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Autore Discussione: Umberto DE GIOVANNANGELI -  (Letto 93091 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Marzo 20, 2009, 11:54:26 pm »

«Dai militari in Kosovo alla Ue. Non sempre operazioni chiare»

di Umberto De Giovannangeli


Marta Dassù, analista di politica internazionale, direttrice del programma internazionale di Aspen Institute, ha scritto un libro che non ci aspettavamo.

Da cosa nasce «Mondo privato e altre storie»?
«La prima cosa che a me interessava, era di vedere se ero in grado di scrivere un libro che non fosse un saggio. La mia intenzione, insomma, era di scrivere qualcosa che si avvicinasse di più alla narrativa. Un libro facile e spero piacevole anche per i non esperti di politica estera. Un libro che è nato puramente e semplicemente dal piacere della scrittura».

E sul piano della politica internazionale?
«Dalle pagine che ho scritto emergono alcuni errori che sono stati commessi dalla fine della guerra fredda ad oggi. Molti altri ne faremo, probabilmente, perché è proprio il processo decisionale a non funzionare più di tanto nella politica internazionale. È molto difficile essere lungimiranti, raggiungere delle decisioni razionali, in fori che sono sempre più ampi: l’Unione Europea, la Nato, etc...La tendenza, dopo l’89, è stata quella a un continuo allargamento delle istituzioni. Si è trattata di una scelta giusta, io credo: l’Europa rapita, per usare la famosa espressione di Kundera, aveva diritto a questo ritorno nella famiglia delle democrazie. Al tempo stesso, però, gli allargamenti - prima della Nato, poi dell’Ue - hanno anche prodotto notevoli problemi. E gli errori compiuti li vediamo ancora oggi...».

Nel libro li analizzi con una spietata, quanto argomentata, capacità critica e autocritica. Quali i più gravi?
«In realtà li sfioro, non li analizzo. Nel caso del Kosovo gli obiettivi dell’operazione militare della Nato non erano chiari: non era chiaro se si trattasse solo e soltanto di difendere i diritti umani - in nome di una logica che io condivido, il “dovere di proteggere” - o se ci fosse anche l’intenzione di creare fin dall’inizio uno Stato indipendente - cosa meno scontata. Nel frattempo il Kosovo è diventato di fatto un protettorato. Questo processo di ambiguo “rinvio” si è in qualche modo concluso con l’indipendenza proclamata nel 2008, riconosciuta da gran parte dei Paesi europei, oltre che dagli Stati Uniti, ma non dalla Russia o dalla Cina. La mia opinione è che dopo le vicende della fine degli anni ‘90, l’indipendenza fosse inevitabile: la Serbia il Kosovo lo ha perso allora. Ma l’indipendenza funziona per modo di dire e solo perché rimaniamo lì, con la Nato e con la nuova missione europea. Un secondo esempio: abbiamo gestito male l’allargamento dell’Unione Europea. A mio avviso, è stata una scelta giusta, come prima dicevo: ma avremmo dovuto combinarla con una maggiore capacità di riformare le istituzioni europee. Insomma, guardando all’indietro, ci sono stati degli errori che si potevano forse evitare. In generale, la mia impressione è che le decisioni internazionali siano spesso deludenti anche perché riflettono l’incrocio tra le dinamiche psicologiche e di politica interna di molti Paesi. Una cosa che nel libro sottolineo è che l’elemento soggettivo, psicologico, conta molto più di quanto non si pensi nelle decisioni di politica estera...».

A proposito della soggettività. Nel libro avanzi una teoria intrigante, sviluppata con una leggerezza da romanzo: la «teoria su Freud» e la politica estera. In sostanza?
«In sostanza, rileggendo il carteggio Freud-Einstein del 1932, contano davvero molto, nelle tensioni e nei conflitti fra gli Stati, i fattori psicologici. Contano le percezioni reciproche, il modo in cui i Paesi leggono, interpretano, le intenzioni altrui nei loro confronti: percezioni positive o negative, fondate o completamente fuorvianti. Mentre credo poco in una lettura “deterministica” della politica estera, dettata da interessi che sarebbero immutabili nel tempo. In realtà gli interessi, o meglio il modo di interpretarli, si modificano».

Il tutto raccontato, come hai scritto, in un libro «notturno», un po’ strano. Ma forse è proprio questa «stranezza» di genere a renderlo fascinoso...
«È un libro che ho scritto senza traccia, non avevo un progetto così certo. Il libro, in realtà, è molto meno diplomatico sulle mie vicende personali, sulla mia famiglia, sui miei amici, di quanto non lo sia sugli eventi internazionali di cui parlo. Certo, nella parte “privata”, c’è anche molta fiction: esagero i lati ironici, le debolezze, le mie stravaganze. Sono molto più diplomatica sulla vicenda internazionale. Il risultato è una specie di inversione delle parti: il che, secondo me, rende la lettura più divertente».

In tutto il libro, un filo conduttore è quello femminile.
«Parlo da un punto di vista soggettivo, e quindi dal punto di vista di una donna. E parlo delle insicurezze di una donna della mia generazione, che si è trovata a vivere in un mondo - quello della diplomazia e della politica internazionale - che, in Italia, è fatto del 99% di uomini. Questo non vale per altri Paesi. Il segretario di Stato Usa ai tempi in cui facevo il consigliere di Massimo D’Alema, era la signora Albright, poi c’ è stata Condoleezza Rice, oggi è Hillary Clinton. In Italia il mondo della politica estera o quello della difesa, che sono i due ambienti che ho frequentato professionalmente, sono mondi molto maschili, in cui una donna è un po’ isolata, e quindi le può capitare perfino questo: di essere trattata proprio come una donna! Ci scherzo su, naturalmente. Racconto vari episodi, pigliandomi in giro, per dire che quando sei una donna, e ti trovi a lavorare su questioni di politica estera, gli altri tendono a trattarti “anche” come una donna. Non ti chiedono solo uno scenario geopolitico ma magari se si è mangiato bene o se un vestito è appropriato, cose di cui non ho in genere la minima idea».

Partendo dal tuo vissuto, come valuti questa «irruzione» femminile nella politica mondiale?
«Da un certo punto di vista, penso che sia un fenomeno proprio di società ben più dinamiche della nostra. In Italia è molto più difficile che le donne riescano ad emergere, ed è più difficile perché quella italiana è in generale una società più bloccata, poco mobile. Va però anche detto che che quando una società si sblocca e le donne sono al potere - penso alla Clinton in America o la Merkel in Germania - tendono poi per comportarsi quasi esattamente come gli uomini. Non so se sia un bene o un male, so che è così».

A proposito di uomini e potere. Fuori da retroscena che nel libro non ci sono, ma dal punto di vista personale, che rapporto è stato quello con D’Alema, di cui sei stata consigliere?
«Il libro non intende certo descrivere le persone con cui ho lavorato: è fondamentalmente un libro egocentrico, parlo di me. Ma so con certezza, di D’Alema, che è una persona piacevole e leale con i suoi collaboratori. L’impressione che può dare in pubblico, un po' arrogante e scostante, non corrisponde affatto al rapporto che stabilisce con le persone che lavorano con lui. E la stessa cosa, racconto nel mio taccuino, vale per Giulio Tremonti».

udegiovannangeli@unita.it


20 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #136 inserito:: Marzo 21, 2009, 06:03:07 pm »

«Io israeliana sotto choc per i crimini di Gaza»


di Umberto De Giovannangeli


«Sono sconvolta, indignata ma non sorpresa da quelle testimonianze sconvolgenti di una violenza che si è abbattuta contro la popolazione di Gaza. Cos’altro deve ancora accadere per portarci ad una rivolta morale, a una ribellione delle coscienze non solo nei confronti degli autori di questo scempio di vite umane ma anche verso coloro che hanno orchestrato la guerra di Gaza. Una sporca guerra». Fuoco a raffica nelle case, donne e bambini freddati da tiratori scelti per banali difetti di comunicazione fra reparti, disprezzo per i palestinesi in quanto tali, atti di vandalismo e scherno nelle loro abitazioni. C’è stato anche questo nei 22 giorni di guerra dell’operazione Piombo Fuso, condotta dalle forze armate israeliane (Tsahal) a gennaio per colpire i santuari degli integralisti di Hamas nella Striscia, secondo testimonianze insospettabili di alcuni reduci raccolte dai media israeliani.

L’Unità ne parla con una figura storica della sinistra israeliana: Shulamit Aloni, fondatrice di «Peace Now», già parlamentare e ministra nei governi guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres.

Israele è sotto choc per le testimonianze di alcuni reduci della guerra di Gaza.
«Non accetto di considerare gli autori di quei crimini come delle “mele marce”, dei pazzi, degli irresponsabili...Troppo facile, troppo falso. Noi tutti dobbiamo interrogarci sui perché di questa deriva, sul disprezzo per esseri umani considerati inferiori perché arabi. Tsahal è sempre stato lo specchio di Israele. E oggi questo specchio rimanda una immagine del Paese che non può non inquietare ogni coscienza civile e democratica...».

Lei invoca una rivolta morale.
«Spero che si manifesti ma non nutro più grandi speranze. Sui muri di Gaza nostri ragazzi in divisa hanno scritto: morte agli arabi. Alcuni di loro hanno praticato questo abominio. È come se si fossero sentiti legittimati ad agire così. Ma cosa c’è da attendersi, se non il peggio, quando Israele si appresta ad avere un razzista antiarabo (Avigdor Lieberman) come nuovo ministro degli Esteri. Quel Lieberman che in campagna elettorale aveva affermato pubblicamente che su Gaza dovevano essere sganciate due bombe atomiche...».

I vertici militari hanno promesso «indagini accurate».
«Non possiamo accontentarci di questa “rassicurazione”; già altre volte in passato queste indagini non hanno portato a nulla. Ora si capisce perché i comandi militari e il ministro della Difesa (Ehud Barak) non hanno voluto che al seguito delle truppe impegnate a Gaza vi fossero i corrispondenti di guerra dei mass media israeliani e internazionali. Forse non volevano avere testimoni di una mattanza».

