia del terrore

Umberto De Giovannangeli


La strage al collegio rabbinico di Gerusalemme porta in sé una conferma e una novità. Entrambe inquietanti per il futuro della martoriata Terrasanta e di ciò che resta delle speranze di pace fra israeliani e palestinesi. La conferma è che in Medio Oriente il vuoto dell’iniziativa diplomatica è sempre riempito dalla «diplomazia del terrore». Ogni incertezza, ogni ritardo nel perseguire con coerenza e determinazione la via del negoziato, ha come tragico contraltare il rilancio dell’iniziativa jihadista. È il passato che torna a farsi presente che lo insegna. Così come insegna che il sacrosanto diritto alla sicurezza di Israele non può sostanziarsi né trovare scorciatoie nel solo esercizio della forza. È una constatazione oggettiva che nulla concede alla proganda del radicalismo palestinese né vuol concedere alibi a chi sfrutta una tragedia vera - quella della popolazione civile di Gaza - per propagandare, e praticare, l’odio antiebraico.

Nessuna causa, nessun diritto alienato possono minimamente giustificare stragi come quella perpetrata in un collegio rabbinico da chi, a Teheran come a Beirut, in un sotterraneo di Gaza o in una grotta ai confini tra Pakistan e Afghanistan, ha solo un disegno in testa: cacciare gli Ebrei dalla «terra dell’Islam». Il massacro degli studenti racconta molte amare verita: che il Muro edificato in Cisgiordania non basta a fermare il terrorismo e che per quanto Israele possa potenziare la sua intelligence e rafforzare Tsahal, le sue forze armate, non potrà mai garantirsi, su questa strada, una totale impenetrabilità. Per questo, richiamare oggi la necessità di rilanciare il dialogo con l’Autorità nazionale palestinese di Mahmud Abbas (Abu Mazen) è l’esatto opposto del consegnarsi all’impotenza o tentare di legare le mani a Israele: il negoziato resta la via da seguire, per quanto contorta e irta di ostacoli essa sia. Così come ribadire lo stretto, inscindibile legame tra il diritto alla sicurezza di Israele e il diritto dei palestinesi ad uno Stato indipendente, non è un sacrificio chiesto, tanto meno imposto a Israele, ma è il vero aiuto che i veri amici di Israele possono dare a un popolo e a uno Stato che hanno diritto ad una esistenza non più trascorsa in trincea. Si fa l’interesse di Israele se si fa l’interesse della maggioranza dei palestinesi che nulla ha a che spartire con i proclami jihadisti e la pratica del terrore di una minoranza oltranzista. La pace è anche rinuncia. È una sottrazione consapevole, indispensabile per mantenere in vita ciò che è essenziale. E per Israele ciò significa preservare l’identità ebraica dello Stato e il fondamento democratico del suo essere Nazione. Ma la difesa di questi pilastri identitari non può conciliarsi con il mantenimento del controllo dei Territori palestinesi. La novità che prende corpo dalla strage di Gerusalemme è la frammentazione dell’«universo-Hamas», con l’ormai avvenuta marginalizzazione dell’ala «pragmatica» del movimento integralista. A comandare oggi sono i nuovi capi di Ezzedin al-Qassam, il braccio armato che è ormai diventato anche la «mente» politica dell’organizzazione. E quei capi rispondono sempre più a sollecitazioni esterne, a logiche che intendono fare del Medio Oriente - dalla Palestina al Libano, dall’Iraq al Golfo Persico, un unico campo di battaglia. La guerra del terrore si regionalizza e nel farlo arruola le frange estreme dell’Intifada palestinese nell’esercito del Jihad globalizzato. Non è un caso che la prima rivendicazione dell’attacco al collegio rabbinico sia venuta non da un comunicato diffuso a Gaza ma da un annuncio trasmesso dalla tv del libanese Hezbollah. Di fronte a questo terribile, quanto realistico, scenario, la comunità internazionale non può limitarsi a declamare le solite parole di condanna e a ripetere stancamente gli appelli alla moderazione. È tempo di assumersi responsabilità sul campo. Come è avvenuto in Libano. Contro la regionalizzazione del terrore c’è una unica risposta da tentare: l’internazionalizzazione della sicurezza di Israele e dei palestinesi che oggi sono ostaggi dell’esercito jihadista. Il che vuol dire, con il consenso preventivo del governo israeliano e dell’Anp e l’autorizzazione delle Nazioni Unite, dislocare una forza di interposizione tra Gaza e Israele con l’obiettivo dichiarato di impedire ulteriori aggressioni contro Israele e la devastante reazione militare israeliane che finisce, come è avvenuto nei giorni scorsi, per mietere vittime innocenti tra i civili di Gaza. Questo impegno, certo, comporta dei rischi. Gli stessi che i militari dell’Unifil, molti dei quali italiani, sanno di poter correre in Libano. Ma questi rischi vanno affrontati se si vuol davvero dare una chance alla pace.

Pubblicato il: 08.03.08
Modificato il: 08.03.08 alle ore 12.41   
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« Risposta #47 inserito:: Marzo 12, 2008, 10:37:09 pm »

«Per Clinton sarà una settimana di passione»

Umberto De Giovannangeli


«Eliot Spitzer ha costruito le sue fortune politiche sull’immagine del pubblico ministero inflessibile, tutto legge e ordine. Quelle leggi che ora ha violato per coprire ogni traccia dello scandalo “a luci rosse”». A parlare è Carol Beebe Tarantelli, profonda conoscitrice del «pianeta Usa», dove è nata, ha studiato e conseguito il Bachelor of Arts al Wellesley College, il Master of Arts all’University of Michigan e il PhD alla Brandeis University. «Se i grandi mass media cavalcheranno questa vicenda - sottolinea Carol Tarantelli - ciò vorrà dire che hanno deciso di schierarsi con Obama».

Quanto potrà pesare lo scandalo sessuale che ha coinvolto il governatore dello Stato di New York, Eliot Spitzer, negli orientamenti dell’opinione pubblica americana?

«L’opinione pubblica americana è molto meno bigotta di quanto si creda in Europa. No, il problema non è la gente, il problema è Eliot Spitzer, il suo passato da pubblico ministero che nella sua carriera si è fatto moltissimi nemici, ed oggi sarà molto difficile che, nel momento della disgrazia, potrà attendersi molti alleati. Penso che troverà poche persone, nell’establishment politico, pronte a spendersi per lui. Per chi ha costruito le sue fortune politiche sull’immagine dell’uomo pubblico inflessibile, tutto legge e ordine, come il grande moralizzatore di New York, adesso deve attendersi il contraccolpo, tanto più che lo scandalo che lo coinvolge è molto più scabroso di quello che rischiò di travolgere l’allora presidente Bill Clinton. Sia chiaro: la diversa gravità non è certo legata alle prestazioni sessuali...».

È a cosa?

«Al fatto che il governatore Spitzer ha commesso diversi illeciti pur di coprire l’”uso” di una prostituta. Insomma, ha cercato di abusare del suo potere per coprire le tracce di una vicenda che peraltro non può essere liquidata come una scappatella..»..

Lo scandalo del «Cliente numero 9» avviene nel pieno della corsa per la Casa Bianca. In campo democratico la corsa alla nomination è appesa ad un filo: come potrà giocare, se giocherà, la vicenda-Spitzer?

«Sarà interessante vedere se e quanto peserà e contro chi, perché se verrà usato contro Hillary Clinton, ciò vorrà dire che chi conta, ad esempio i grandi mass media, è intenzionato a sostenere Obama. L’amplificazione degli scandali di questa natura dipende sempre da una motivazione politica, e la vicenda che coinvolse Bill Clinton (nello “scandalo Lewinski”, ndr.) ) ne è stata una riprova...».

Resta il fatto che Eliot Spitzer è un «grande elettore» di Hillary.

«Non poteva essere altrimenti, visto che Spitzer è il governatore dello Stato di New York, vale a dire dello stesso Stato di cui Hillary è senatrice. Se avesse fatto una scelta diversa, sarebbe stato per Spitzer disconoscere gli elettori di New York che avevano scelto sia lui che Hillary. Non credo che lo staff di Obama cadrà nell’errore di usare questa vicenda contro Hillary, se lo facessero sarebbe un boomerang».

I repubblicani hanno subito chiesto le dimissioni di Spitzer.

«Per forza, i repubblicani hanno bisogno di tutte le frecce al loro arco, perché sono molto divisi al loro interno. La destra cristiana fondamentalista è tutta schierata con i repubblicani ma non si scalda per McCain. E il candidato repubblicano alla presidenza ha bisogno dei loro voti e per ottenerli, per conquistarne i favori, potrebbe cavalcare lo “scandalo a luci rosse”. Per capire quanto peserà questa vicenda dovremo attendere i prossimi giorni, una settimana. Una settimana di “passione” non solo per Spitzer ma anche per l’incolpevole Hillary Clinton».

Pubblicato il: 12.03.08
Modificato il: 12.03.08 alle ore 8.26   
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« Risposta #48 inserito:: Marzo 13, 2008, 05:49:02 pm »

Haniyeh: «D’Alema ha capito, con noi di Hamas bisogna trattare»

Umberto De Giovannangeli


Un’ammissione, sia pur indiretta, che da alcuni giorni una tregua è in atto: «La palla è nel campo di Israele. Per quanto ci riguarda siamo pronti a sancire una “hudna” (tregua, ndr.) di lunga durata a patto che essa sia reciproca, simultanea e globale». Ad affermarlo è Ismail Haniyeh, premier di Hamas, il movimento islamico che dal giugno 2007 ha il pieno controllo della Striscia di Gaza. Haniyeh ha parole di apprezzamento verso le recenti dichiarazioni del ministro degli Esteri italiano Massimo D’Alema che ha suggerito di «tentare» il dialogo con Hamas. «Il ministro italiano - dice Haniyeh - ha compreso che Hamas è parte inalienabile del popolo palestinese e che la pace non può essere fatta solo con la metà di un popolo».

