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Autore Discussione: Come fare la storia della filosofia contemporanea?  (Letto 2347 volte)
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« inserito:: Settembre 28, 2020, 06:19:36 pm »

Come fare la storia della filosofia contemporanea?
Storia-filosofia-contemporanea-499

Di LUCIO CORTELLA
È il confronto/scontro con la filosofia hegeliana che ha governato lo sviluppo della filosofia contemporanea: a sostenerlo è Lucio Cortella nell'appena pubblicato “La filosofia contemporanea. Dal paradigma soggettivista a quello linguistico” (Laterza, 2020). Ne pubblichiamo la presentazione, per gentile concessione dell'editore e dell'autore, che ringraziamo.

Il problema con cui si scontra ogni esposizione del pensiero contemporaneo è la mancanza di uno standard condiviso in grado di stabilire priorità e gerarchie fra i vari pensatori e fra le scuole filosofiche. Le epoche precedenti non soffrono di questa assenza, dato che si sa – più o meno – quali sono i filosofi maggiori e le linee di sviluppo che conducono dalla filosofia antica fino alla stagione dell’idealismo tedesco. Con il pensiero contemporaneo non disponiamo ancora di un “canone” analogo, il che produce quella percezione diffusa, spesso disorientante, di un panorama filosofico attraversato da una pluralità di concezioni e proposte teoriche non solo assai differenziate ma apparentemente prive di relazioni e di coerenza. Sembra perciò realizzarsi anche sul piano storico-oggettivo quello che molti fra i protagonisti del pensiero contemporaneo hanno poi perseguito nel loro modo di concepire la pratica filosofica, vale a dire il rifiuto dell’idea di sistema e di ordine razionale. In realtà un tratto fondamentale della storia della filosofia, cui neppure quella contemporanea si sottrae, è quello per cui ogni proposta teorica è sempre una reazione a problemi irrisolti di precedenti teorie, l’aggiunta di un argomento mancante, la conclusione di un ragionamento rimasto interrotto. Proprio per questi motivi la storia del pensiero manifesta una coerenza sotterranea ben più sostanziale di quanto non appaia in superficie.

Il tentativo che ho voluto perseguire con questo volume è stato quello di dare contorni un po’ più definiti a quell’immagine sfocata, imprecisa e a volte contraddittoria del pensiero contemporaneo cui non sanno sottrarsi neppure i manuali migliori. È un’esigenza maturata nel corso della mia lunga esperienza didattica con gli studenti universitari, ai quali volevo fornire una mappa e un quadro coerente all’interno del quale collocare le più importanti teorie filosofiche contemporanee. Mi sono quindi appropriato di un’idea interpretativa, intuita da alcuni pensatori del Novecento, secondo cui negli ultimi due secoli sarebbe avvenuto un radicale cambio di paradigma filosofico, ovvero il passaggio da una concezione fondata sulla centralità del soggetto, dominante in gran parte della filosofia moderna, a una diversa concezione fondata sulla centralità del linguaggio. A partire da quest’idea ho quindi proceduto a un’analisi puntuale di autori, scuole filosofiche e testi mostrando in concreto le differenti fasi di quel processo di formazione che ha finito progressivamente per imporre la centralità del paradigma linguistico. Ne è uscito non solo un itinerario coerente ma anche una sorta di mappa filosofica, attorno a cui raccogliere le più importanti idee del pensiero contemporaneo. La sfida che ho inteso raccogliere è stata perciò quella di illustrare attraverso l’esposizione storica una specifica tesi teoretica, intrecciando quindi consapevolmente teoria e storia.