La guerra a Gaza è stata giustificata dal governo israeliano come un atto di autodifesa.
«Il diritto alla difesa e la lotta al terrorismo non possono mascherare né tanto meno giustificare atti che si configurano come crimini contro l’umanità. Cosa c’entrano con la lotta al terrorismo le punizioni collettive inflitte ad una popolazione stremata, ingabbiata, a migliaia di donne, anziani, bambini a cui era impedito anche di fuggire?».

Alla guida del ministro della Difesa c’è un laburista...
«Ehud Barak sta uccidendo la sinistra, a muoverlo è solo una sfrenata ambizione personale...Ha pensato di poter conquistare consensi mostrandosi il più duro tra i duri. Una follia. E ora vorrebbe far parte di un governo popolato da oscurantisti e oltranzisti. A Barak non sono bastate le macerie di Gaza. Ora vuole seppellire sotto le macerie di una politica scellerata ciò che resta del partito laburista».

È possibile salvare l’onore di Tsahal?
«Si ma ciò potrà avvenire solo se porremo fine all’oppressione di un altro popolo. Una scelta politica, non militare».

21 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #137 inserito:: Marzo 21, 2009, 06:04:12 pm »

Piero Fassino: «Questo gesto può cambiare il mondo, l’Europa ora si muova»

di Umberto De Giovannangeli


«Quello di Barack Obama è stato un gesto di grande coraggio che può aprire una pagina nuova nelle relazioni tra l’Occidente e il mondo arabo e musulmano dopo decenni di conflitti, e cambiare profondamente il corso degli eventi in tutto lo scacchiere del Grande Medio Oriente, dal Mediterraneo al Golfo Persico». A sostenerlo è Piero Fassino, relatore per il Medio Oriente del Consiglio d'Europa e responsabile del Pd per la politica estera.

Come leggere politicamente il videomessaggio indirizzato dal presidente Usa Barack Obama al popolo e ai leader dell’Iran?
«Si tratta di un gesto coerente con le speranze suscitate da Obama fin dal suo discorso di investitura, quando affermò “se aprirete il pugno troverete la nostra mano tesa”; parole rivolte esplicitamente alle leadership arabe, sollecitate in quel discorso alla politica del dialogo e non più del conflitto e dello scontro. Il suo gesto di apertura è anche la conferma che con l’Amministrazione Obama torna ad essere la politica lo strumento prioritario con cui dare soluzione ai conflitti. Credo peraltro che in questa scelta pesi la delicatezza dello scacchiere afghano, il travaglio con cui procede la transizione in Iraq e soprattutto la consapevolezza dell’assoluta non riproponibilità della strategia adottata in Iraq e in Afghanistan nei confronti dell’Iran».

Siamo all’archiviazione politica dell’America di George W.Bush?
«Il messaggio di Obama all’Iran è la conferma di una nuova America. Di un’America che rovescia di 180 gradi l’impostazione di Bush, e cioè non più un’America che fa da sola, ma un’America che condivide con la Comunità internazionale anche le scelte più difficili e riconosce il ruolo dei diversi attori sulla scena internazionale, anche quelli con cui in partenza ci possono essere dissensi».

Quali ricadute politico-diplomatiche del messaggio di Obama?
«Quella del presidente Usa è una scelta che può imprimere dinamiche nuove a tutto lo scacchiere del Medio Oriente e ai tanti teatri di conflitto in esso presenti. Certamente da un rapporto nuovo tra Stati Uniti, Occidente e Iran, può derivare un’influenza positiva sull’Afghanistan. Non a caso il videomessaggio di Obama è stato preceduto dall’invito formulato al governo iraniano dalla segretaria di Stato Usa, Hillary Clinton, a partecipare alla Conferenza internazionale sull’Afghanistan. L’influenza forte che ha l’Iran nel mondo sciita può concorrere positivamente alla stabilizzazione dell’Iraq, dove gli sciiti sono una componente fondamentale...».

E per il Medio Oriente?
«L’atto di Obama può produrre dinamiche particolarmente importanti. La guerra di Gaza non è lontana da noi e sappiamo che ha lasciato aperte ferite sanguinose che sarebbe irresponsabile lasciare incancrenire. Tutta l’esperienza di decenni del conflitto israelo-palestinese ci dice che il tempo non lavora per la pace e che bisogna riprendere subito un percorso negoziale condiviso, tanto più di fronte ai risultati delle elezioni israeliane, alla formazione del governo Netanyahu e al probabile accordo tra Al Fatah e Hamas per la formazione di un esecutivo di unione nazionale. In questo quadro, un rapporto nuovo tra Washington e Teheran può dare maggiore credibilità e concretezza al processo negoziale; un processo che, nella nuova visione americana, tende a coinvolgere anche la Siria».

In questo mutamento di scenario quale ruolo può giocare l’Europa?
«L’Europa deve sentire la responsabilità di non essere spettatore. Serve a maggior ragione un’Unione Europea che sia consapevole del proprio ruolo, delle proprie responsabilità e che sappia assumere tutte le scelte che sono necessarie. D’altra parte l’Ue è il principale partner commerciale dell’Iran ; l’Unione Europea ha un impegno forte, di migliaia di uomini e in termini finanziari, in Afghanistan; la Ue è il maggiore partner commerciale di Israele e finanziatore dell’Autorità Palestinese. L’Unione ha un interesse fondamentale a collocarsi con le propri iniziative nel solco che apre oggi l’azione di Obama. E questo vale anche per i singoli Paesi europei...».

Anche per l’Italia?
«In particolare per l’Italia. Non può sfuggire il fatto che in questi mesi l’Italia nello scacchiere mediorientale è entrata in un cono d’ombra. Penso al Libano, dove il ruolo di leadership che avevamo conquistato nel momento della crisi nel 2006, è stato sostanzialmente lasciato nelle mani dei francesi. Penso all’Unione euromediterranea, altra iniziativa importante che è stata promossa dalla presidenza francese della Ue con una partecipazione italiana tutto sommato marginale. E al conflitto israelo-palestinese, nel quale l’Italia rischia di non avere più quel ruolo di interlocutore ascoltato da entrambe le parti che storicamente ha avuto. E sullo stesso dossier iraniano, non facendo noi parte del Gruppo 5+1, rischiamo di essere nell’anticamera della stanza in cui si decidono le cose importanti. E non dimentichiamo che quando Prodi disse le cose che oggi sostiene Obama, fu aggredito dalla destra italiana che lo accusò di stringere la mano degli assassini. Insomma, occorre che l’Italia ritrovi quel profilo euromediterraneo che rappresenta la vocazione geopolitica che il nostro Paese ha sempre avuto, in funzione del quale l’Italia nel passato ha svolto un ruolo importante in quel grande scacchiere che va dal Mediterraneo al Golfo Persico».
udegiovannangeli@unita.it

21 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #138 inserito:: Marzo 22, 2009, 12:02:09 pm »

Infanzia in guerra

di Umberto De Giovannangeli

Ogni bambino che «si è trovato in una situazione di conflitto, che è stato testimone, o anche peggio, ha partecipato ad azioni violente, viene disumanizzato. Quei bambini sanno che c’è qualcosa di sbagliato ma non sanno dire cosa. Si tratta di una situazione che li rende insensibili e impedisce una loro crescita normale...». È il grido d’allarme lanciato da Ted Chaiban, rappresentante in Sudan del fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef).

Il Darfur e non solo. Bambini doppiamente violati: in guerra e un tormentato dopoguerra. Storie di indicibili sofferenze. In tutto il Sudan i bambini soldato sono più di 8mila, di cui 6mila solo in Darfur. E nell’inferno del Darfur due milioni di bambini sono stati colpiti dal conflitto. Un doppio trauma che non riguarda solo il Darfur. Oggi - rileva il Global Report 2008 sui «Child soldiers» - sono 9 gli eserciti che utilizzano i piccoli in guerra, per un totale di almeno 250mila minori, di cui il 40% sono bambine. Bambini combattono nell’esercito regolare in Birmania, nella lotta armata contro le minoranze etniche, ma anche in Ciad, Repubblica democratica del Congo, Somalia, Sudan, Uganda e Yemen. I guerriglieri stessi utilizzano bambini soldato: in Afghanistan, Iraq e Pakistan sono stati impiegati come attentatori suicidi. In Africa le guerriglie hanno utilizzato recentemente i minori in guerra in Burundi, Ciad, Costa d’Avorio, Liberia, Nigeria, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sudan e Uganda.

Storie di bambini violati, ai quali sono stati sottratti gli anni dell’infanzia. Bambini ai quali si vorrebbe rubare il futuro. Le loro storie sono state al centro dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che, ieri si è riunita al Palazzo di Vetro di New York per discutere il tema dell’istruzione e delle emergenze. «Il numero delle emergenze in tutto il mondo aumenta di giorno in giorno, dai conflitti in corso in Sri Lanka e a Gaza alle recenti calamità che hanno colpito il Bangladesh e la Birmania, e con esse aumenta il numero dei bambini che non frequenta la scuola. Ogni anno una media di circa 750.000 bambini è costretto ad interrompere o a rinunciare agli studi a causa di emergenze umanitarie e di 75 milioni di bambini al mondo che non vanno a scuola, 40 milioni di essi vivono in paesi in guerra», rileva Fosca Nomis, Responsabile Advocacy e Campagne di Save the Children Italia.

Leslie Wilson, direttore di Save the Children in Afghanistan, è intervenuto in seno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per sottolineare come negli ultimi anni il tasso d’iscrizione scolastica sia cresciuto nel Paese più velocemente che in qualsiasi altro luogo al mondo: il numero dei bambini iscritti è infatti passato da meno di un milione nel 2002 a più di sei milioni nel 2006. Il lavoro compiuto da Save the Children, pertanto, dimostra come consentire l’accesso all’educazione sia possibile anche nelle situazioni più difficili.