Dopo giorni di sangue, la situazione nella Striscia e nel sud di Israele è di relativa calma. Ciò significa che Hamas si è disposto a una tregua?

«Non è la prima volta che Hamas propone una tregua, anche di lunga durata, a Israele. Ma perché possa funzionare, la tregua deve essere simultanea, globale e reciproca...».

Il che in concreto significa?

«Significa che il nemico dovrà rispettare pienamente i suoi obblighi. Gli israeliani devono fermare le incursioni, gli assassinii e togliere il blocco imposto a Gaza..».

Risponde al vero che gli egiziani si sono fatti parte in causa nella ricerca di una tregua tra Hamas e Israele?

«Questo non è un mistero. Gli egiziani si sono attivati per cercare di realizzare le condizioni per giungere ad un accordo di cessate-il-fuoco. Hamas non si è tirato indietro assumendosi la sua parte di responsabilità. Ora la palla è nel campo israeliano. Noi stiamo aspettando una risposta perché, lo ripeto, la tregua dovrà essere simultanea e generale, e dovrà comportare obblighi non soltanto per noi ma anche per Israele».

Hamas parla solo per sé o anche per le altre fazioni armate palestinesi?

«La resistenza al nemico non riguarda solo Hamas, così come la decisione di una hudna (tregua, ndr.) non spetta solo a noi. Sono in corso colloqui tra tutte le fazioni palestinesi (della Striscia) per essere pronti a mantenere una posizione univoca qualora l’accordo fosse davvero raggiunto».

Il tutto contro Abu Mazen?

«Il tutto a sostegno della causa palestinese».

Il presidente Abu Mazen ha affermato che il governo israeliano ha accettato di fermare gli attacchi contro i leader di Hamas in cambio della cessazione del lancio dei missili palestinesi contro Sderot, Ashqelon, il sud di Israele.

«In altri termini si vorrebbe accreditare l’idea che i capi di Hamas hanno barattato la fine della resistenza per aver salva la vita! Questa è una pura menzogna. Tra gli “shahid” (martiri, ndr.) che hanno sacrificato la propria vita per respingere l’ultima offensiva del nemico, c’erano i figli di dirigenti di primo piano di Hamas,e i loro figli caduti in combattimenti erano essi stessi quadri di Hamas. Nessun privilegio per chi ha l’onore di guidare Hamas, semmai doveri in più. Se tregua ci sarà, dovrà riguardare tutta la gente palestinese, non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania. Noi non abbandoneremo la nostra gente in Cisgiordania».

Resta il fatto che le condizioni di vita a Gaza peggiorano di giorno in giorno. Israele afferma che la responsabilità ricade tutta su Hamas.

«L’uccisione di donne e bambini è un crimine contro l’umanità, come lo sono le punizioni collettive inflitte alla popolazione civile. Cosa si pretende da noi, la resa? Non accadrà mai...».

Vi si chiede di riconoscere il diritto all’esistenza di Israele.

«Alla vittima si chiede di riconoscere e rispettare il suo carnefice, da un popolo oppresso, sotto occupazione si pretende la rinuncia ad un diritto di resistenza che è contemplato anche dalla Convenzione di Ginevra. Gli esami sono sempre a senso unico, mai che si chieda conto a Israele del massacro di civili palestinesi, dell’usurpazione delle nostre terre, delle sofferenze, delle umiliazioni indicibili a cui ogni giorno i palestinesi sono sottoposti, mai che si paventino sanzioni o embarghi. Se Israele vuole sicurezza si ritiri dai territori occupati nel ‘67, liberi i prigionieri palestinesi detenuti nelle sue carceri, ponga fine all’assedio di Gaza e alla colonizzazione della Cisgiordania, se lo farà le cose potrebbero cambiare. Per tutti».

Di fronte al precipitare della situazione a Gaza, dall’Europa si sono alzate voci autorevoli che hanno invocato una trattativa che coinvolga anche Hamas

«Registriamo con favore che la posizione dell’Unione Europea sta migliorando: si sono resi conto che è stato un errore non trattare con Hamas, In particolare abbiamo apprezzato le dichiarazioni del ministro degli Esteri italiano Massimo D’Alema, al quale non sfugge che Hamas è parte inalienabile della società palestinese».

Una considerazione, la sua, che in Italia gli avversari del ministro degli Esteri utilizzeranno per dipingere D’Alema come l’«amico di Hamas».

«Non entro nelle vostre beghe interne, so che siete in campagna elettorale...Ciò che voglio dire è che il ministro D’Alema non ha chiuso gli occhi di fronte alla realtà, non ha dimenticato né sottovalutato il fatto che Hamas ha vinto libere elezioni, e lo stesso discorso vale per Jimmy Carter, Hosni Mubarak, i governanti di Russia, Cina e di tanti altri Paesi che hanno rapporti, ufficiali e non, con Hamas. Insomma, D’Alema è in buona compagnia...».

(ha collaborato Osama Hamdan)


Pubblicato il: 13.03.08
Modificato il: 13.03.08 alle ore 9.34   
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« Risposta #49 inserito:: Marzo 16, 2008, 12:33:21 am »

La Destra vuole rimettere l’Italia in trincea

Umberto De Giovannangeli


Hanno già imbracciato il fucile e calzato l’elmetto. Hanno promesso di tornare a combattere in Iraq. Hanno garantito più soldati in Afghanistan per schierarsi in prima linea nella guerra ai talebani. E già che c’erano hanno annunciato - gli pseudo amici di Israele - che appena torneranno al governo smobiliteranno i nostri soldati in Libano, oggi garanti della sicurezza nel Sud Libano e per gli abitanti israeliani dell’Alta Galilea.

Perché quella missione «fu voluta da D’Alema per farsi perdonare la chiusura precipitosa della nostra missione in Iraq», salvo poi ventilare soldati combattenti anche nel Paese dei Cedri. Gli ex tornano sul campo di battaglia. E devastano la scena. Gianfranco Fini, ministro degli Esteri del passato governo del Cavaliere. Antonio Martino, titolare della Difesa sempre nel suddetto governo. In 24 ore hanno cannoneggiato l’immagine internazionale dell’Italia prefigurando scenari da brividi: quelli di un Italia in trincea. Non sono falchi. Sono degli irresponsabili, per giunta anacronistici. L’ultimo ultrà bushiano ha il volto compiaciuto del «liberale» Antonio Martino.

In America tutti i candidati alla presidenza - sia il repubblicano McCain che i democratici Obama e Hillary Clinton - hanno abbandonato l’unilateralismo tanto caro ai neocon, hanno riflettuto criticamente sulla devastante esperienza irachena e preso atto che la maggioranza degli americani considera quell’avventura una tragedia, una fallimentare tragedia, nazionale. Martino non se n’è accorto. Lui è ancora in trincea. E da ministro della Difesa in pectore annuncia che appena entrerà in funzione sbaraccherà nel Libano, dispiegherà «addestratori» in Iraq mentre l’Afghanistan sarà la destinazione di «soldati combattenti». Se fosse per lui, Antonio Martino, menerebbe le mani anche in Iran, e se non lo si potrà fare bissando quanto fatto con Saddam in Iraq, è solo «perchè non conosciamo l’esatta locazione dei loro siti...».

Più diplomatico - questione di stile e di passata collocazione alla Farnesina - è Gianfranco Fini, il quale però non è da meno del «comandante» Martino nel giurare che in politica estera «la linea del Pdl è la continuazione di ciò che abbiamo fatto durante il nostro governo. Una linea diversa dal governo Prodi-D’Alema per quanto riguarda, ad esempio, la questione mediorientale». Il che si traduce anche per il leader di An nel «via dal Libano». Continuità con «ciò che abbiamo fatto durante il nostro governo», si traduce così: tante chiacchiere, molta subalternità (all’«amico George»), esternazioni avventuristiche e pochi impegni.

Emblematica è la vicenda libanese. Gianfranco Fini fa vanto della sua granitica amicizia con Israele. Altrettanto Martino.

Chiacchiere. Perché chi è davvero amico di Israele non dimentica ciò che sia il capo dello Stato israeliano, Shimon Peres, il primo ministro di Israele, Ehud Olmert, la ministra degli Esteri, Tzipi Livni, hanno più volte ripetuto in sedi ufficiali, e dunque documentabili: grazie Italia per l’impegno assunto sul campo nel garantire la sicurezza alla frontiera nord dello Stato ebraico (e nel Libano meridionale).

È l’impegno dei nostri militari ( asse portante, con funzioni di comando, all’interno di una missione Onu), in quell’area nevralgica del Medio Oriente. Un impegno da dismettere, sentenzia Martino, perché è notorio (a chi? certo non a ai governi di Israele e del Libano) che quei soldati stanno lì solo perchè quella missione «fu voluta da D’Alema per farsi perdonare la chiusura precipitosa della nostra missione in Iraq». Parole in libertà. Che hanno già prodotto un effetto preoccupante: la convocazione da parte del presidente del Parlamento libanese del nostro ambasciatore a Beirut per avere spiegazioni di questa improvvida sortita. Ricordando che l'Italia assicura il maggior contingente dell'Unifil, la forza Onu in Libano, l'agenzia ufficiale libanese Nna, ha reso pubblico che il presidente del Parlamento, e leader sciita, Nabih Berri «ha chiesto all'ambasciatore italiano se sia possibile confermare tali pericolose dichiarazioni» rilasciate dall’ex ministro della Difesa Antonio Martino.