La mia scelta di avviare l’esposizione della filosofia contemporanea a partire da Hegel e dalla crisi del suo sistema implicava già una ben precisa ipotesi teorica, vale a dire l’idea che il sistema idealistico facesse da spartiacque fra un prima e un poi, fra una storia precedente che è stata in gran parte caratterizzata dal pensiero metafisico e un pensiero successivo che dalle istanze metafisiche fondamentali ha inteso esplicitamente prendere congedo. La grande sfida hegeliana era stata quella di voler conciliare l’assunto di fondo della filosofia moderna, vale a dire il principio del soggetto, con l’impianto sostanzialistico-ontologico della metafisica classica. Contro il risultato delle indagini kantiane che avevano mostrato l’impossibile conciliazione fra le istanze critiche della soggettività e le vecchie idee della metafisica, Hegel era convinto che la metafisica potesse risorgere rifondandola proprio sulla soggettività e sull’idea che il pensare fosse la verità oggettiva delle cose. La Scienza della logica è il risultato di questa imponente riformulazione del vocabolario metafisico riproposto in termini logico-concettuali: solo sotto forma di concetto logico Dio può sopravvivere e risorgere nella costellazione critica della modernità. Certo, il “concetto” non è più in Hegel una struttura soggettiva, una forma da applicare a contenuti esterni, ma è la verità ultima del tutto, il fondamento della natura e della storia, è cioè struttura oggettiva (per la quale – non a caso – Hegel riabilita l’antica nozione platonica di “idea”, conferendole appunto il suo originario significato ontologico). E tuttavia il Dio della metafisica – l’essere supremo – al pari del Dio della tradizione cristiana – quello “rappresentato” nella narrazione religiosa –, diventano nella Logica hegeliana solo una concettualità logica, una processualità di categorie e di implicazioni dialettiche, che giungendo alla consapevolezza di se stesse si presentano, in ultima istanza, come un sapere, un sapere assoluto, l’unica vera realtà ultima delle cose. Hegel dunque “salva” sia la metafisica sia il principio del soggetto, ma a caro prezzo: la vecchia ontologia si risolve in un’implicazione logico-concettuale e il soggetto diventa un pensare oggettivo il cui rapporto con l’individuo resta alla fine problematico e sostanzialmente irrisolto. Le esplicite critiche di Hegel alla “vuota soggettività” dei moderni e alla “vecchia metafisica” dell’intelletto, laddove invece ci si sarebbe aspettata la loro riabilitazione, si spiegano con l’ambivalenza oggettiva della soluzione hegeliana.

I successori di Hegel hanno progressivamente maturato la convinzione dell’insostenibilità di quella soluzione. Ai loro occhi appariva evidente l’impossibilità di conciliare soggettività e totalità, teologia e immanenza, assolutezza e storicità, divenire logico e incontrovertibilità del sapere. Ne è derivata la messa in discussione di entrambe le componenti che Hegel aveva tenuto insieme: il primato del soggetto e il rinnovamento della metafisica.

Contro la signoria dello spirito la filosofia post-hegeliana teorizza, in primo luogo, la finitezza della nostra soggettività, il suo dipendere da altro (la vita, la prassi, la materia, la volontà), il suo essere esposto, “gettato”, assoggettato. Si tratta di un esito che si accompagna alla tematizzazione della radicale opacità delle cose rispetto al sapere, della resistenza del mondo ai tentativi di concettualizzarlo e di renderlo conforme ai nostri standard epistemologici.

In secondo luogo si va sempre più rafforzando l’idea dell’impossibili­tà della metafisica, della sua irraggiungibilità, o almeno del radicale depotenziamento delle sue pretese. Perché se è vero che una parte del pensiero contemporaneo ha inteso riproporre una certa idea di metafisica e di ontologia, questo è diventato praticabile solo intrecciandola con la consapevolezza della fallibilità del nostro sapere, oppure facendo un uso equivoco di quella parola (si pensi a una certa filosofia analitica contemporanea), conferendole cioè un significato che ha poco a che vedere con l’antica pretesa di esporre il senso ultimo delle cose e di esibirne il fondamento.

Infine, la terza conseguenza della dissoluzione del sistema idealistico è stata il drastico ridimensionamento delle pretese della ragione, di quelle pretese che la dialettica hegeliana aveva voluto non solo riproporre ma addirittura rafforzare. Hegel aveva infatti inteso rifondare l’antica nozione greca di un logos oggettivo al di sotto del mondo storico e naturale. La sua tesi dell’identità del reale e del razionale affermava proprio questo: l’essenza del tutto è logica, la natura e la storia sono governate da una razionalità immanente che è identica al sapere logico-concettuale. Dopo la fine del sistema idealistico questa idea viene completamente abbandonata, avviando un processo che condurrà a una vera e propria “crisi della ragione”.