In Afghanistan, ad esempio, nonostante il perdurare di violenza e instabilità, negli ultimi quattro anni quasi 3 milioni di bambini hanno beneficiato di un’istruzione di qualità grazie alla partnership sviluppata dall’Organizzazione con il Ministero dell’Istruzione, volta a pianificare la formazione di insegnanti e dirigenti scolastici. Nello Sri Lanka, nonostante l’intensificarsi dei combattimenti nel nord del Paese e imponenti migrazioni interne, più di 900.000 bambini hanno beneficiato di un’istruzione di qualità grazie alla partnership tra Save the Children e Unicef, che si è sostanziata in nuove modalità per assicurare l’educazione durante le emergenze, attraverso ad esempio la possibilità di svolgere le attività scolastiche a casa per i bambini che non possono frequentare la scuola a causa delle condizioni di sicurezza. Se non ci si concentrerà sui 40 milioni di bambini che non vanno a scuola perché vivono in Paesi in conflitto, avverte Save the Children, l’obiettivo del millennio relativo all’educazione non sarà raggiunto.

udegiovannangeli@unita.it


19 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #139 inserito:: Marzo 26, 2009, 12:22:02 am »

«Fu giusto l’intervento in Kosovo non i bombardamenti della Nato. Serviva una polizia internazionale»


di Umberto De Giovannangeli


«A distanza di dieci anni, non può essere cancellata né sottaciuta la contraddizione tra la decisione, che continuo a ritenere giusta, di intervenire a sostegno di un popolo perseguitato - quello kosovaro - per ripristinare una condizione di diritto in una parte dell’Europa a due passi da noi, e il modo in cui quella decisione fu attuata: la guerra. Questa sproporzione fa sì che la giustezza del rifiuto di una sovranità statale quando essa significa persecuzione e umiliazione di un popolo, venga poi screditata, e che faccia un passo indietro invece che uno in avanti, la necessità di avere una polizia internazionale».

La guerra in Kosovo dieci anni dopo. A rileggere quegli eventi è un testimone diretto, perché li raccontò in articoli e reportage sul campo: Adriano Sofri. A decidere la partecipazione dell’Italia all’intervento in Kosovo fu un uomo di sinistra, allora premier: Massimo D’Alema. «Anche lui - riflette Sofri - fu prigioniero di una situazione tale in cui gli sembrò di aver fatto abbastanza sostenendo a viso aperto l’intervento, senza essere in grado, però, di misurarsi con tutti i governi alleati e con la guida stessa Nato, sul nodo cruciale: il modo d’intervenire».
La decisione di partecipare all’intervento in Kosovo fu presa da un premier di sinistra: Massimo D’Alema. Come ripensare a quei giorni?
«Sono rimasto ai pensieri che ebbi in quei giorni terribili. Pensieri di chi sosteneva con convinzione e disperazione la necessità di un intervento di polizia internazionale che ponesse fine allo scempio bosniaco. Allora la domanda che mi posi non era se fosse giusto intervenire ma perché si era atteso così a lungo prima di decidere di agire. Un ritardo colpevole. Per ragioni diverse, alcune davvero infami, quel genocidio fu lasciato durare per anni e anni, e quando finalmente si decise di agire lo si sbrigò nel giro di pochi giorni e di pochissime vittime».

I giorni dell’azione militare...
«Avendo vissuto a contatto con le vittime di crimini inenarrabili fui colpito dal ritardo e dall’accumulazione di pregiudizi in Italia, e nella sinistra italiana, sull’impiego di una forza di polizia internazionale anche nel Kosovo, dimenticando, o facendo finta di dimenticare, cos’era allora il Kosovo...».

Tu lo hai raccontato...
«Era il Kosovo delle epurazioni etniche, delle stragi, delle fosse comuni, dei crimini reciproci - anche quelli di serbi contro serbi o di kosovari contro kosovari - della guerra per bande...».

Poi, però, D’Alema prese una decisione difficile, contestata da una parte della sinistra...
«D’Alema ebbe in quella vicenda un ruolo risolutivo, che peraltro ha sempre rivendicato. Allora dovette fare i conti con un mondo della sinistra italiana diviso fra persone che sostenevano l’intervento e persone che si ritenevano, per principio, contrarie a qualunque impiego della forza. Questa divisione fece sì che la scelta di D’Alema apparisse come uno strappo. E tale viene ancora considerato nella discussione dieci anni dopo, il che rivela che quei pregiudizi, quelle inerzie, quei ritardi morali e intellettuali si trascineranno chissà per quanto tempo ancora...».

Tornando a quei giorni...
«D’Alema decise che occorreva sostenere e partecipare attivamente all’intervento in Kosovo, suscitando l’opposizione strenua di quel movimento che si voleva pacifista senza sé e senza ma, e quindi contrario a qualunque impiego della forza...

Dove fu l’errore?
«Aver ritenuto che lo “strappo” da contestare al governo D’Alema fosse nella decisione, per me giusta, di appoggiare l’intervento internazionale, e che la partita si chiudesse lì, invece di aprirsi sul punto davvero cruciale...».

Quale?
«Il problema non era se sostenere la giustezza, nel Kosovo come in tanti altri martoriati luoghi del mondo, di un intervento internazionale; il problema era discutere come s’interviene in una situazione del genere. Il punto, che ho sempre considerato assolutamente cruciale e davvero discriminante, era distinguere fra guerra e polizia internazionale. Una distinzione sostanziale sotto ogni punto di vista. In Kosovo successe che una volta deciso l’intervento, la mano passò per intero al generale Wesley Clark e si entrò immediatamente in una guerra a senso unico, vista la supremazia schiacciante della potenza militare messa in campo dalla Nato rispetto alla Serbia. E a renderla una guerra a senso unico, erano soprattutto i bombardamenti aerei, la potenza dall’alto».

I bombardamenti a Belgrado e in altre città e villaggi della Serbia...
«Una guerra iniqua, per la sproporzione dei mezzi adottati e perché di fatto pose fine all’azione di polizia internazionale. Dal terreno, infatti, vennero immediatamente tolte tutte quelle forze d’interposizione che sono tipiche di un’azione di polizia. Si presero duemila funzionari dell’Osce, che erano dislocati in Kosovo e si richiamarono tutti. E lo stesso si fece con gli operatori delle Organizzazioni umanitarie e non governative. In questo modo si finì per sguarnire completamente il territorio lasciando la popolazione kosovara completamente indifesa ed esposta. L’esodo forzato si moltiplicò e si dette l’impressione di una diserzione dal terreno. L’obiettivo non sembrò più essere quello di proteggere gli indifesi. Settanta e più giorni di bombardamenti mirarono a mettere in ginocchio la Serbia fino ad ottenerne la resa. Questa campagna di bombardamenti fu così immane da impedire che potesse manifestarsi nella stessa opposizione serba una qualunque possibilità di riconoscersi in quell’azione che si voleva di difesa dei kosovari albanesi minacciati e perseguitati, e di liberazione di un popolo schiacciato da un tiranno...».

Invece cosa produsse?
«Quei bombardamenti, quella guerra a senso unico, fu vissuta dai serbi come una campagna punitiva, come una spedizione dall’alto che, dispiegando una spropositata potenza di fuoco, intendeva fiaccare una popolazione per far arrendere i suoi capi...».

Quei bombardamenti suscitarono scandalo e alimentarono altre polemiche nella sinistra...
«Uno scandalo assolutamente motivato, per il modo in cui quei bombardamenti si sono svolti, ma immotivato se rapportato all’inerzia o addirittura alla complicità con quello, di enormemente più tragico e sanguinoso, che era successo per anni in Bosnia. Di nuovo funzionò un approccio politico-ideologico filoserbo. che faceva spavento, sulla base del quale si continuava a considerare la Serbia come un bastione antifascista, di sinistra, all’interno di una Jugoslavia sciovinista, nazionalista. Il nazicomunismo di Milosevic era visto come una prosecuzione della resistenza jugoslava, titoista...E anche le cifre delle vittime dei bombardamenti: certamente terrificanti ma al tempo stesso incomparabili con quelle della Bosnia, della prima fase della guerra in Croazia, centinaia di migliaia di vittime... Ma una guerra aerea - che si vuole fatta di bombe intelligenti, di genialità militare, di perfezione tecnologica - che colpisce fabbriche, ponti, la sede della televisione provocando morti e feriti, come quella che colpì la Serbia, resta comunque una macchia indelebile. Queste guerre “dall’alto” sono inique anche per un’altra ragione: se tu rimani sul terreno vuol dire che metti a repentaglio le tue vite, ma se continui a ragionare secondo la distinzione fra le tue vite e quelle degli altri, e le tue valgono e quelle degli altri no, compresi civili inermi, donne, bambini, tu non sei qualcuno che si accredita in nome del diritto e della difesa di vittime innocenti, ma sei semplicemente uno che continua a usare due bilance nel valutare le vite umane e il loro peso».
udegiovannangeli@unita.it

25 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #140 inserito:: Giugno 19, 2009, 05:57:12 pm »

DA UNITA'.IT

All'estero il timore di un premier ricattabile

di Umberto De Giovannangeli

Dalla perplessità allo sconcerto. Dallo sconcerto alla preoccupazione. E all’affacciarsi di interrogativi inquietanti. A Bruxelles e nelle cancellerie europee più importanti. Gli scandali che investono il Cavaliere non vengono più considerati dagli alleati europei come vicende interne ad una Italia guidata da un primo ministro «eccentrico» e «donnaiolo».