Dichiarazioni che hanno provocato sconcerto, e un nervoso silenzio dei comandi italiani impegnati in Sud Libano. Parole in libertà. Pericolose. Destabilizzanti. «Le dichiarazioni di Martino mettono a repentaglio la vita dei nostri soldati», avverte il generale Mauro Del Vecchio, comandante delle operazioni Nato in Afghanistan quando Martino era ministro della Difesa. Si dirà: Martino (stra)parla per sé. Non è così. Perché in serata giunge l’imprimatur del «Comandante in capo»: il Cavaliere in armi. Silvio Berlusconi annuncia: con noi al governo, nuove regole d’ingaggio in Libano (quali?, decise in che sede? dichiariamo guerra a Hezbollah?» e invio di istruttori militari in Iraq.

Dal Libano all’Afghanistan. Il 6 e 7 di giugno a Parigi si svolgerà quella Conferenza internazionale sull’Afghanistan per la quale il governo di centrosinistra si era battuto. Quella conferenza è una vittoria della diplomazia italiana perché è l’acquisizione, euroatlantica, che in quel martoriato Paese la stabilizzazione e il rafforzamento del processo democratico non possono avvenire con il solo strumento militare. Che i Talebani si sconfiggono se si fa il vuoto attorno a loro, conquistando la popolazione civile che non può avere dell’Occidente solo l’immagine dei bombardamenti. Ne Martino-pensiero tutto ciò scompare. Per lasciar posto a un solo imperativo: combattere.

Cambiano le regole d’ingaggio, conferma Fini, inviando altre truppe, incalza Martino, «con meno restrizioni, un migliore equipaggiamento e con la disponibilità ad impegnarle anche in altre aree». La politica estera irrompe nella campagna elettorale. Nel modo peggiore.


Pubblicato il: 15.03.08
Modificato il: 15.03.08 alle ore 8.52   
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« Risposta #50 inserito:: Marzo 16, 2008, 06:28:30 pm »

«Il vostro disimpegno? Una manna per chi vuol disintegrare il Libano»

Umberto De Giovannangeli


«Il contributo dato dal vostro Paese alla stabilizzazione del Libano è stato decisivo. Non dimentichiamo il ruolo trainante che l'Italia ha avuto nel convincere altri Paesi europei a impegnarsi nella missione Unifil 2. La situazione nel Sud Libano è migliorata ma il Libano è tutt'altro che pacificato. C'è bisogno dell'Italia, del vostro impegno, abbandonare il campo sarebbe un segnale di smobilitazione generale che finirebbe per lasciare il popolo libanese in balia delle forze della destabilizzazione». A parlare è un uomo che porta ancora su di sé i segni di un attentato (l'1 ottobre 2004) che costò la vita a una sua guardia del corpo e dal quale lui stesso uscì vivo per miracolo (sottoposto a tredici interventi chirurgici): Marwan Hamade, druso, è oggi ministro delle Telecomunicazioni nel governo di Fuad Sinora. Ancora oggi nel mirino dei terroristi, Hamade vive blindato e per ragioni di sicurezza può recarsi al ministero solo da mezzanotte all'alba. Hamade accetta di parlare con l'Unità di ciò che ha significato e significa la presenza italiana in Libano. «Ho avuto notizia - dice - di dichiarazioni di esponenti politici italiano (l'ex ministro della Difesa Martino, ndr) che definiscono poco motivata la presenza militare italiana in Libano. Mi permetto di dissentire: se oggi il mio Paese resiste ai signori della guerra è anche grazie a quella presenza: l'Unifil, di cui l'Italia ha la guida, è una garanzia importante per la stabilità e l'integrità del Libano».

Signor ministro, in Italia si è aperta una polemica sul proseguo della nostra presenza militare nel Sud Libano. C'è chi sostiene il disimpegno o comunque un ridimensionamento della presenza italiana.

«Non è mia intenzione entrare in polemiche interne, perché ciò che chiediamo per noi libanesi, la non ingerenza negli affari interni, vale in generale. Ma sulla presenza italiana in Libano non intendo essere reticente: l'Italia ha contribuito in misura notevole a riportare la sicurezza nel Sud del Libano. Un vostro disimpegno sarebbe una vittoria per le forze della destabilizzazione».

L'importanza della presenza italiana è misurabile solo dalla quantità dei militari impegnati nella missione Unifil 2?

«Diciamo che la quantità è uno degli indicatori della consapevolezza che fino ad oggi, ma spero anche in futuro, l'Italia ha della centralità della questione libanese nei fragili equilibri mediorientali. Il Libano è stato in passato, anche recente, teatro di una guerra condotta per conto terzi. Nel Libano agiscono ancora forze che puntano alla disintegrazione dello Stato, alla sua frantumazione territoriale; forze eterodirette. Ma in Libano c'è anche una maggioranza che si batte per l'autonomia, la sovranità, l'indipendenza del Paese. Una maggioranza di donne e uomini liberi che rivendicano verità e giustizia sulla stagione del terrore iniziata con l'assassinio di Rafik Hariri (l'ex premier assassinato nel febbraio 2005, ndr) e che ha visto morire parlamentari, intellettuali, giornalisti, ufficiali dell'esercito e dei servizi di sicurezza che avevano difeso la sovranità territoriale e l'indipendenza reale del Paese. È' il Libano che ha dato vita alla "Rivoluzione dei Cedri" e che ha accolto i militari italiani come portatori di pace e non certo come forze di occupazione. Mi lasci aggiungere che i militari italiani hanno dimostrato di essere portatori di un valore aggiunto…».

Quale è questo valore?

«L'umanità. Il rispetto per la popolazione civile, lo sforzo di costruire occasioni di incontro, di socializzazione con le comunità locali. Un'opera di coinvolgimento attivo importante tanto quanto la prevenzione».

Cosa si sente di chiedere oggi all'Italia?

«Di proseguire nel suo impegno per la stabilizzazione del Libano, sapendo che il mio Paese è ad un passaggio cruciale della sua vita nazionale…».

Si riferisce alla mancata elezione del nuovo capo dello Stato?

«A questo e ad un altro fatto cruciale: l'entrata in funzione del Tribunale internazionale chiamato a far luce sull'assassinio di Rafik Hariri. Con il terrore, le autobomba, gli assassinii mirati si sta cercando di impedire che la giustizia faccia il suo corso. Ritirarsi dal Libano sarebbe un colpo esiziale anche per questa battaglia di libertà».

Pubblicato il: 16.03.08
Modificato il: 16.03.08 alle ore 14.45   
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« Risposta #51 inserito:: Marzo 18, 2008, 09:05:01 pm »

Adolfo Pérez Esquivel: «Sotto la minaccia del boicottaggio»

Umberto De Giovannangeli


«Se è vero che i Giochi olimpici simboleggiano la fratellanza fra i popoli, questo spirito olimpico non si concilia ma al contrario viene mortificato dal genocidio culturale in atto nel Tibet». A pensarlo è Adolfo Pérez Esquivel, uno dei premi Nobel per la pace firmatari di un appello per il boicottaggio delle Olimpiadi di Pechino. Pérez Esquivel - vincitore del premio Nobel per la Pace nel 1980 per le sue denuncie contro gli abusi della dittatura militare del suo Paese, l’Argentina, negli anni Settanta, motiva le ragioni che spingono a «fare del boicottaggio delle Olimpiadi uno strumento di pressione sulle autorità cinesi perché pongano fine alla repressione in Tibet e avviino il dialogo con una personalità responsabile e tutt’altro che eversiva qual è il Dalai Lama».

Il Dalai Lama ha denunciato: in Tibet è in atto un genocidio culturale.
«Quel grido d’allarme va raccolto da tutti, governi, organismi internazionali, associazioni umanitarie, intellettuali. La repressione messa in atto dalle autorità cinesi è tanto più grave perché si esercita contro un movimento non violento, le cui rivendicazioni non minano l’integrità territoriale della Cina. È questo un punto centrale, perché ciò che i monaci tibetani chiedono non è l’indipendenza ma l’autonomia dentro la Repubblica popolare cinese. Chiedono il rispetto della loro identità, difendono la libertà di culto, la loro cultura secolare, e lo fanno con la non violenza. Per questo oggi io dico: dobbiamo essere a loro fianco, perché non possiamo non dirci tibetani».

C’è chi sostiene che il boicottaggio delle Olimpiadi sia un’arma spuntata.
«Non credo che lo sia, altrimenti non avrei firmato con convinzione l’appello dei Premi Nobel per la pace. Il ragionamento è molto semplice: la Cina punta a fare delle Olimpiadi una vetrina mondiale per sé, per il proprio gigantismo economico e per le sue ambizioni di super potenza politica. Ebbene, che questa vetrina sia almeno pulita, che metta in mostra anche un ripensamento da parte delle autorità cinesi rispetto a tematiche che molto hanno a che fare con lo spirito olimpico: il rispetto delle diversità, la fratellanza, il riconoscimento delle altrui identità. Tutto ciò, mi sembra ovvio, non si concilia con il genocidio culturale in atto nel Tibet. Ma c’è un’altra cosa che reputo ugualmente importante».