È in questo contesto che lentamente ha preso forma l’idea che il linguaggio potesse costituire un nuovo terreno a partire dal quale far ripartire il discorso filosofico della contemporaneità. Esso infatti si è progressivamente sostituito alla vecchia soggettività moderna, ereditandone alcune funzioni: essere condizione della nostra conoscenza del mondo, fornire le strutture fondamentali della nostra razionalità, costituire il presupposto indispensabile per la formazione della stessa individualità. Il linguaggio ha così cominciato a presentarsi come una nuova forma di “trascendentale”, anche se in un senso molto diverso rispetto al modo in cui lo era stato il soggetto. Il linguaggio infatti non può essere assolutizzato né acquisire uno statuto “sovrasensibile”. Al contrario, esso presenta caratteri specificamente sensibili (le parole, la voce, il suono, la scrittura) e deve dunque rinunciare alla vecchia pretesa della soggettività moderna di risolvere al suo interno la realtà delle cose. Il mondo gli è strutturalmente “resistente”. Così come esso, a sua volta, resiste alla pretesa metafisica di un resoconto incontrovertibile e totalizzante del mondo. Se è il linguaggio la condizione perché noi possiamo argomentare, dedurre, connettere i concetti fra loro, elaborare teorie, intessere rapporti con le cose e con gli altri individui, il resoconto che ne uscirà sarà inevitabilmente composto di parole e gli stessi concetti non potranno più pretendere di essere solo dei “pensieri” ma pensieri mediati dalle parole. Certo, le parole non sono mai solo “cose” empiriche. Esse infatti esprimono significati che vanno ben al di là del momento meramente sensibile rappresentato da segni e suoni. E tuttavia quei significati rimangono strettamente legati alle parole che li esprimono e noi tutti sappiamo come le parole non contengano mai un unico significato ma siano plurisignificanti, strutturalmente oscillanti, aperte a molteplici interpretazioni. Il discorso filosofico che abbia piena coscienza di questa sua inevitabile dipendenza dal linguaggio mette in conto dunque l’impossibilità di un resoconto non solo totalizzante ma anche semplicemente definito e conclusivo delle cose. L’opacità del mondo, da un lato, e la strutturale incompiutezza dei discorsi, dall’altro, rendono la filosofia ancor più consapevole della sua finitezza e fallibilità.

Nella comune condivisione di queste premesse le filosofie contemporanee si sono poi sviluppate in differenti direzioni. In primo luogo l’opacità del mondo alle nostre parole ha posto le condizioni per ritenere la descrizione linguistica non già un rispecchiamento delle cose, ma al contrario come la loro costituzione. Ne è uscita un’idea di realtà – del resto già potentemente anticipata da Nietzsche – come costruzione, il risultato delle nostre parole, il loro prodotto. E proprio la consapevolezza non solo della plurivocità dei segni ma anche della molteplicità dei linguaggi ha condotto all’inevitabile conclusione di una moltiplicazione dei “reali”. Il mondo diventa infinito, sia in senso estensivo (i molti modi di dirlo) sia in senso intensivo (l’infinità di prospettive contenuta all’interno di ogni descrizione).

In secondo luogo il sospetto nei confronti dei nostri concetti e dei tradizionali ragionamenti filosofici ha finito per allontanare un’altra parte del pensiero contemporaneo dalla ragione, e non solo dal tradizionale logos oggettivo ma anche dalla pretesa della ragione di essere lo strumento privilegiato per accedere alle cose, spiegarle, aprendone i pur molteplici sensi. Al di sotto delle giustificazioni razionali o della ricerca di fondamenti è stata individuata solo una volontà di sopraffazione, una modalità occulta del potere, una violenza mascherata dalle buone maniere. Ma una volta liberatasi dalla razionalità, la filosofia è diventata inevitabilmente narrazione, esercizio stilistico, letteratura. Il post-moderno, uno dei vari esiti di questo percorso, non è solo la consapevolezza del carattere costruttivo e interpretativo del mondo, il dissolversi liquido della realtà, ma anche l’abbandono definitivo della ragione e la sua moltiplicazione in infiniti discorsi, tutti equivalenti e tutti ritenuti degni di appartenere al medesimo palcoscenico filosofico.

Ma non tutto il pensiero contemporaneo è andato in questa direzione. A ben vedere sia la riduzione del reale a costruzione linguistica arbitraria sia la considerazione della ragione come mascheramento della volontà o del potere nascondono – nonostante tutte le critiche al paradigma coscienzialistico dei moderni – un residuo di soggettivismo: l’idea che il linguaggio sia una sorta di macrosoggetto che decide e determina, costruisce e dissolve. Ma il linguaggio vive nella relazione fra i soggetti, nelle loro pratiche di vita, nello scambio di opinioni e di ragioni. Esso è alle spalle degli individui ma ne è anche il prodotto. Le produzioni linguistiche al pari delle nostre concezioni del mondo, così come le differenti esperienze derivanti dall’incontro con la realtà che sta di fronte a noi, non sono né il risultato delle nostre soggettività individuali né l’espressione di un’anonima struttura linguistica oggettiva posta al di sopra di noi, ma sono proprio l’esito di quell’incontro intersoggettivo, dell’ininterrotto scambio comunicativo, delle smentite e delle conferme che si producono incessantemente nei rapporti sociali.