Negli ambienti diplomatici occidentali non è passato inosservato un articolo apparso sull’autorevole Times nei giorni burrascosi del Noemigate. «L’Italia – rilevava il quotidiano londinese – quest’anno ospita il vertice del G8. In quel forum si tengono importanti discussioni dove i governi occidentali chiedono maggior cooperazione nella lotta al terrorismo e al crimine organizzato. Berlusconi – proseguiva il Times – si vede come amico di Vladimir Putin. Il suo Paese è un importante membro della Nato. È anche parte dell’Eurozona, che è messa alla prova della crisi finanziaria globale». Per concludere che «non sono solo gli elettori italiani a chiedersi cosa stia succedendo. Lo fanno anche gli alleati perplessi dell’Italia».

Una perplessità che cresce con il crescere degli scandali che investono il Cavaliere. Ed è una perplessità, dice a l’Unità un’autorevole fonte diplomatica a Bruxelles, che non ha una sua identificazione di parte politica: essa, infatti, accomuna la Francia del conservatore Sarkozy alla Spagna del socialista Zapatero, dalla Germania della centrista Merkel alla Gran Bretagna del laburista Brown. A far discutere non è la caratura morale del premier italiano. L’interrogativo che comincia a farsi strada nelle cancellerie europee è molto più pesante. E riporta dritto alle considerazioni del Times.

]L’Italia è parte della Nato, e ciò significa, ad esempio, che il primo ministro italiano è in possesso dei nullaosta dell’Alleanza atlantica che danno accesso ai segreti degli armamenti nucleari. Per questo la certezza della non ricattabilità del Cavaliere è una questione che travalica i confini nazionali e va ben oltre le polemiche interne. La risposta degli aedi del premier è nervosa. Molto nervosa. Adombra una mano internazionale che tiene le redini del «grande complotto». C’è chi scomoda Zapatero, chi (vedi prima pagina di Libero di qualche settimana fa) si spinge addirittura oltreoceano puntando l’indice accusatore contro il «Giuda» della Casa Bianca (Barack Obama) impegnato a spezzare la «diplomazia del gas» del duo Berlusconi-Putin. Questione di credibilità. In caduta libera. La Francia di Nicolas Sarkozy ha scavalcato l’Italia nella leadership euromediterranea.

Nel valzer delle poltrone che contano davvero in Europa – la presidenza della Commissione europea, l’Alto rappresentante per la politica estera e, se il Trattato di Lisbona entrerà in vigore, il presidente stabile dell’Ue – l’Italia del Cavaliere non «danza». Fuori dai giochi. L’unico posto rimasto da assegnare è quello di presidente dell’Europarlamento. Spetta allo schieramento vincitore delle elezioni europee: il Ppe. Berlusconi lancia la candidatura di Mario Mauro: «Credo che questa volta tocchi a noi», ribadisce il presidente del Consiglio all’apertura del vertice di Bruxelles del Partito popolare europeo.

Fa sfoggio di ottimismo, Berlusconi, ma sa che la questione è tutt’altro che risolta. Ma sulla sua strada trova un concorrente agguerrito: il polacco Jerzy Buzek. La Polonia è in crescita di consensi e di credito a livello europeo, e può contare sul sostegno dell’Est e, sia pure non ancora formalizzato, della Cdu di Angela Merkel. Quel credito, e quella credibilità che stanno scemando per il Cavaliere.

In Europa sembra iniziata l’ «operazione scaricamento».

19 giugno 2009
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« Risposta #141 inserito:: Agosto 31, 2009, 03:32:48 pm »

Il Cavaliere s'inchina a Gheddafi

di U. De Giovannangeli


Non visita un centro di «accoglienza». Non accenna al rispetto dei diritti umani. In compenso, pone la prima pietra dell’autostrada «risarcitoria». E si esalta per l’esibizione delle Frecce Tricolori. Domenica 30 agosto. È il giorno del «Grande abbraccio» tra il Cavaliere e il Colonnello. Silvio Berlusconi sbarca a Tripoli per celebrare il primo anniversario della firma del Trattato di amicizia Italia-Libia. Un amicizia che mette tra parentesi i diritti dei più deboli. Ed esalta gli affari.

«Noi rispettiamo tutte le leggi. Se vogliamo davvero procedere ad una politica vera di integrazione, dobbiamo essere rigorosi per non aprire l’Italia a chiunque».
Così Berlusconi risponde ai cronisti sul respingimento in Libia dei 75 immigrati intercettati ieri nel canale di Sicilia. Quei migranti senza diritti né speranza non devono turbare la giornata di gloria del Cavaliere tripolino. Le cose «importanti» sono ben altre. Altre le «imprese storiche» da celebrare. L’autostrada costiera che percorrerà tutta la Libia dalla Tunisia all’Egitto la cui realizzazione sarà finanziata dall’Italia è «un’impresa storica». Così il premier italiano a margine della cerimonia a Shabit Jfarai (40 chilometri da Tripoli) della posa simbolica della prima pietra dell’autostrada voluta dal leader libico Muammar Gheddafi tra le contropartite per chiudere il contenzioso sul passato coloniale italiano.

Non è il caso di tirare fuori argomenti spinosi (per l’amico Colonnello): quei centri di accoglienza regno della sopraffazione e della violenza; il diritto d’asilo negato...Italia e Libia stanno andando «verso la realizzazione dell’accordo (firmato un anno fa) che ritengo sia molto conveniente per entrambi i Paesi e che sia positivo in tutte le direzioni», dice il Cavaliere. «C’è la volontà assoluta di concretizzare tutti i punti dell’accordo», assicura il Cavaliere. «Ne abbiamo parlato - spiega Berlusconi - con il primo ministro Bagdadi Mahmoudi e anche con il leader» Muammar Gheddafi.

Sono arrivati insieme, in macchina, il Cavaliere e il Colonnello a Shabit Jfarai, zona predesertica ad una quarantina di chilometri da Tripoli, per posare la prima pietra simbolica dell’«autostrada della riconciliazione» tra Roma e Tripoli. Il resto sembra materiale buono per cinegiornali di altri, e brutti, tempi: insieme Berlusconi e Gheddafi - accolti da ovazioni e da loro gigantografie che spiccavano tra numerose bandiere italiane e libiche - salutano, sorridono e stringono le mani alla folla venuta ad assistere alla cerimonia. Per il premier il progetto dell’autostrada «serve anche alla pace perché - dice - collega tutti i Paesi del Maghreb». «Si tratta della concretizzazione dell’accordo (tra Italia e Libia, ndr). Ad appena un anno dalla sua firma c’è già un progetto e c’è già tutto», aggiunge Berlusconi. Bene l’autostrada. L’asilo (inteso come diritto), neanche a parlarne. Certo non con il Colonnello.

Terminata la cerimonia - una quindicina di minuti appena - Berlusconi e Gheddafi risalgono in auto insieme. Pronti per un faccia a faccia seguito da una cena per fare il punto sullo stato degli accordi contenuti nel Trattato di amicizia. Ma prima della cena c’è lo spettacolo offerto dal munifico Cavaliere. Berlusconi e Gheddafi assistono insieme in un parco sul lungomare di Tripoli al passaggio delle Frecce Tricolori. La pattuglia acrobatica italiana effettua varie figure completando l’esibizione rilasciando alla fine la classica striscia di fumo tricolore in un passaggio a bassa quota.

Poi l’incontro finale. «Molto cordiale», raccontano i collaboratori del Cavaliere. Dagli ultimi sondaggi risulta che «il mio gradimento è al 68,4%», confida Berlusconi a Gheddafi. Che apprezza e si complimenta. «Siamo venuti qui per dare attuazione al trattato italo-libico che per noi è molto importante», dice il premier al suo ospite. I due leader si sono poi scambiati dei doni: Gheddafi ha offerto a Berlusconi due targhe commemorative del Trattato italo-libico, una su sfondo d'oro e l'altra d'argento; il premer invece ha portato in dono due candelabri e un’alzata di vetro di Murano. È notte. Il «Grande abbraccio» è finito.

31 agosto 2009
da unita.it
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« Risposta #142 inserito:: Settembre 13, 2009, 09:56:40 pm »

Escort e veleni, sullìitalia incubo "cordone diplomatico"

di Umberto De Giovannangeli


Lo spettro del cordone diplomatico prende forma dai sempre più allarmati rapporti che dalle ambasciate italiane in Europa arrivano sul tavolo del ministro degli Esteri, Franco Frattini. Lo spettro si manifesta nei report, altrettanto preoccupati, che dall’ambasciata americana a Roma giungono al Dipartimento di Stato Usa.

La tesi del complotto della stampa straniera ordito contro il Cavaliere scomodo non regge più. L’imbarazzo dei leader europei, come della Casa Bianca, si sta trasformando in qualcosa di ben più pesante: nell’isolamento di un alleato improponibile, nella marginalizzazione dell’Italia dagli incarichi (Ue) che contano e dalle partite più impegnative che si giocano sullo scacchiere internazionale (dall’Afghanistan all’Iran, al Medio Oriente). Non è più solo una questione di poltrone. Il «cordone diplomatico» è anche altro: è centellinare informazioni delicate ad un alleato-premier la cui affidabilità mostra pesanti crepe.

Lo spettro del «cordone diplomatico» è legato ad un concetto che si fa sempre più strada negli ambienti diplomatici europei: la ricattabilità di Silvio Berlusconi. Annotava nei giorni scorsi il Times: «Alcune delle ragazze (coinvolte nello scandalo delle escort, ndr) vengono dall’Europa dell’Est. Cosa succederebbe se una potenza straniera decidesse di sfruttare questa vicenda pacchiana? Non è solo la preoccupazione di Roma, l’Italia è anche un importante partner occidentale della Nato, nei Balcani e in Afghanistan. Le buffonate del premier preoccupano e imbarazzano tutti gli amici del suo Paese».

Quello del quotidiano londinese è un articolo bene informato. Che raccoglie umori dominanti non solo a Downing Street o al Foreign Office ma anche in altre capitali europee: certo a Berlino, a Parigi, Madrid. La prima traduzione concreta di questo «cordone diplomatico» si è già manifestata. Il Times fa riferimento all’Afghanistan. Non a caso. Ebbene, l’Italia è stata esclusa dall’iniziativa di Gran Bretagna, Germania e Francia che insieme hanno chiesto formalmente al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon di indire una conferenza internazionale per rilanciare l’azione internazionale in quel Paese. Quell’esclusione è uno smacco per l’Italia, tanto più se rapportato al nostro impegno militare sul fronte afghano.