Quale?
«Mancano ancora più di quattro mesi all’inizio delle Olimpiadi. È’ importante che la minaccia del boicottaggio venga esercitata per avanzare, subito, al governo cinese alcune richieste minimali: penso, ad esempio, alla possibilità per osservatori internazionali di avere libero accesso a Lhasa e in tutto il Tibet per poter accertare la gravità della situazione; apertura che dovrebbe essere estesa alla stampa internazionale. È una richiesta minima che va avanzata e dalla risposta di Pechino vanno calibrate le altre iniziative. Non credo che sia chiedere la luna. La Cina si è assunta impegni precisi, in funzione della possibilità di ospitare le Olimpiadi, per ciò che concerne il rispetto dei diritti umani. Il Tibet ne è il banco di prova».

Quel sangue riguarda tutti noi.
«Certo che sì. E ci riguarda la battaglia di libertà condotta dai monaci tibetani come dobbiamo sentire nostra quella in atto in Birmania. Il Tibet deve vivere non solo nelle piazze ma sui giornali, nelle televisioni. Dobbiamo far vivere la cultura di questo popolo, diffonderla, farla conoscere. La cultura è vita, e lo è tanto più di fronte ad un genocidio culturale in atto».

Ma il boicottaggio delle Olimpiadi non avrebbe solo un valore simbolico?

«”Solo"? Non sottovaluterei il valore simbolico quando questo atto simbolico, e al tempo stesso molto ma molto concreto,si proietta su scala mondiale, entra nelle case di miliardi di persone. Vede, si parla spesso di un mondo globalizzato, che non si è al passo con i tempi se non si accetta la sfida della globalizzazione economica, ebbene la sfida che noi dobbiamo lanciare oggi è quella della globalizzazione dei diritti. A partire dal Tibet».

Pechino afferma al contrario che il Tibet è una questione interna.
«È una tesi da respingere, e ciò vale per la Cina come per tutti quei Paesi, quelle potenze, che si trincerano dietro il paravento della sovranità nazionale per giustificare abusi che spesso si configurano come veri e propri crimini contro l’umanità».

Pubblicato il: 18.03.08
Modificato il: 18.03.08 alle ore 12.15   
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« Risposta #52 inserito:: Marzo 22, 2008, 09:24:20 pm »

Wiesel: perché dico fermiamo la Cina

Umberto De Giovannangeli


«La cosa più importante in questo momento è unire le nostre voci a quella del Dalai Lama per chiedere alle autorità cinesi di fermare la repressione, liberare le persone incarcerate e avviare il dialogo». A parlare è Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace nel 1986, promotore di un appello per il Tibet sottoscritto da altri 25 Nobel. «Abbiamo avvertito la necessità - spiega Wiesel - di protestare contro l’ingiustificata e ingiustificabile repressione condotta dalle autorità cinesi contro il nostro collega e amico, sua Santità il Dalai Lama, che si è sempre fatto portatore di proposte ragionevoli e che ha sempre dimostrato la sua volontà di dialogo».

Cosa c’è alla base dell’appello di cui Lei si è fatto promotore e che ha già raccolto l’adesione di altri venticinque Premi Nobel per la Pace?
«Alla base ci sono i drammatici eventi che in questi giorni stanno segnando il Tibet, di fronte ai quali abbiamo avvertito la necessità di agire, di unire le nostre voci a quelle del Dalai Lama. In questo momento la priorità assoluta è fermare la violenza e porre fine all’oppressione. Mi lasci aggiungere che fatico davvero a comprendere il perché un gigante non solo economico ma politico e militare qual è la Cina debba aver paura del Tibet…».

Il governo di Pechino ribatterebbe alla sua domanda che è suo diritto difendere l’integrità territoriale del Paese.
«Concetto ineccepibile ma che, e questo discorso non vale solo per la vicenda del Tibet, non può comunque giustificare sanguinose repressioni e la soppressione dei diritti umani. In questo caso specifico, poi, il discorso non regge di fronte al fatto che il Dalai Lama non ha mai cavalcato né avallato spinte indipendentiste, che anzi ha sempre rigettato. Ciò che ha chiesto è una maggiore autonomia del Tibet, da concordare con le autorità cinesi. Si tratta di una richiesta ragionevole, io credo; ciò a cui il Dalai Lama ambisce è di garantire l’autonomia culturale e religiosa del Tibet e del suo popolo. L’autonomia è condizione indispensabile per preservare l’antico patrimonio tibetano. Il Dalai Lama propugna il dialogo, condanna ogni forma di violenza, rivendica diritti senza fare di questa rivendicazione un’arma per ledere diritti altrui, per negare altre identità. Ciò che chiede, è bene sottolinearlo sempre, è di poter preservare l’identità tibetana. Ed è una richiesta che facciamo nostra con questo appello».

Dalla Cina giungono segnali contraddittori rispetto alla disponibilità al dialogo manifestata dal Dalai Lama. L’appello di cui Lei si è fatto promotore condanna le violenze e chiede l’avvio di un dialogo. Ma se la Cina dovesse proseguire nel pugno di ferro?
«Mi auguro con tutto il cuore che ciò non avvenga, ma se la violenza dovesse proseguire, se le autorità proseguiranno sulla strada della repressione, allora sarebbe inevitabile chiedere di più, non escluso di riesaminare lo svolgimento delle Olimpiadi. Ma non siamo ancora a questo punto. Ciò che è importante è mantenere alta la pressione internazionale finché non saranno ascoltate le voci dei tibetani e le prigioni svuotate. Dobbiamo estendere il campo della pace e del dialogo. È questo che oggi ci chiede il Dalai Lama: di non abbassare la guardia, e di sostenere con forza le ragioni del dialogo. Il primo ministro cinese ha affermato di essere disponibile ad incontrare il Dalai Lama a condizione che quest’ultimo rigetti la violenza e ogni opzione indipendentista. Se questi sono le condizioni, il problema non esiste perché il Dalai Lama ha più volte ribadito di non volere un Tibet indipendente. E per quanto riguarda la violenza, essa è qualcosa di totalmente estraneo all’orizzonte culturale, esistenziale del Dalai Lama».

La sua attività di scrittore, intrecciata alla sua esperienza umana di sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, l’ha portata a rimarcare l’importanza di mantenere in vita la memoria delle tragedie del passato, perché quel passato non torni a farsi presente. Ciò vale anche per il Tibet?
«Certo che sì. Perché il Tibet è una tragedia. La tragedia di un popolo pacifico che non è stato mai animato da propositi di conquista. Un popolo che non ha mai coltivato disegni di grandezza o mire espansioniste. È la tragedia di un popolo la cui unica mira di conquista è quella dell’anima, della conquista di una libertà interiore. La forza interiore per raggiungere l’assoluto. Ma è forse proprio questo che fa paura. E se oggi potessi rivolgermi al popolo cinese, oltre che alla dirigenza politica, direi loro che concedere la libertà religiosa al Tibet sarebbe una dimostrazione di forza e non un cedimento, perché di quella libertà il Tibet non abuserebbe né la ritorcerebbe contro gli interessi cinesi. Direi loro che oggi siete un grande impero, oltre due miliardi di persone, che non ha bisogno di dominare il piccolo Tibet. Il Tibet non è una potenza nucleare. Il Tibet non può certo conquistare la Cina. I serbatoi di cui è ricco sono i serbatoi di conoscenze, una conoscenza mistica. Per questo il piccolo, grande Tibet, è un patrimonio dell’umanità. Da preservare, da difendere».

Cosa teme di più oggi?
«L’indifferenza, l’oblio delle coscienze. Un discorso che non vale solo per il Tibet».


Pubblicato il: 22.03.08
Modificato il: 22.03.08 alle ore 14.52   
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« Risposta #53 inserito:: Marzo 28, 2008, 05:13:57 pm »

Giovanna Melandri: "Le delegazioni istituzionali disertino la cerimonia inaugurale"

Umberto De Giovannangeli


Gli atleti vadano a Pechino, perché da ministra dello Sport so bene quanto questo appuntamento sia importante per ciascuno di loro, ma se la Cina non riannoderà i fili del dialogo con il Dalai Lama e non porrà fine alla repressione nel Tibet, penso che sia opportuno che le delegazioni istituzionali non presenzino alla cerimonia inaugurale dei Giochi olimpici». A sostenerlo è Giovanna Melandri, ministra per le Politiche Giovanili e le Attività Sportive. «È la Cina - afferma la ministra - che deve elevare i livelli dei diritti umani per essere all’altezza del grande evento che ospiterà».



La Comunità internazionale s’interroga su come agire sulla Cina perché ponga fine alla brutale repressione in Tibet. C’è chi evoca il boicottaggio dei Giochi olimpici che si terrano in agosto a Pechino. Qual è la sua opinione?



«È stato lo stesso Dalai Lama ad affermare che occorre boicottare il boicottaggio e io ritengo totalmente condivisibile questa posizione. I Giochi sono sempre stati una occasione di apertura. Pensiamo alle Olimpiadi di Mosca: quei Giochi servirono a rompere la cortina di ferro, la teleselezione fu allora un potente grimaldello per scardinare il blocco sovietico. Oggi c’è internet, il web, i blog, un sistema reticolare di comunicazione che può aiutare ad aprire gli occhi del mondo sulla Cina e il Tibet. Non dimentichiamo peraltro che la Cina per ottenere di ospitare le Olimpiadi si è impegnata a garantire la massima apertura nell’informazione e nella comunicazione durante i Giochi olimpici. È un impegno che la Comunità internazionale deve esigere che sia rispettato...».



Resta la gravità degli eventi che stanno segnando il Tibet.



«Ciò che sta avvenendo è gravissimo, inaccettabile. La Comunità internazionale deve mettere in campo tutti gli strumenti politici e diplomatici per far sì che le autorità cinesi riprendano il dialogo con il Dalai Lama...».



L’interrompo: Pechino giudica il Dalai Lama un terrorista.