Un segnale. Un avvertimento. Tanto più significativo, dice all’Unità una fonte diplomatica a Bruxelles, perché due dei tre «congiurati», il presidente francese Nicolas Sarkozy e la cancelliera tedesca Angela Merkel, erano stati recentemente annoverati dal Cavaliere tra i suoi «amici internazionali» più cari e affidabili. E ancor prima, ricorda la fonte, c’era stato il «niet» alla richiesta italiana, reiterata da Berlusconi e Frattini, di entrare a far parte del Gruppo 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) che gestisce il dossier nucleare iraniano. Il «cordone diplomatico» è in atto. E può prendere forme da incubo: bilaterali rinviati, o annullati, per improvvisi forfait dei partner, informazioni centellinate.

Il Cavaliere reagisce agli articoli della stampa estera scatenando la «guerra delle querele». Che rischia di essere per lui un campo minato. Le sue denunce, avverte il Wall Street Journal, «potranno trattenere alcuni giornali da criticare Berlusconi per le sue storie con giovani donne, ma potrebbero spingere la stampa internazionale a occuparsi maggiormente di questioni che possono ben più danneggiare la sua reputazione, come le sue relazioni con Tripoli e Teheran, gli effetti del suo nazionalismo economico». Amicizie e affari pericolosi, lascia intendere il più importante quotidiano finanziario al mondo. L’imbarazzo è il passato. Il presente-futuro è l’isolamento internazionale.

13 settembre 2009
da unita.it
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« Risposta #143 inserito:: Settembre 16, 2009, 03:49:59 pm »

«Troppo potere nelle mani del Cavaliere»

di Umberto De Giovannangeli


Sì, siamo stati contattati da Mediaset. Abbiamo parlato con loro come con altri. Abbiamo ascoltato le loro proposte, i loro progetti, ma da qui a parlare di trattative ce ne corre...». L’aggancio c’è stato - come aveva anticipato il nostro giornale il 28 agosto - ma la «corte» del Cavalier Caudillo non è andata a buon fine (per lui). È ciò che rivela a l’Unità, Juan Luis Cebriàn, Direttore esecutivo del Gruppo Prisa, una potenza editoriale. Prisa, oltre a essere l’editore del primo quotidiano spagnolo El Pais e della radio più ascoltata, Cadena Ser , ha un impero che dalla Spagna si estende al Portogallo, all’America Latina, agli Stati Uniti. La società detiene anche una partecipazione del 15% nel giornale francese Le Monde. A Roma per l’incontro della Giuria Internazionale del Mediterranean Journalist Award 2009, Cebriàn non si sottrae alle domande più scottanti sul rapporto tra potere politico e stampa. Con un «convitato di pietra»: il Cavaliere Caudillo.

In Italia molto si è discusso del recente incontro alla Maddalena tra Silvio Berlusconi e il suo omologo spagnolo, Luis Zapatero. A suscitare polemiche è stata la risposta del Cavaliere alla domanda del corrispondente del Pais. Cosa pensa di questa vicenda e più in generale del rapporto in Italia tra potere politico e giornalismo libero?

«Il potere politico è sempre in tensione, se non in aperto conflitto, con la stampa e i mezzi di comunicazione in tutte le democrazie. Difendere l’indipendenza dei media non è facile, ma è la nostra ragion d’essere...».

Un discorso che vale per la Spagna, la Francia, la Gran Bretagna, la Germania...E l’Italia?

«Beh, c’è da dire che la situazione in Italia è un po’ più “strana”, anomala rispetto alle altre democrazie europee, perché da voi il premier detiene, come imprenditore, personalmente, importanti mezzi di comunicazione - Tv e carta stampata - e in quanto primo ministro esercita un controllo, un potere sui media pubblici. I leader politici guardano spesso con diffidenza la stampa perché pensano che sia ingiusta, pregiudizialmente ostile, eccessivamente critica, parca di elogi. Bisogna sempre difendere la libertà di stampa, perché l’indipendenza dell’informazione è un contrappeso decisivo, vitale, per ogni sistema democratico».
Zapatero, nel suo incontro con Berlusconi, è stato un pugnace difensore di questa libertà di stampa. O no?«Zapatero non ha detto nulla. Ha dichiarato che si asteneva per “cortesia istituzionale”...Vede, io sono giornalista da 48 anni, e da tempo non mi sorprendo più di fronte a governanti che, in Spagna come in Italia, vogliano sempre controllare i mezzi di comunicazione. Dobbiamo difenderci da questi “appetiti”. Sempre, ovunque e con chiunque».

Nelle scorse settimane, molto si è parlato, e speculato, su una trattativa aperta tra Mediaset e il Gruppo Prisa. di cui lei è Direttore esecutivo. Come stanno realmente le cose? A che punto è questa joint venture?

«Non c’è una joint venture. L’unica cosa che c’è, è una nuova legge in Spagna che prevede la possibilità di fare fusioni o collaborazioni fra differenti reti televisive: rappresentanti di Telecinco (la tv spagnola controllata da Mediaset) ci hanno contattato per vedere se era possibile fare qualcosa insieme. Ma non ci sono vere e proprie trattative in corso. È un desiderio di Telecinco, ma trattativa è ben altra cosa. Abbiamo parlato con tutti quelli che ci hanno cercato, ma noi non abbiamo cercato nessuno. A tutti quelli che chiamano, noi rispondiamo...».

Lei ha detto: sono da 48 anni nel giornalismo. Ne ha viste di tutti i colori in Spagna e nel mondo. Ed ora ha un ruolo chiave in uno dei più importanti gruppi editoriali al mondo. Le chiedo: che immagine ha oggi dell’Italia?

«Dal punto di vista politico, è una immagine confusa, opaca. Ma al tempo stesso, l’immagine di un Paese che marcia, va avanti, malgrado i Governi. Quelli che vanno avanti, che danno lustro all’Italia, sono gli intellettuali, la cultura, l’economia privata. L’Italia è un grande Paese che riesce a sopportare tutto nella politica».

15 settembre 2009
da unita.it

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« Risposta #144 inserito:: Settembre 19, 2009, 06:32:21 pm »

La Nato: "Non si può ridurre l'impegno in Afghanistan"

di U. De Giovannangeli


Altro che “transition strategy”, come foglia di fico dietro cui mascherare un “rompete le righe”. Altro che «via al più presto, ma concordandolo con gli alleati». Il messaggio che giunge dal quartier generale della Nato è chiaro. Perentorio. E, per quanto riguarda l’Italia, è un (indiretto) avvertimento: «Non possiamo permetterci di ridurre ora il nostro impegno in Afghanistan», afferma da Bruxelles il portavoce della Nato James Appathurai, sottolineando che l'obiettivo dell'Alleanza è quello di far sì che gli afghani possano prendere in mano la loro sicurezza. «Ma questo va fatto in modo appropriato e misurato» attraverso un'opportuna strategia di transizione, spiega. Nessuna riduzione dell’impegno.

E qui si apre un giallo nel giallo: fonti accreditate a Bruxelles dicono a l’Unità che «nessuna riduzione» significherebbe, per l’Italia, il mantenimento in Afghanistan anche dei 500 militari (400 soldati, 100 carabinieri) inviati in occasione delle elezioni. Quei soldati, hanno ribadito ieri sia il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, sono da considerare già sulla via del ritorno. Ma c’è chi, fuori dai confini nazionali, ricorda che in occasione del suo viaggio a Washington (metà giugno), il Cavaliere aveva promesso a Obama altri 500 soldati, in servizio permanente.

La «babele delle strategy» che vede protagonista mezzo Consiglio dei ministri, a partire dal premier, disorienta Bruxelles. Secondo il portavoce della Nato le dichiarazioni del presidente del Consiglio italiano all'indomani dell'attentato di Kabul, sono «generalmente in linea» con quanto sostiene il segretario generale Andres Fogh Rasmussen.
L’imbarazzo è racchiuso in quell’avverbio “generalmente”. Un di più voluto. «Non vogliamo rimanere in Afghanistan un minuto in più del necessario ma non possiamo lasciare troppo presto», indica Appathurai, per il quale la questione della transizione verrà discussa in occasione della riunione informale dei ministri della Difesa che si terra a Bratislava a fine ottobre. La Nato, aggiunge il portavoce, «sostiene anche la proposta avanzata da Francia, Germania e Gran Bretagna (con l’Italia tagliata fuori, ndr) di tenere una conferenza ministeriale sull'Afghanistan entro fine anno per affrontare la questione anche sotto il profilo civile. «La linea di fondo è che non possiamo permetterci di ridurre il nostro sforzo ora, ma dobbiamo investire adesso per essere in grado di fare meno in futuro», insiste il portavoce dell'Alleanza atlantica.

L’imbarazzo è palese. Ministri che “fuggono”. Altri che rilanciano. Altri ancora (il titolare della Farnesina, Franco Frattini) che evocano cambiamenti strategici in corso
d’opera. Ministri (il titolare della Difesa, Ignazio La Russa) che scandiscono: «Exit strategy? Un vantaggio per il terrorismo». Ministri (leghisti) che se ne sbattono e ribadiscono: «A casa entro Natale». In mezzo c’è lui, il Cavaliere immaginifico che conia una nuova definizione: la “transition strategy”. Che Berlusconi spiega così: l’obiettivo «è quello di caricare di maggiore responsabilità il nuovo governo (afghano) e mettere a punto il numero di soldati da afghani addestrati e il numero di componenti delle forze dell'ordine e fare un programma che vedrà aumentare le capacità del governo Karzai di garantire la sicurezza nel Paese e contestualmente di consentire alle truppe alleate di diminuire gli organici». Di più il Cavaliere non dice. Perché non può. Una parola di più potrebbe scontentare Umberto Bossi, il ministro-padre che resta convinto che «portare la democrazia in Afghanistan è fatica sprecata». E che bisognerebbe riportare a casa i nostri soldati, meglio se entro Natale. Con buona pace di Bruxelles.

19 settembre 2009
da unita.it
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« Risposta #145 inserito:: Novembre 04, 2009, 10:05:31 pm »

«Lentamente il suo sogno sta diventando realtà E parla al mondo intero»

di Umberto De Giovannangeli

Un anno di Obama. I sogni, le speranze, le resistenze... Un anno vissuto e analizzato assieme al più «obamiano » tra i politici italiani: Walter Veltroni.



Ad un anno di distanza dalla sua elezione, cosa è rimasto del «sogno» generato da Barack Obama?
«Credo sia rimasto molto, nel senso che questo primo anno di presidenza di Barack Obama è la dimostrazione che quando la politica ha una sua virtù etica, essa traduce i sogni in realtà, o almeno s’impegna a farlo. Io considero che quello che Barack Obama ha fatto in politica estera, e che gli è valso anche il Premio Nobel per la Pace, sia stato assolutamente in coerenza con quanto aveva detto: la riapertura diuna idea di multilateralismo; l’affermazione diun rapporto di confidenza con l’Onu; gli sforzi messi in atto per una soluzione di pace dei più grandi conflitti internazionali; l’impegno contro la proliferazione nucleare: sono tutte cose che hanno dato il segno di un cambiamento radicale rispetto alla politica estera di George W.Bush...».

E sul piano interno?
«Dobbiamo ricordarci che Obama ha iniziato il suo mandato nel pienodella più spaventosa crisi economica e finanziaria del dopoguerra. Ilmodo in cui l’ha affrontata, e ora, quella che per me è la partita più importante della vicenda del riformismo degli ultimi anni, vale a dire la riforma sanitaria, sono la testimonianza tangibile dicomein politica quando si è mossi da una visione, poi si riescono ad affrontare le più impegnative sfide per l’innovazione e sfidare i più radicati conservatorismi ».

Quali sono state le resistenze maggiori incontrate da Obama in questo primo anno di presidenza nel tradurre in fatti il sogno del Cambiamento?
«Le resistenze dei conservatori, dislocati su vari fronti. La grande manifestazione organizzata dai Repubblicani contro la riforma sanitaria, è stata in qualche modo il racconto della resistenza la cambiamento. Però, vedi, la meraviglia di quel Paese è che si apre un grande conflitto su un grande tema di merito; non un conflitto ideologico, ma un conflitto assolutamente legato al profilo di un’azione riformista. BarackObamasta sfidando coraggiosamente molti dei conservatorismi del suo Paese, tanto da rischiare, perché,comeabbiamo letto, i servizi segreti hanno dichiarato di non riuscire ad avere sufficienti forze per reggere a tutte le minacce rivolte contro Barack Obama. Quel Paese lì è un Paese in cui quando s’ingaggia una sfida riformista, le cose cambiano sul serio. Roosevelt, e poi Kennedy e Clinton ed oraObama:sono stati quattro momenti di radicale trasformazione degli Stati Uniti. Un esempio: con Kennedy la questione razziale... cose che riguardavano la storia e l’identità di quel Paese. Il riformismo per me è questo: è la sfida ai conservatorismi, è la scommessa innovatrice, è il coraggio di rischiare. Non è un quieto vivere. È il suo esatto contrario: è l’ambizione a cambiare il proprio Paese».

L’Europa si è dimostrata all’altezza delle sfide globali lanciate da Obama?
«Sinceramente no. Nel senso L’Europa stenta ad avere una sua fisionomia politico-istituzionale adeguata a Stati Uniti che volgono lo sguardo verso l’Europa con un atteggiamento del tutto diverso da quello di Bush e richiederebbero dall’Europa una maggiore forza, coerenza, unità. L’Europa, ad esempio, fa terribilmente fatica su alcune crisi che dovrebbero riguardarla direttamente, da quella mediorientale al rapporto con un’area strategica come è quella del Mediterraneo. La dottrina di Bush, con il suo unilateralismo, andava comodaad una Europa minima, e invece adesso bisogna che l’Europa si assuma le sue responsabilità e faccia le sue scelte sui dossier più difficili in prima persona».

Dall’Europa all’Italia. Un anno dopo, è sfiorito l’«innamoramento» della prima ora per Obama?
«Noi siamo un Paese molto emotivo; un Paese che vive intensissimi amori e intensissimi disamori con una rapidità che spesso è sinonimo di leggerezza e di superficialità. Da anni seguo Obama, l’ho conosciuto, quando tutti davano per scontato che avrebbe perso consideravo che sarebbe stata una ottima soluzione per gli Stati Uniti. Ad un anno di distanza resto convinto che per la Storia, e non solo per gli Usa, sia stato un fatto di grandissima importanza, che un uomo come Barack Obama abbia avuto la forza, la determinazione e l’intelligenza politica di spostare consenso, perché Obama ha vinto le elezioni spostando milioni di astensionisti che son tornati a votare, e voti che aveva preso Bush e che sono andati a Obama. E sono andati, vale la pena ricordarlo, aun profilo che era di forte innovazione e non a un tentativo di imitare Bush. Èstata una convergenza sul profilo maggiormente alternativo che però si è fatto carico anche dello sforzo di unificazione del Paese. Quando sono stato alla Convenzione democratica di Denver, Obama parlava degli Stati Uniti, non parlava come capo di una parte ma come chi si rivolgeva a l’intera comunità nazionale. E questa è stata la sua forza».

L’Afghanistan può rivelarsi per Obamaciò che per il suo predecessore è stato l’Iraq: una trappola infernale ?
«L’Afghanistan di tutti i dossier credo che sia il più ostico. Perché stare è difficile e lo è altrettanto andar via. Stare è difficile perché in un Paese come quello, nel quale nel corso della storia sono accadute tante cose, e spesso terribili e sanguinose, non è facile far maturare un processo di assunzione di meccanismi, modi e linguaggi propri di un pur faticoso processo di costruzione di uno spazio di democrazia e di libertà. D’altra parte, andar via sarebbe una sconfitta e lasciarecampolibero ai talebani; credo che Obama si renda conto che il dossier Afghanistan è strettamente legato al dossier Pakistan e che la virulenza dell’attacco integralista nell’uno e nell’altro Paese ha l’obiettivo di far saltare, ancor più che in Iraq, una speranza di stabilizzazione di quei Paesi che è interesse nel mondo intero. È il dossier più difficile, ma a mepare cheObamalo stia affrontando con quel misto di forza e politica che è mancato negli anni di Bush».

Questa domanda è Veltroni scrittore. Quale sarebbe il modo più appropriato per raccontare Obama e la sua «avventura ».
«La cosa fantastica di Obama è che è stato capace di entrare nell’immaginario del mondo intero: dal Kenya ai ragazzi italiani, dalla Scandinavia all’Asia... come è la politica nei suoi momenti più grandi, cioè quando accende la speranza di un cambiamento, perché altrimenti la politica è pura gestione.Obamaè entrato nell’immaginario e lo ha fatto in modo forte, ridando alla politica ossigeno e possibilità. Io la vedocomeuna grande sfida di una nuova generazione libera dalle ideologie, che cerca però di tradurre un bagaglio di valori e di ideali in azione concreta. Di tutte le dimensioni della politica questa mi sembra davvero la più affascinante».

Quindi il «Sogno» di Obama è ancora vivo?
«Assolutamente sì. Il “Sogno” è vivo perché sta diventando realtà. Perché se fosse rimasto un sogno, dopo un anno di governo sarebbe morto. Einvece siccome sta diventando realtà, con la fatica che si ha quando si cerca di tradurre un sogno di cambiamento a fronte di resistenze; la vivezza del sogno sta nel fatto che sta diventando reale».

04 novembre 2009
da unita.it
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« Risposta #146 inserito:: Dicembre 11, 2009, 09:56:24 pm »

«I frutti ancora non ci sono A Barack chiedo più coraggio nell’azione»

di Umberto De Giovannangeli


Si è detto, e a ragione, che il Nobel per la Pace conferito a Barack Obama sia stato un investimento sul futuro. Un futuro di dialogo e di pace.Unfuturo di “ponti” da realizzare e di “muri” da abbattere. Sono anch’io di questo avviso, ma con la stessa onestà intellettuale va riconosciuto che questo investimento non ha dato ancora i frutti sperati, almeno in Medio Oriente». A sostenerlo è uno dei più grandi scrittori contemporanei: l’israeliano Abraham Bet Yehoshua. Obama e il Nobel per la Pace.

Visto da Israele, il presidente Usa è stato all’altezza di questo prestigioso riconoscimento?
«Non mi sembra che sia già giunto il tempo per emettere giudizi definitivi, tanto meno “sentenze”. Certo le aspettative erano grandi, forse troppo grandi, ma va anche detto che è stato lo stesso Obama ad alimentarle. Non parlerei di delusione ma di un giudizio sospeso. Sospeso in attesa di fatti».

Più volte Obama ha affermato che la soluzione del conflitto israelo-palestinese era tra le priorità della sua agenda internazionale. È stato così?
«L’impegno non può essere misurato dal numero dei viaggi che la signora Clinton (segretaria di Stato Usa, ndr) o il senatore Mitchell (inviato speciale di Obama per il Medio Oriente, ndr) hanno fatto in Israele, nei Territorio nei Paesi arabi. L’impegno si misura dalla capacità di smuovere le acque stagnanti di un processo di pace che non si schioda dalle dichiarazioni di principio».