«Niente di più lontano dalla verità. Il Dalai Lama è un uomo di pace, è un leader spirituale che non chiede l’indipendenza per il Tibet ma il rispetto dell’autonomia culturale del suo popolo. Il Dalai Lama difende con la non violenza l’identità religiosa e spirituale del Tibet; una identità ricchissima, che rappresenta un patrimonio dell’intera umanità. Il mondo politico non può delegare agli atleti responsabilità che gli competono. In questo senso, ritengo molto importante che la questione del Tibet venga affrontata nell’incontro di domani (oggi per chi legge, ndr.) dei ministri degli Esteri dell’Unione Europea. È importante che l’Europa parli con una sola voce sul Tibet».



Parli una sola voce per affermare che cosa?



«Non è giusto, ci tengo a sottolinearlo ancora, caricare gli atleti, che da anni si stanno preparando per questo evento, di responsabilità che competono alla politica e alle sue istituzioni. Parlare di un boicottaggio tout-court delle Olimpiadi lo ritengo sbagliato, ma al tempo stesso penso che si possa utilmente proporre, in assenza di una disponibilità della Cina a riallacciare il dialogo con il Dalai Lama e a cessare ogni forma di violenza in Tibet, che le delegazioni politiche e istituzionali non presenzino alla cerimonia inaugurale dei Giochi. Questa possibilità, prospettata dal presidente dell’europarlamento, Poettering, e rilanciata dal presidente Sarkozy, deve rimanere concretamente in campo anche come strumento di pressione sul governo cinese per riaprire il dialogo. Ed è importante che questa ipotesi sia stata ventilata dalla Francia che ad agosto, quando si terranno i Giochi, avrà la presidenza di turno della Ue».



E l’Italia?



«Per quanto mi riguarda, dico che sarebbe molto importante che l’Italia, in uno spirito bipartisan, chiunque vinca le elezioni, s’impegni a non boicottare le Olimpiadi ma a disertare la cerimonia di apertura dei Giochi se la Cina continuasse a rigettare il dialogo proseguendo nella brutale repressione dei monaci e dei civili tibetani».



Lei ha parlato del diritto degli atleti a gareggiare...



«Anche in nome di quei valori universali di cui lo sport è portatore. Ma ciò non impedisce agli atleti, alle federazioni sportive, al Coni di testimoniare, individualmente o in forma collettiva, la propria solidarietà al popolo tibetano e il sostegno alla lotta in difesa dei diritti umani».

Pubblicato il: 28.03.08
Modificato il: 28.03.08 alle ore 8.32   
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« Risposta #54 inserito:: Aprile 10, 2008, 10:54:57 pm »

Barghouti:«Pronto a succedere al presidente Abu Mazen» 

Umberto De Giovannangeli


Alla speranza innescata dalla Conferenza di Annapolis si è sostituito il disincanto, la frustrazione, un senso di vuoto. Qual è oggi lo stato d'animo prevalente in campo palestinese?

«È vero: c'è rabbia, frustrazione, perché la mia gente si rende conto che al di là delle parole, la realtà è che Israele non dà seguito concreto alla dichiarata volontà di dialogo. La realtà è rappresentata dagli oltre 600 check-point che spezzano la Cisgiordania, che causano sofferenza e umiliazione quotidiane per decine di migliaia di palestinesi; la realtà sono le carceri israeliane ancora piene di prigionieri palestinesi; la realtà è una colonizzazione che prosegue».

Ciò significa fine della speranza?

«No, non è così che stanno le cose. Il popolo palestinese desidera fortemente vedere realizzato il proprio sogno di libertà, di indipendenza e pace, e sta attendendo la fine dell'occupazione israeliana».

Bush continua a ritenere possibile il raggiungimento di un accordo di pace entro il 2008. È una illusione?

«Tutto dipende da Israele, dal coraggio del suo governo a compiere l'atto che, esso sì, potrebbe portare ad un accordo di pace globale entro il 2008».

E quale sarebbe questo atto?

«La fine dell'occupazione, realizzando così una pace fondata sul principio di due popoli, due Stati. Ma per raggiungere questo obiettivo occorre che la costruzione degli insediamenti e la confisca delle terre palestinesi cessino immediatamente, mentre le istituzioni palestinesi a Gerusalemme devono essere riaperte. Riconoscere il diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese, porre fine all'occupazione, liberare gli 11mila palestinesi incarcerati, sarebbe il modo migliore per Israele di celebrare i suoi sessant'anni. Sarebbe un investimento su un futuro di pace, perché Israele non avrà mai pace e sicurezza con l'occupazione».

Lei ha parlato della sofferenza quotidiana della popolazione palestinese e della necessità da parte di Israele di dare segnali concreti di apertura. Quali dovrebbero essere questi segnali?

«La rimozione dei posti di blocco, la fine degli arresti e delle uccisioni mirate, così come la fine dell'assedio a Gaza e la riapertura dei valichi di confine. Non è con le punizioni collettive inflitte a un milione e mezzo di palestinesi nella Striscia di Gaza che Israele rafforzerà la sua sicurezza. La fine del blocco di Gaza è un passaggio ineludibile per raggiungere un cessate il fuoco quanto prima possibile».

In precedenza, lei ha fatto riferimento a Gerusalemme. Qual è per Marwan Barghouti il futuro della Città Santa?

«È quello di una città aperta, capitale condivisa di due Stati, patrimonio dell'umanità. Una cosa è certa: nessun leader palestinese, neanche il più disponibile al compromesso, potrà mai sottoscrivere un accordo di pace che non contempli Gerusalemme Est capitale dello Stato indipendente di Palestina».

Uno dei nodi cruciali del negoziato riguarda il diritto al ritorno.

«È un diritto, appunto. Sancito da una risoluzione delle Nazioni Unite. Si può discuterne le modalità di attuazione ma non la sua fondatezza. Il popolo dei Territori non è altra cosa da quanti sono stati costretti a forza ad abbandonare nel 1948 le proprie case, i propri villaggi. Non ci faremo dividere».

Lei parla di pace e di unità, ma intanto in campo palestinese a dominare è la divisione. A Gaza governa Hamas. A quali condizioni è possibile riprendere il dialogo interno?

«La condizione è una sola: Hamas deve riconoscere che la prova di forza condotta a Gaza ha fortemente pregiudicato la causa palestinese, determinando una spaccatura senza precedenti nel movimento palestinese. Il dialogo è possibile se Hamas riconosce l'autorità dell'Anp e permetta così di tenere entro il 2008 libere elezioni per il rinnovo del Consiglio nazionale palestinese (il parlamento dei Territori, ndr.). In altri termini, Hamas deve rientrare nella legalità e non agire come un contropotere armato che vuol farsi Stato».

Qual è lo Stato palestinese per cui si batte Barghouti?

«È uno Stato plurale, dove sia garantita a tutti la libertà di espressione. Uno Stato realmente indipendente con il controllo totale del territorio e dei confini. Uno Stato che cooperi con i suoi vicini per cambiare in meglio il volto del Medio Oriente».

Tra i vicini con cui cooperare c'è anche Israele?

«La nostra lotta è per la costruzione di uno Stato, quello palestinese, e non per la distruzione di un altro Stato, Israele».

La forza di Hamas è anche nella crisi di Al Fatah, il movimento di cui lei, assieme ad Abu Mazen, è il leader più rappresentativo.

«Fatah ha bisogno di un rinnovamento profondo, solo così potrà riconquistare il consenso perduto. È necessario eleggere nuovi organismi dirigenti, votare per nuovi candidati, e includere donne, giovani, accademici: abbiamo bisogno di una nuova leadership, con le mani pulite. Sono convinto che la generazione che è cresciuta sotto l'occupazione israeliana, che ha dato vita alla prima e alla seconda intifada, che è in grado di capire la complessità del conflitto israelo-palestinese, deve essere alla guida».

Il presidente Abu Mazen appare intenzionato a non riproporre la sua candidatura alla presidenza dell'Anp. Molti vedono in lei il suo successore.

«Ho dedicato la mia vita alla causa palestinese, e per questo sono oggi in un carcere israeliano. Non mi sono mai sottratto alle mie responsabilità e non lo farò in futuro».

Anche da presidente?

«Anche da presidente»

 

ha collaborato Osama Hamdan

Pubblicato il: 10.04.08
Modificato il: 10.04.08 alle ore 12.10   
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« Risposta #55 inserito:: Aprile 12, 2008, 04:19:21 pm »

Olimpiadi, i Nobel in campo per i diritti del Tibet

Umberto De Giovannangeli


I Nobel si schierano. Per il rispetto dei diritti umani in Cina, per l’autonomia del Tibet, perché il mondo non accompagni con un silenzio complice l’agonia del Darfur. E lo schierarsi significa firmare appelli, esporsi pubblicamente, compiere gesti altamente simbolici. Come quello di cui si è resa protagonista Wangari Maathai, premio Nobel per la Pace 2004, che ha annunciato ieri di aver annullato la sua partecipazione alla staffetta per la fiaccola olimpica prevista per domani a Dar es Salaam, in Tanzania, unica tappa africana del suo percorso. «Sì, mi sono ritirata. Ho deciso di mostrarmi solidale con altre persone sulle questioni dei diritti umani nella regione del Darfur, in Tibet e in Birmania», spiega la premio Nobel.

I Nobel si schierano, prendono posizione, sostengono la mobilitazione non violenta contro le «Olmpiadi della vergogna». In prima fila è Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace, simbolo, assieme a Nelson Mandela, della lotta contro il regime segregazionista sudafricano. L’arcivescovo si è espresso a favore di un «totale boicottaggio» dei Giochi olimpici, in programma dall’8 agosto a Pechino, se la Cina dovesse continuare a mostrarsi «irremovibile» sulla questione dei diritti umani, del conflitto in Tibet e sul Darfur. «Noi in Sudafrica siamo un esempio di quanto efficace possa essere il boicottaggio dei Giochi», ha dichiarato nei giorni scorsi Tutu. «Che non abbiamo più l’apartheid in Sudafrica - ha aggiunto - ha anche a che fare con il fatto che il mondo si è unito a noi e mise al bando l’allora governo sudafricano».

I Nobel prendono posizione e nel farlo mettono a nudo le contraddizioni e la doppia morale della realpolitik. Tra i più attivi nel promuovere appelli e iniziative pubbliche è Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace 1986. «Occorre mantenere alta la pressione internazionale finché non saranno ascoltate le voci dei tibetani e le prigioni svuotate - ha spiegato Wiesel in una recente intervista a L’Unità -. Dobbiamo estendere il campo della pace e del dialogo. È questo che oggi ci chiede il Dalai Lama di non abbassare la guardia e di sostenere con forza le ragioni del dialogo». Una tesi rilanciata con forza, sempre sull’Unità, da Adolfo Pérez Esquivel: «Il grido d’allarme lanciato dal Dalai Lama - afferma il premio Nobel per la pace argentino - va raccolto da tutti, governi, organismi internazionali, associazioni umanitarie, intellettuali. La repressione messa in atto dalle autorità cinesi è tanto più grave perché si esercita contro un movimento non violento, le cui rivendicazioni non minano l’integrità territoriale della Cina. È questo un punto centrale - rimarca Adolfo Pérez Esquivel - perché ciò che i monaci tibetani chiedono non è l’indipendenza ma l’autonomia all’interno della Repubblica popolare cinese. Chiedono il rispetto della loro identità, difendono la libertà di culto, la loro cultura secolare, e lo fanno con la non violenza. Per questo oggi io dico: dobbiamo essere a loro fianco, perché non possiamo non dirci tibetani».

È su iniziativa di Elie Wiesel che ha preso corpo un appello al governo cinese sottoscritto da 26 premi Nobel i quali hanno deplorato e condannato la Cina per la violenta repressione messa in atto in Tibet e protestato contro le autorità cinesi per la loro campagna di denigrazione contro il Dalai Lama. «Noi, sottoscritti, premi Nobel - recita il documento - deploriamo e condanniamo il governo cinese per la sua violenta repressione esercitata sui manifestanti tibetani. Sollecitiamo le autorità cinesi a fare esercizio di moderazione nel trattare con questi disarmati, pacifici dimostranti». «Protestiamo - prosegue la dichiarazione dei 26 Nobel - per la campagna ingiustificata di denigrazione condotta dal governo cinese contro il nostro collega premio Nobel, Sua Santità il Dalai Lama. Contrariamente alle ripetute affermazioni delle autorità cinesi, il Dalai Lama non reclama la separazione della Cina, ma l’autonomia religiosa e culturale. Questa autonomia è fondamentale per la conservazione dell’antico patrimonio culturale». A schierarsi non sono solo Nobel per la pace, come Wiesel, John Hume, Betty Williams, ma anche Nobel per la letteratura, come John Coetzee, Wole Soyinka, della Medicina, come Arvid Carlsson, Gunter Blobel, Paul Greengard, Eric R.Kandel, Erwin Neher, Richard J. Roberts, Phillip A.Sharp, Torsten N. Wiesel, Baruj Benacerraf, dell’Economia - Finn E.Kyland, Clive W.J.Granger - della Fisica - Alexei Abrikosov, Brian D. Josephson, H.David Politzer - della Chimica - Peter Agre, Paul J. Crutzen, Avram Hershko, Roald Hoffman, Roger Kornberg, Jens C. Skou -......

Non solo Tibet. Non solo i diritti umani in Cina. Atri dossier caldissimi riguardano Birmania e Darfur e chiamano ancora in causa la Cina. A protestare per il sostegno dato da Pechino alla giunta militare birmana sono 8 premi Nobel per la Pace - tra i quali Adolfo Pérez Esquivel, Maillad Maguire, Rigoberta Menchu e Jody Williasms. Sul Darfur, gli stessi Nobel chiedono al governo cinese di sospendere le relazioni economiche con il Sudan, ricordando che «il governo cinese acquista circa i due terzi del greggio sudanese e vende armi a Khartoum, molte delle quali utilizzate nel conflitto in Darfur, che ha causato almeno 200.000 morti e 2,5 milioni di profughi e sfollati...».

Una denuncia rilanciata con forza da Jody Williams: «Tutti noi - afferma la premio Nobel - dobbiamo dire chiaramente che la politica di “non interferenza” di Pechino non può essere tollerata. Dobbiamo svincolarci dal potere delle aziende cinesi non soltanto per la gente del Darfur, ma per i birmani, i tibetani e i congolesi, per non parlare dei milioni di cinesi cui è negato ogni genere di diritto umano». A fianco dei Nobel si sono schierate anche star del cinema, tra le quali Richard Gere. «In questa situazione - ha dichiarato l’attore americano, amico personale del Dalai Lama - se i cinesi non agiscono in modo corretto, non cambiano il loro modo di fare, non riconoscono ciò che sta succedendo e non consentono libero accesso alle comunicazioni, allora penso che dovremmo assolutamente boicottare» i Giochi di Pechino. Una prospettiva - quella del boicottaggio - che non trova il consenso di Mikhail Gorbaciov, premio Nobel per la Pace nel 1990- «Bisogna sostenere e appoggiare le Olimpadi che sono l’incontro di popoli e i giovani sono il futuro di questi popoli. Ma - afferma Gorbaciov - se dobbiamo dire qualcosa ai nostri amici cinesi, dobbiamo farlo». Mantenere alta la guardia. Non è un appello. È l’impegno che i Nobel si sono assunti. Perché, ricorda Elie Wiesel, che quella del «Tibet è una tragedia. La tragedia di un popolo pacifico che non è mai stato animato da propositi di conquista. Un popolo che non ha mai coltivato disegni di grandezza o mire espansioniste...». Un popolo da sostenere.

Pubblicato il: 12.04.08
Modificato il: 12.04.08 alle ore 12.39   
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« Risposta #56 inserito:: Aprile 16, 2008, 12:12:17 pm »


Umberto De Giovannangeli


Israele contro Jimmy Carter. L’ex presidente degli Stati Uniti ha iniziato ieri un «viaggio studio» di nove giorni in Medio Oriente durante il quale potrebbe incontrare anche il leader politico di Hamas, Khaled Meshaal. Sarebbe la prima volta che il capo del movimento integralista palestinese incontra un ex presidente Usa. Carter - che alla fine degli anni Settanta contribuì in maniera determinante alla firma di storici accordi di pace tra Israele ed Egitto - è stato ricevuto ieri a Gerusalemme dal capo dello Stato Shimon Peres. Ma la sua apertura a Hamas non pare gradita dai dirigenti israeliani.

Dal programma della visita distribuito ieri alla stampa sono assenti i nomi del premier Ehud Olmert e della ministra degli Esteri Tzipi Livni. In Israele Carter vedrà il vicepremier Ely Yishai (Shas), la colomba Yossi Beilin e il falco Avigdor Lieberman, nonché i genitori di Ghilad Shalit, il soldato rapito da Hamas nel giugno 2006. Carter, premio Nobel per la pace nel 2002, prevede oggi una visita a Sederot, la città nel Neghev bersagliata da razzi sparati da Gaza. Domani sarà a Ramallah, ospite della Autorità nazionale palestinese e quindi visiterà Egitto, Siria ed Arabia Saudita. Il progetto di Carter di incontrare Meshaal (a Damasco) ha già ricevuto le critiche della segretaria di Stato Usa Condoleezza Rice.

L’«operazione Meshal» viene letta in ambienti politici israeliani anche in chiave presidenziali Usa: sono in molti a ritenere che dietro l'iniziativa dell'ex presidente vi sia l'imprimatur di Barack Obama, verso il quale Carter, uno dei super delegati alla convention Democratica di Denver, ha già espresso il suo sostegno. Fuori da ogni lettura dietrologica, l'ex presidente Usa riflette criticamente sugli errori compiuti dall'amministrazione Bush, e sia pur con gradualità diverse dall'Europa, nel «non aver saputo o voluto cogliere la dialettica interna ad Hamas che aveva portato il movimento a scegliere la via politica», con la partecipazione alle elezioni del gennaio 2006, riflette Carter incontrando in un albergo di Gerusalemme un gruppo di giornalisti stranieri, tra i quali il collaboratore de l'Unità, Osama Hamdan. «E se uno - aggiunge - sponsorizza elezioni o intende promuovere la democrazia e la libertà in tutto il mondo, poi, come è accaduto in Palestina, quando un popolo sceglie liberamente i propri leader, credo che tutti dovrebbero riconoscere il risultato e incalzare, senza demonizzarlo, il governo legittimo che scaturisce dal voto».

E sul presente, Carter ribadisce la sua volontà a farsi parte dirigente di un «accordo di cessate il fuoco tra Israele, Amp e Hamas che arresti il lancio di razzi contro il Sud di Israele e ponga fine all'assedio israeliano a Gaza che ha determinato una drammatica emergenza umanitaria che riguarda un milione e mezzo di palestinesi». Gli chiediamo quale sia per lui la definizione che meglio sintetizza la condizione dei palestinesi di Gaza. La sua risposta è secca: «Quella di murativi vivi». Di due cose, l'ex presidente Usa si dice convinto.