Partendo da questa considerazione di fondo, cosa si sente di imputare al Presidente- Nobel per la Pace.
«Non sono un pubblico ministero né ungiudice che deve emettere sentenze o comminare pene…Ciòche posso dirle è che, da estimatore di Obama, mi sarei aspettato, e continuo a farlo, più determinazione, più coraggio nell’azione. Se guardo al Medio Oriente, alle incertezze delle leadership israeliana e palestinese, dico che ci vorrebbe più pressione sulle due parti, e invece ».

Invece?
«Invece il presidente Usa sembra frenato dalla volontà di non produrre scosse, di evitare drammi, ma senza “strappi” è impossibile ricucire poi i fili del negoziato».

Anche Lei è tra coloro che imputano a Barack Obama di produrre bei discorsi ma pochi fatti?
«Vede, come scrittore so bene l’importanza, il peso delle parole. Le parole sono la mia vita. Le parole possono aprire o chiudere i cuori e le menti; possono emozionare, indignare, provocare dolore o alimentare speranze. Per tornare alla sua domanda, posso dirle che resto convinto che le parole pronunciate da Obama nel suo discorso del giugno scorso all’Università egiziana di Al-Azhar, abbiano colto ciò che gran parte degli israeliani ha nel cuore. Ma Obama non è uno scrittore, non è un predicatore, anche se è un grande, grandissimo comunicatore. Barack Obama è un leader mondiale. E come tale è “condannato” a dare un seguito concreto alle sue parole. Ma di questo il presidente Usa è pienamente consapevole, e ciò è beneagurante ».

Tra i critici di Obama sono in molti, riferendosi all’invio di altri 30mila soldati in Afghanistan, a sottolineare che a ricevere il Nobel per la Pace sia il capo di una nazione impegnata in due guerre.
«Non condivido questa critica. La trovo sbagliata, oltre che ingenerosa. E dico questo avendo ben presente il Nobel per la Pace conferito ad un uomoche per buona parte della sua vita aveva combattuto i nemici del suo Paese, ma che proprio perché aveva combattuto era giunto alla convinzione che la sicurezza d’Israelenon poteva essere affidata solo alla forza del suo esercito. Quell’uomo era Yitzhak Rabin, un “generale” di pace. Obama non è un pacifista romantico, come non lo era Rabin. Ma è un presidente consapevole che l’America può riconquistare la sua leadership politica, direi “etica”, a livello internazionale, se è in grado di globalizzare i diritti, i principi che sono a fondamento della sua democrazia.E questo non lo si ottiene mostrando i muscoli, anche se la storia insegna, come ha ricordato Obama, che Hitler non sarebbe stato piegato dalla non violenza. E purtroppo anche ai giorni nostri Hitler ha i suoi epigoni, più o meno mascherati, magari da presidente iraniano o da capo di Al Qaeda».

Stando ai sondaggi, Obama non è vissuto come “presidente amico” da una parte significativa, se non maggioritaria, degli israeliani…
«Qui sono totalmente a fianco di Obama. Lo sono perché Obama è l’amico che vorrei a fianco. Al fianco d’Israele. Perché un amico, vero, è anche un amico “scomodo”, quello che ti indica onestamente i tuoi errori e prova ad aiutarti a correggerli, senza mai far venire il suo sostegno quando – come nel caso dell’Iran – qualcuno prova a stenderti… Semmai, al presidente Obama chiedo di esercitare con più determinazione questa amicizia ».

Esercitarla, ad esempio, sulla questione degli insediamenti?
«Io credo che esistaun nesso inscindibile tra la smilitarizzazione dello Stato palestinese, la definizione consensuale dei confini fra i due Stati, Israele e Palestina, e lo smantellamento degli insediamenti che non rientrano nei nuovi confini d’Israele, che non possono essere quelli del 1967. Ed è in questo contesto che io ritengo necessario riconoscere che gli insediamenti israeliani rafforzano l’odio dei palestinesi verso Israele. E l’odio, ha ragione Obama, è il primo “muro” da abbattere” se si vuole davvero un Nuovo Inizio».

11 dicembre 2009
da unita.it
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« Risposta #147 inserito:: Dicembre 12, 2009, 03:29:51 pm »

Nell'attacco del 3 dicembre morirono 22 giovani e quattro ministri

In espansione il fenomeno dei terroristi islamici provenienti dall'Occidente

Era danese l'attentatore di Mogadiscio

In Somalia centinaia di jihadisti stranieri

di DANIELE MASTROGIACOMO


Era un cittadino danese l'attentatore suicida che il 3 dicembre scorso, camuffato da donna, si è fatto esplodere all'interno dell'hotel Shamu, a Mogadiscio, dove era in corso la cerimonia di consegna della laurea in Medicina a una cinquantina di studenti. Nell'attentato, particolarmente violento, oltre a 22 ragazzi appena laureati, futuri dottori in un paese senza più medici, sono morti anche quattro ministri del governo di transizione federale, mentre 30 persone sono rimaste gravemente ferite.

La notizia è stata data dal ministro per l'Informazione somalo, Dahir Gelle, dopo che i parenti del kamikaze, da 20 anni residenti in Danimarca, lo avevano riconosciuto attraverso alcune foto. Un'ulteriore conferma è giunta dai servizi segreti di Copenaghen (Pet): hanno detto che il ragazzo proveniva dalla Danimarca.

Non è la prima volta che le strutture di intelligence di diversi Paesi segnalano la presenza di cittadini occidentali sui territori dove sono in corso guerriglie della jihad. Ma la nuova identificazione conferma in modo chiaro una tendenza che agita tutti i servizi segreti europei e statunitensi e che pone un problema non di poco conto. Si sa che negli ultimi sei mesi le agenzie antiterroristiche britanniche e americane avevano segnalato la presenza di numerosi loro cittadini in Somalia. Giovani, più che altro, da tempo fuggiti con le loro famiglie da un Paese che non offriva più alcun futuro e rifugiati in quelli più sicuri e disposti ad accoglierli.

Col tempo le voci e le ipotesi sono diventate realtà. Oggi, stimano i servizi di sicurezza occidentali, almeno una ventina di cittadini americani e una trentina di britannici, muniti di regolare passaporto, sarebbero in Somalia tra le fila delle organizzazioni islamiche radicali. Prima fra tutte "al Shabab", gli studenti coranici che si ispirano ai Taliban afgani padroni dell'80 per cento del territorio. Ma si pensa che gli stranieri arruolati nelle rete jihadista siano molti di più, almeno un centinaio. Si tratta di ragazzi somali fuggiti dal Paese una ventina di anni fa, subito dopo il crollo del regime di Siad Barre nel 1991. Inseriti perfettamente nei loro nuovi Paesi dove hanno studiato e dove lavoravano, vengono contattati dai reclutatori e spinti a rientrare a Mogadiscio per affiancare le milizie islamiche e immolarsi nella jihad.

Il fenomeno non riguarda solo la Somalia. In Pakistan mercoledì scorso sono stati arrestati cinque cittadini insospettabili di Alexandra, in Virginia, scomparsi improvvisamente dagli Stati Uniti all'inizio di dicembre e sospettati di seguire corsi di addestramento per poi andare a combattere in Afghanistan. Adesso, una nuova prova arriva dalla Somalia, un Paese senza polizia e senza esercito in cui si entra e da cui si esce con estrema facilità, diventata terra di reclutamento e di combattimento delle milizie targate al Qaeda.

© Riproduzione riservata (11 dicembre 2009)
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« Risposta #148 inserito:: Dicembre 26, 2009, 11:12:35 pm »

Amnesty, dal Togo al Messico dodici buone notizie sui diritti umani

di Umberto De Giovannangeli


Per una volta almeno, e almeno a Natale, vale la pena ricordare che non tutto è disastro, sconfitte, scempi di diritti e persone nel mondo. Per una volta almeno, ricordiamo che i «buoni» possono vincere. Amnesty International lo ha fatto mettendo in evidenza le migliori 12, una per ogni mese, buone notizie del 2009 nel campo dei diritti umani. Un auspicio perché il 2010 sia l’anno dei Diritti.

9 gennaio: pena di morte. Ghana
Il 9 gennaio 2009 Il presidente uscente John Kuffour, ha commutato tutte le condanne a morte. Secondo i dati di Amnesty International, il provvedimento ha riguardato 108 prigionieri in attesa di esecuzione, 105 uomini e tre donne. L’ultima esecuzione nel Paese aveva avuto luogo nel 1993.

26 febbraio: giustizia internazionale. Kosovo/Serbia
Il 26 febbraio 2009 il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ha emesso cinque condanne nei confronti di altrettante persone giudicate colpevoli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nell’allora provincia serba del Kosovo, nel 1999. L’ex vice primo ministro jugoslavo Nikola Sainovic, il generale dell’esercito jugoslavo Nebojsa Pavkovic e l’ufficiale della polizia serba Sreten Lukiv sono stati condannati a 22 anni, mentre Vladimir Lazarevic e Dragoljub Ojdanic, rispettivamente generale e capo di stato maggiore dell’esercito jugoslavo, sono stati condannati a 15 anni.

16 marzo: campagna «Mai più violenza sulle donne». Diritti sessuali e riproduttivi. Messico
Dopo una campagna condotta per molti mesi da Amnesty International e dalle organizzazioni locali per i diritti umani, il 16 marzo 2009 è entrata in vigore la Direttiva Nom-046-ssa2-2005 che prevede, tra l’altro, accesso legale e sicuro all’interruzione di gravidanza per le donne vittime di violenza sessuale.

24 aprile: pena di morte. Burundi
Il 24 aprile 2009, a seguito dell’introduzione del nuovo codice penale, il Burundi è diventato il 93mo Paese abolizionista per tutti i reati. L’ultima esecuzione nel Paese africano aveva avuto luogo nel 1997.

11 maggio: prigionieri di coscienza. Iran
Roxana Saberi, la giornalista irano-statunitense condannata in primo grado a otto anni di carcere per «spionaggio in favore di un Paese ostile», è stata liberata l’11 maggio 2009 dopo che una Corte d’appello ha commutato l’imputazione in «possesso di materiale riservato», emettendo una condanna a due anni di carcere con pena sospesa. Amnesty International aveva lanciato un appello per la scarcerazione di Saberi all’indomani del primo verdetto, il 18 aprile.