La prima: «Privare il popolo palestinese dei suoi fondamentali diritti umani al solo scopo di punire i leader eletti non è una strada che porta alla pace». Su questo punto, Carter è perentorio: «Punire degli innocenti - dice - è sempre e comunque un crimine». La seconda certezza, quella che scatena le polemiche: Hamas «deve essere incluso nel processo di pace» nella regione. «È molto importante che ci sia qualcuno disposto a incontrare i leader di Hamas e ascoltare il loro punto di vista, in modo da verificare la loro flessibilità e cercare di indurli a bloccare tutti gli attacchi contro innocenti civili in Israele», ribadisce Carter in una intervista alla rete televisiva Abc. «Non ho dubbi - rimarca ancora l'ex presidente statunitense -sul fatto che se Israele vuole trovare la pace con giustizia nei suoi rapporti con i palestinesi debba veder incluso Hamas nel processo di pace».

Jimmy Carter crede nell'opzione di due popoli, due Stati, e motiva così la sua convinzione all'Unità: «Incorporare i Territori occupati dentro Israele ed avere un solo Stato, non penso che funzionerebbe, e per diverse ragioni. Prima di tutto, i palestinesi, se gli venisse dato il diritto di votare alla pari con gli israeliani, finirebbero per giocare un ruolo decisivo nel prendere le decisioni per conto dell'intero Paese. E con il loro rapido incremento demografico, che a Gaza è del 4% all'anno, uno dei più alti al mondo, ed in un prevedibile futuro i palestinesi sarebbero in effetti maggioranza della nazione».

«Quindi - si congeda l'ex presidente Usa - io penso che la sola vera soluzione pratica è avere due Stati, fianco a fianco, che vivono in pace e in armonia. Questo ritengo sia l'approccio migliore, per il quale ho deciso di impegnarmi, e lo faccio perché ero e resto fermamente convinto che la stabilizzazione dell'intero Medio Oriente è indissolubilmente legata ad una equa soluzione della questione palestinese». Gli chiediamo se può confermare l'incontro a Damasco con Khaled Meshaal: «Non è ancora certo - risponde - ma direi che è probabile».
ha collaborato Osama Hamdan

Pubblicato il: 14.04.08
Modificato il: 14.04.08 alle ore 9.12   
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« Risposta #57 inserito:: Aprile 17, 2008, 03:14:03 pm »

Haniyeh: «Gaza, Carter tratti il cessate il fuoco»

Umberto De Giovannangeli


«Carter è sempre benvenuto a Gaza, e così tutti quei leader mondiali che vogliono toccare con mano la sofferenza di un popolo assediato da quasi due anni dall’esercito israeliano. Il presidente Carter ha avuto il coraggio di chiamare con il suo vero nome la politica praticata da Israele nei riguardi del popolo palestinese: apartheid». A parlare è il leader politico di Hamas, il primo ministro (dimissionato da Abu Mazen) Ismail Haniyeh. «Per Hamas - dice Haniyeh in questa intervista esclusiva a l’Unità - il presidente Carter può svolgere una importante funzione di mediazione per il raggiungimento di un accordo di cessate il fuoco». Haniyeh è informato dell’esito delle elezioni italiane, e sul ritorno di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, dice a l’Unità: «So che ha dichiarato di voler fare il suo primo viaggio ufficiale da premier in Israele. Invito il presidente Berlusconi a Gaza. Spero che abbia compreso che la politica americana in Medio Oriente ha provocato solo disastri, e ci auguriamo che per quanto riguarda la questione palestinese, Berlusconi adotti una politica moderata, nell’interesse stesso dell’Italia».

Israele ha accolto con freddezza la missione dell’ex presidente Usa Jimmy Carter. E Hamas?
«Hamas considera il presidente Carter un amico del popolo palestinesi, uno dei pochi statisti che hanno avuto il coraggio di denunciare il regime di apartheid a cui Israele costringe milioni di palestinesi».

In un colloquio con l’Unità, l’ex presidente Usa si è detto disposto a mediare un cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Anche qui, qual è la risposta di Hamas?
«La nostra risposta è che siamo pronti a negoziare un cessate il fuoco a patto che esso sia simultaneo, totale e che investa non solo Gaza ma anche la Cisgiordania; il cessate il fuoco deve riguardare anche la fine degli assassinii politici perpetrati da Israele contro dirigenti e attivisti dell’intifada. Su queste basi è possibile avviare una trattativa della quale il presidente Carter può farsi garante».

Israele, così come la Casa Bianca, contesta la scelta di Carter di interloquire con Hamas.
«Carter ha compreso, e come lui anche altri politici e leader mondiali, che Hamas è parte fondamentale del popolo palestinese. È da questo consenso popolare che traiamo la nostra forza, la nostra legittimazione. Il presidente Carter è consapevole che un accordo di pace non potrà mai funzionare se taglia fuori metà di un popolo e la sua leadership, una leadership che ha avuto il mandato a governare attraverso le elezioni più libere mai avvenute nel mondo arabo. Carter è un politico realista e non uno dei tanti avventurieri che pensano, illudendosi, che Israele possa recidere con la forza i legami di Hamas con il popolo palestinese».

Lei parla di un negoziato possibile, intanto nella Striscia si continua a combattere: in uno scontro a fuoco sono rimasti uccisi miliziani di Hamas e soldati israeliani. Israele parla di ennesimo atto terroristico condotto da Hamas.
«Un popolo sotto occupazione ha il diritto di resistere. Ed è ciò che stiamo facendo. Per Israele ogni palestinese che si oppone all’occupazione sionista è un terrorista. Per noi, invece, è un eroe, perché difende una causa giusta scontrandosi con uno degli eserciti più agguerriti al mondo. Se Israele vuole sicurezza si ritiri dai territori occupati nel ’67, liberi i prigionieri palestinesi detenuti a migliaia nelle sue carceri, ponga fine all’assedio di Gaza e alla colonizzazione della Cisgiordania. Se lo farà allora sì che le cose potrebbero cambiare. Per tutti. Se non si vuol credere alle mie parole, che il mondo rifletta su quelle di un uomo (Jimmy Carter) che non può essere certo dipinto come un pericoloso jihadista: "il principale ostacolo alla pace è la colonizzazione israeliana della Palestina", ha ripetuto più volte l’ex presidente Usa. Ed è contro questa colonizzazione che noi ci battiamo».

Cosa è rimasto della proposta che lei ha rivolto al presidente Abu Mazen di riprendere il dialogo tra Al Fatah e Hamas?
«Questa proposta è sul tavolo e anche di questo abbiamo parlato con il presidente Carter, il quale si è detto disposto a lavorare per favorire la ripresa del dialogo nazionale interpalestinese».

Da Gaza a Roma. Nelle elezioni italiane a vincere è stato Silvio Berlusconi. Il neo premier ha annunciato che il suo primo viaggio all’estero sarà in Israele.
«Al primo ministro entrante non posso che rinnovare l’invito che avevo rivolto al suo predecessore (Romano Prodi): visiti anche Gaza, sarà il benvenuto. Mi auguro che Berlusconi sulla questione palestinese adotti una politica equilibrata ed eviti, nell’interesse stesso dell’Italia, di finire nell’abbraccio mortale di Israele».

Pubblicato il: 17.04.08
Modificato il: 17.04.08 alle ore 13.00   
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« Risposta #58 inserito:: Aprile 17, 2008, 03:15:46 pm »

Il Medioriente visto da destra

Umberto De Giovannangeli


La «discontinuità» in politica estera inizia dall’infuocato Medio Oriente. Far dimenticare l’«equivicinanza» dalemiana. Ribadire all’alleato americano che l’Italia retta dal Cavaliere sarà in prima fila, almeno a parole, nella lotta ai movimenti terroristi mediorientali, includendo nella lista anche Hamas palestinese e Hezbollah libanese. Martino (inteso come Antonio, ex ministro della Difesa nel passato governo di centrodestra, autocandidatosi al ritorno al dicastero di via XX Settembre) docet. Il neo premier «calza» l’elmetto e dopo aver ribadito che il suo primo viaggio ufficiale sarà in Israele, per ricucire non meglio precisati «strappi» tra Gerusalemme e Roma, torna a parlare di Libano.

E lo fa con un’affermazione inquietante nella sua pericolosa genericità: «Esamineremo attentamente le regole di ingaggio dei nostri soldati in Libano, che sono in una situazione abbastanza particolare perché non possono reagire in determinate circostanze», afferma Berlusconi in una conferenza stampa al termine di un vertice del Pdl. Quali siano queste “nuove regole”, il neo premier non lo dice, probabilmente non lo sa. Così come sfugge al Cavaliere che quella in atto nel Sud Libano è una missione Onu e che solo in questo ambito è possibile discutere ed eventualmente modificare i caveat che presiedono l’azione dei caschi blu. Concetto che l’ancora in carica ministro della Difesa, Arturo Parisi, prova a spiegare al primo ministro entrante: «In Libano - afferma - non ci sono regole d’ingaggio distinte per i soldati italiani e quelli degli altri Paesi, ma regole d’ingaggio che valgono per tutti i militari della missione Unifil delle Nazioni Unite; la loro eventuale modifica spetta dunque all’Onu». E aggiunge: «Ogni Governo ha il diritto e il dovere di esaminare le regole d’ingaggio alle quali sono sottoposti i propri militari. Ma ricordando che in Libano non ci sono regole d’ingaggio distinte per i soldati italiani, ma regole di ingaggio che valgono per tutta la missione Unifil, che è una missione delle Nazioni Unite. È all’interno dell’Onu - conclude il ministro della Difesa - che il problema andrebbe perciò nel caso posto e ridefinito».