23 giugno: pena di morte. Togo
Il 23 giugno 2009 l’Assemblea nazionale ha votato all’unanimità in favore dell’abolizione della pena di morte. Il Togo diventa così il 15mo Stato africano abolizionista, il 94mo a livello mondiale. «Questo Paese ha deciso di istituire un sistema giudiziario sano, che riduce il rischio di errori giudiziari e garantisce i diritti delle persone», ha commentato il ministro della Giustizia Kokou Tozoun. «Questo nuovo sistema non è più compatibile con un codice penale che mantiene la pena di morte e concede all’autorità giudiziaria un potere assoluto, con conseguenze irrevocabili».

1° luglio: diritti di lesbiche, gay, bisessuali e transgender. India
Il 1° luglio 2009 l’Alta corte di Delhi ha decriminalizzato l’omosessualità. Secondo Amnesty International, che insieme alle organizzazioni locali per i diritti umani aveva svolto una lunga campagna per questo obiettivo, la sentenza è un deciso passo avanti per assicurare che in India sia possibile esprimere il proprio orientamento sessuale e l’identità di genere senza timore di subire discriminazioni. La sentenza dell’Alta corte ha annullato, definendola discriminatoria e «contraria alla moralità costituzionale», una norma britannica risalente al periodo coloniale che proibiva relazioni sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso, definite «rapporti carnali contro l’ordine naturale». La legge è stata usata per colpire l’azione degli organismi impegnati nella prevenzione dell’Hiv/Aids.

7 agosto: Impunità. Brasile/Uruguay
Il 7 agosto 2009 la Corte suprema brasiliana ha autorizzato l’estradizione in Argentina del colonnello uruguayano Luis Cordero Piacentini, che deve rispondere della scomparsa di cittadini argentini e uruguayani (tra cui il neonato Adalberto Soba Fernandez, sequestrato a venti giorni dalla nascita e successivamente dato in adozione illegale) nel contesto del famigerato «Piano Condor». La massima Corte brasiliana ha accolto la richiesta della magistratura argentina, che sta indagando su una serie di crimini commessi in un centro di detenzione clandestino conosciuto come «Concessionaria Orletti», un autosalone della capitale Buenos Aires attivo negli anni della dittatura. Il «Piano Condor» fu un’operazione coordinata tra i governi militari di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Uruguay e Paraguay destinata a eliminare esponenti dell’opposizione politica negli anni ’70 e ’80.

29 settembre: diritti economici, sociali e culturali. Nazioni Unite
All’indomani dell’apertura alla firma del Protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, avvenuta il 24 settembre 2009, 28 Stati hanno già firmato il testo. Tra questi figura l’Italia, cui la Sezione Italiana di Amnesty International aveva chiesto di firmare il Protocollo.

6 ottobre: Giustizia internazionale. Ruanda
Il 6 ottobre 2009 Idelphonse Nizeyimana, uno dei maggiori ricercarti per il genocidio del 1994, è stato arrestato a Kampala, capitale dell’Uganda. Nizeyimana era a capo dell’intelligence e delle operazioni militari durante i 100 giorni in cui morirono circa 800.000 mila tutsi e hutu moderati. È accusato anche di aver creato un corpo militare speciale. Deve rispondere al Tribunale penale internazionale per il Ruanda delle imputazioni di genocidio e crimini contro l’umanità.

19 novembre: campagna «Mai più violenza sulle donne». Messico
Il 19 novembre 2009 la Corte interamericana dei diritti umani ha riconosciuto colpevole e condannato lo Stato messicano per la morte di otto donne a Ciudad Juarez, nel novembre 2001, nel caso conosciuto come «il campo di cotone». Si tratta della prima sentenza di condanna per il femmicidio in corso dal 1993 nello Stato di Chihuahua, nel nord del Paese.

1° dicembre: Rilasci. Sri Lanka
Il 1° dicembre 2009 il governo ha disposto il rilascio di migliaia di civili tamil dai centri di detenzione allestiti in primavera, alla fine della guerra civile. Amnesty International aveva lanciato un’azione globale per chiedere la chiusura dei campi e il rilascio di tutti i profughi di guerra internati.

24 dicembre 2009
da unita.it
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« Risposta #149 inserito:: Gennaio 05, 2010, 10:18:10 pm »

La rete del terrore.

Così Al Qaida tiene gli Usa sotto scacco

di Umberto De Giovannangeli


Dice: trentamila soldati in più in Afghanistan per poter sconfiggere Al Qaeda in Afghanistan. Dice: l’America non si lascerà intimidire e colpire i suoi nemici ovunque essi si nascondino. Non è George W.Bush. È Barack Hussein Obama. Otto anni e quattro mesi dopo l’11 settembre, gli Usa riscoprono la paura. Lo spettro è sempre lo stesso: Al Qaeda. Ma otto anni è quattro mesi dopo, Al Qaeda è un’altra cosa. Una Rete globale. Una vera e propria Holy War, Inc. Una multinazionale del terrore che dimostra di saper maneggiare alla perfezione gli strumenti della comunicazione virtuale.

Otto anni e mezzo dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Otto anni dopo l’avvio della guerra al terrorismo in Afghanistan. Dopo la seconda guerra in Iraq. Cambiano gli inquilini alla Casa Bianca ma l’America non si sente più sicura. Tutt’altro. Al Qaeda ha cambiato pelle. Ha fatto di necessità (la sconfitta del regime amico dei Talebani) virtù: si è estesa nel mondo. Trasformandosi in Rete. L’elenco dei Paesi in cui agiscono gruppi che fanno riferimento al marchio Al Qaeda, è impressionante: Sudan, Nigeria, Egitto, Arabia Saudita, Iraq, Yemen, Somalia, Etiopia, Afghanistan, Pakistan, Indonesia, Bosnia, Croazia, Albania, Algeria, Tunisia, Marocco, Libano, Filippine, Russia, Cecenia, Tagikistan, Azerbaigian, Daghestan, Kenya, Tanzania, Kashmir, India, Gran Bretagna, Olanda. Al Qaeda può inoltre contare su seguaci e cellule «dormienti» negli Stati Uniti - a New York, Boston, Texas, Florida, Virginia e California - e nel Regno Unito, a Londra e Manchester. Sostenitori di bin Laden sono stati arrestati in luoghi disparati quale la Giordania, Seattle, la Francia, la Danimarca, l’Uruguay e l’Australia.

I rapporti economici e finanziari imbastiti dal network qaedista coinvolgono gruppi legati agli «ulama» sauditi più oltranzisti e ai Fratelli Musulmani in Kuwait, Qatar e Dubai. Il giro di liquidità finisce per far capo a una cupola di 400 finanzieri, per due terzi arabi e per il resto pachistano e altri asiatici, con centinaia di società sparse per il mondo. Il riciclaggio del denaro sporco coinvolge innumerevoli «lavanderie» dal Sudamerica agli Stati Uniti, dalla Svizzera all’Africa, dal Medio Oriente all’Asia ex sovietica.

La «guerra mediatica» è un aspetto fondamentale della Rete qaedista. Gruppi di informatici curano siti web in oltre diciotto lingue, dall’albanese allo svedese. La «rete delle reti» del Jihad armato ha sparso i suoi tentacoli operativi e le sue sedi «universitarie» di indottrinamento e apprendimento operativo in ogni angolo del pianeta: nel Golfo Persico, i centri direttivi sono oggi, oltre che nelle trincee sunnite in Iraq e Yemen, nelle retrovie dell’Arabia Saudita, vero polmone finanziario della Rete di Al Qaeda, in Asia orientale, il quartier generale del jihadismo si trova in Indonesia. In Africa le strutture più funzionali sono collocate in Uganda e Nigeria, Somalia ed Etiopia. Comuni affari per il traffico di droga stabiliti da emissari di Al Qaeda con il cartello del narcotraffico colombiano, hanno portato il jihadismo a insediare un nucleo operativo anche in America Latina, a Bogotà. La «bomba sporca». È l’obiettivo dichiarato di Al Qaeda: potenziare la sua capacità offensiva dotandosi di bombe sporche («Ordigni esplosivi associati a sostanze radiologiche») o «aggressivi chimici e agenti biologici». Le piste più battute dagli emissari di bin Laden per acquisire il materiale radioattivo non fissile, portano soprattutto verso la tratta georgiana. Per la sua posizione geografica innanzitutto: snodo geografico naturale ra Russia, Asia Minore e Turchia, la Georgia ha di fatto assicurato a traffici di diversa natura frontiere permeabili, alti livelli di connivenza delle polizie di confine, gruppi di ribelli separatisti che fanno del contrabbando la fonte principale di autofinanziamento. L’altra ragione è che la Georgia è anche un serbatoio naturale di materiale radioattivo di epoca sovietica. Altra direttrice che cresce di importanza è quella che passa per le ex repubbliche dell’Unione Sovietica e che raggiunge piazze come il Pakistan, l’Afghanistan, la Thailandia e l’Indonesia. Ed è proprio attorno alla «bomba sporca» e al contrabbando di materiale radioattivo non fissile che rischia di saldarsi un’alleanza tra la «multinazionale del terrore» e le «holding» più ramificate della criminalità organizzata. di certo alla «Holy war, inc. » non manca il denaro per acquisire sul mercato nero armi di distruzione di massa. Oltre al contrabbando di droga, i forzieri di Al Qaeda vengono costantemente riforniti dalle innumerevoli organizzazioni «caritatevoli» musulmane sparse per il mondo e fortemente strutturate in Europa e negli Usa. Una pratica che, secondo stime attendibili, porta ogni anno nella casse di Al Qaeda dai 300 ai 400 miliardi di dollari.

05 gennaio 2010
da unita.it
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