Prima impegnativa esternazione del neopremier in politica estera, e prima gaffe. «Stamattina (ieri per chi legge, ndr) ho parlato con il presidente del Libano e gli ho garantito il nostro sostegno e la continuità», dice ai giornalisti Berlusconi. Potenza del Cavaliere: la sua risalita a Palazzo Chigi ha determinato un “miracolo” a Beirut: sì, perché è a tutti noto, ma evidentemente non a lui, che da tempo il Libano è nel pieno di una gravissima crisi istituzionale, il Paese dei Cedri è senza presidente, per uno scontro senza sbocchi tra la maggioranza parlamentare antisiriana e l’opposizione vicina a Damasco. Domanda d’obbligo: ma con chi ha parlato Berlusconi? Risposta ufficiosa, e un po’ imbarazzata, di fonti diplomatiche italiane: probabilmente il Cavaliere si voleva riferire al presidente del Parlamento libanese, lo sciita Nabih Berri. Ma se così è, chissà se qualcuno del suo éntourage ha fatto sapere a Berlusconi che Berri è alleato di Hezbollah, il movimento sciita libanese che l’indicato (a sua insaputa?) neo ministro degli Esteri, Franco Frattini, si fa vanto di aver fatto inserire, nella sua passata esperienza di titolare della Farnesina, nella lista nera Ue (assieme ad Hamas) delle organizzazioni terroristiche mediorientali. L’opposizione, con il responsabile Esteri del Pd Lapo Pistelli, chiede spiegazioni al neopremier, ricordando: «Senza intenti polemici, ritengo necessario chiarire al leader del Pdl, Silvio Berlusconi, che le regole d’ingaggio dei nostri soldati in Libano non possono essere decise in maniera autonoma dal nostro Paese, poiché si tratta di una missione che avviene sotto il mandato delle Nazioni Unite», sottolinea Pistelli. Il chiarimento richiesto non ottiene soddisfazione. Il Cavaliere tace. Un silenzio inquietante, perché il Libano è una polveriera pronta ad esplodere e in quella polveriera sono impegnati più di duemila soldati italiani. «In questa situazione esplosiva, ogni parola va ponderata, soppesata...», dice a l’Unità un diplomatico di lungo corso, profondo conoscitore della realtà libanese e mediorientale. Un consiglio di cui Silvio Berlusconi dovrebbe far tesoro. E al più presto.

Pubblicato il: 17.04.08
Modificato il: 17.04.08 alle ore 12.58   
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« Risposta #59 inserito:: Aprile 22, 2008, 03:23:25 pm »

Carter: Hamas vuole negoziare la pace

Umberto De Giovannangeli


È un uomo di parola Jimmy Carter. All’inizio del suo contrastato «viaggio di studio» in Medio Oriente, l’ex presidente Usa incontrando a Gerusalemme un gruppo di giornalisti stranieri, tra i quali il collaboratore de l’Unità, Osama Hamdan, si era impegnato, al suo ritorno nella Città Santa, a trarre un bilancio della sua missione mediorientale. Impegno mantenuto. Nel colloquio con il pool di giornali, tra i quali l’Unità, l’ottantaquattrenne Premio Nobel per la pace (nel 2002) parte da una considerazione generale: «È stato un viaggio importante - dice - dal quale ho tratto la convinzione che esistono ancora le condizioni per rilanciare il negoziato di pace ma ciò sarà possibile solo se tutti i protagonisti dimostreranno coraggio e lungimiranza». Speranza e inquietudine: sono i sentimenti che hanno caratterizzato i colloqui che Carter ha avuto a Gerusalemme, Ramallah, Il Cairo, Damasco. «Siamo ad uno snodo cruciale della tormentata vicenda mediorientale - sottolinea l’ex presidente Usa a l’Unità -. Al Cairo, ho registrato le preoccupazioni del presidente Mubarak, uno dei coraggiosi protagonisti del dialogo arabo-israeliano, convinto che il fallimento delle trattative tra Israele e Autorità nazionale palestinese aprirebbe una fase di destabilizzazione per l’intero Medio Oriente che finirebbe per rafforzare le spinte estremiste e mettere a rischio le leadership arabe moderate». Tra gli elementi confortanti, l’ex presidente americano inserisce anche «la disponibilità manifestata dal presidente siriano Hafez Assad (incontrato da Carter a Damasco, ndr.) a negoziare con Israele una pace globale, fondata sulle risoluzioni Onu e sulla reciproca garanzia di sicurezza».

In questo scenario si colloca la questione-Hamas. Le aperture di Carter al movimento integralista palestinese hanno irritato la Casa Bianca e il premier israeliano Ehud Olmert. Il «viaggio di studio» è servito all’ex presidente Usa - che è stato mediatore della trattativa che, avviata a Camp David nel 1978, portò Israele a firmare uno storico accordo di pace con l’Egitto - «per rafforzare la mia convinzione che non sia possibile parlare di pace tagliando fuori metà di un popolo e criminalizzando la sua dirigenza». Hamas, dunque. Carter ha avuto modo di incontrare a Ramallah, al Cairo e a Damasco i vertici del movimento integralista palestinese. Grazie al nostro collaboratore, l’ex presidente Usa ha preso atto, «molto positivamente», dell’apertura di credito: «Per noi, il presidente Carter può mediare il cessate il fuoco con Israele», a lui rivolta dal premier di Hamas (dimissionato da Abu Mazen) Ismail Haniyeh. Carter rivela che i leader di Hamas, da lui incontrati nei giorni scorsi: gli ex ministri Mahmud al Zahar e Said Siam (i referenti dell’ala «dura» del movimento integralista) e, soprattutto, il capo dell’ufficio politico, in esilio a Damasco, Khaled Meshaal, che accetterebbero un accordo di pace con Israele negoziato dal presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) se approvato con un referendum dai palestinesi. I leader di Hamas, spiega Carter, «mi hanno detto che accetterebbero uno stato palestinese sui confini del 1967 se approvato dai palestinesi anche se potrebbero dissentire su alcune clausole dell’accordo». «Ciò significa - aggiunge - che Hamas non saboterà gli sforzi di Abu Mazen di negoziare un accordo a condizione che sia approvato dai palestinesi con un voto libero». Una condizione che il Premio Nobel per la Pace giudica «ragionevole, perché accetta una prassi democratica che la comunità internazionale dovrebbe sostenere con convinzione». Una importante conferma alle parole dell’ex presidente Usa giunge da Damasco. Hamas accetta la creazione di uno stato palestinesi sui territori occupati da Israele nel 1967 ma non riconoscerà lo stato di Israele, dichiara Meshaal. Hamas, aggiunge il leader integralista in esilio, «rispetterà la volontà nazionale dei palestinesi, anche se questo andasse contro le sue convinzione». Le affermazioni di Meshaal rafforzano l’iniziativa dell’ex presidente americano.

In questo quadro Carter si dice «dispiaciuto» per le critiche rivoltegli dalle autorità israeliane e dalla Casa Bianca per aver voluto incontrare i dirigenti di Hamas. Un dispiacere, puntualizza, che «non ha nulla di personale ma che è tutto politico». «Il problema - sottolinea Carter - non è che mi sono incontrato con Hamas in Siria. Il problema è il rifiuto di Israele e degli Stati Uniti di incontrarsi con qualcuno che deve essere coinvolto». «Un coinvolgimento - valuta l’ex presidente Usa - che potrebbe favorire una evoluzione politica di Hamas». Non solo parole. Da Damasco, Carter ha portato con sé un documento nel quale i dirigenti di Hamas si dicono disposti a formare un nuovo governo con il presidente Abu Mazen, leader del partito laico Fatah, costretto a riparare lo scorso giugno nella Cisgiordania occupata, dopo il colpo di mano degli integralisti islamici nella Striscia di Gaza. «Siamo pronti a negoziare con il presidente la formazione di un governo di coalizione, non di esponenti di Hamas o di Fatah, ma di tecnici e la costituzione di una forza professionale di polizia», recita la lettera. Carter si dice convinto che sia Hamas sia la Siria devono essere coinvolti in qualsiasi tentativo di soluzione del conflitto mediorientale. «La strategia attuale, che esclude Hamas e Siria, non sta funzionando. Sta esacerbando il ciclo di violenza, creando equivoci e animosità», rileva. Israele non ha permesso a Jimmy Carter di recarsi a Gaza, ma l’ex presidente Usa è «pienamente consapevole della condizione di sofferenza in cui versa la popolazione civile della Striscia, un milione e mezzo di persone praticamente chiuse in gabbia», così come, visitando la Cisgiordania, «ho potuto constate di persona il permanere di centinaia di posti di blocco che, assieme alla crescita degli insediamenti, spezzano la Cisgiordania in una miriade di enclave». Carter ha potuto visitare la città israeliana di Sderot, continuamente bersagliata dai razzi sparati dalla Striscia di Gaza. «Non posso che ribadire - dice a l’Unità - quanto ho affermato durante la mia visita a Sderot: i razzi contro quella città sono un crimine. Quella visita mi ha convinto ancor di più ad agire perché sia raggiunto un cessate il fuoco».

Nei giorni di permanenza in Israele, Carter ha avuto modo di parlare con i genitori di Gilad Shalit, il giovane caporale israeliano, rapito da miliziani palestinesi nel giugno 2006. «Hamas - annuncia l’ex presidente Usa - ha acconsentito che Gilad scriva una lettera ai suoi genitori». Quella lettera è un segno di vita da tempo atteso dalla famiglia Shalit.

ha collaborato Osama Hamdan

Pubblicato il: 22.04.08
Modificato il: 22.04.08 alle ore 9.38   
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