Assunto in questa dimensione pragmatico-comunicativa il linguaggio mostra un altro volto ancora: non un anonimo sistema di segni, né una sintassi formale nel rapporto fra proposizioni, ma un insieme di pratiche linguistiche – quelle che caratterizzano la nostra comunicazione quotidiana – nelle quali noi siamo costantemente sollecitati a prendere posizione, a domandare e rispondere, a obiettare e concordare, a discutere e imparare. Gli esiti finali dell’ermeneutica (nella sua versione gadameriana), dell’epistemologia novecentesca (il razionalismo critico di Popper), di una parte della filosofia analitica (dall’ultimo Wittgenstein alla teoria degli atti linguistici, al neo-pragmatismo americano) e della seconda generazione della Scuola di Francoforte (Habermas e Apel) hanno evidenziato questa dimensione pragmatico-dialogica del linguaggio. E proprio la scoperta di questa dimensione ha consentito di rimettere in gioco quella razionalità che alcuni sviluppi della svolta linguistica sembravano aver definitivamente compromesso. Quel logos che la tradizione metafisica aveva pensato come una struttura oggettiva e sostanziale e che, all’opposto, il post-moderno aveva smascherato come una finzione o una violenza, è stato riscoperto come un carattere della nostra forma di vita comunicativa, depositato e conservato nelle nostre pratiche.

Il passaggio dal paradigma soggettivista a quello linguistico comporta certamente la presa di distanza da una ragione assolutista in grado di svelare (e al tempo stesso costituire) il senso ultimo delle cose, ma non conduce alla bancarotta della razionalità. Proprio la valorizzazione della dimensione comunicativa del linguaggio ci consente di ricostruire le strutture di fondo della ragione, alle quali necessariamente attingono le nostre descrizioni del mondo, le critiche e perfino le demolizioni più radicali della ratio occidentale.

L’inaggirabilità della ragione, il suo costituire una risorsa indispensabile per le nostre interazioni comunicative, e quindi anche per il discorso filosofico, è quel punto di arrivo del pensiero contemporaneo che consente di riprendere la relazione, apparentemente interrotta, con la grande tradizione metafisica che ha caratterizzato la storia della filosofia. La metafisica non potrà più essere riabilitata nelle forme storiche in cui quel sapere si è depositato nei secoli passati, forme che risentivano di un’immagine del mondo ormai definitivamente affossata dalla scienza contemporanea. Né la restaurazione dell’ideale soggettivista – ormai fuorigioco – della modernità, né la riproposizione di un realismo ingenuo, per il quale l’ontologia si risolve nella classificazione di “ciò che c’è” e che alla fine si converte nella mera rivalutazione del senso comune, possono rappresentare la risposta alle degenerazioni post-moderne della contemporaneità. L’eredità della metafisica sta nella sua trasformazione, mostrando come il logos oggettivo possa rivivere nelle strutture argomentative di una razionalità procedurale che affonda le sue radici nella comunicazione linguistica. La metafisica greca è nata a partire dall’istanza socratica del lógon didónai, l’esigenza di “dare le ragioni” del proprio dire, argomentando, obiettando, rispondendo alle domande e alle confutazioni, in un confronto intersoggettivo mai definitivamente concluso. Quelle ragioni non dimorano in nessun cosmo oggettivo ma sono conservate nelle strutture comunicative del nostro linguaggio. In quelle ragioni si trova depositata l’eredità di una tradizione millenaria.

Il percorso della filosofia contemporanea, pur sostenuto da un’idea di fondo sostanzialmente condivisa da molti dei suoi protagonisti, conosce dunque esiti diversi, proprio perché diverse sono le concezioni del linguaggio sviluppate dai vari protagonisti della nostra epoca filosofica. Il tentativo che ho voluto perseguire è stato però quello di mostrare la dinamica interna che tiene assieme teorie apparentemente molto lontane fra loro: non una panoramica di autori e testi isolati gli uni dagli altri, ma una sequenza intrecciata di questioni e idee, in cui ogni mancata o insoddisfacente soluzione trova sovente una risposta in una teoria successiva. La selezione dei pensatori e dei testi ha dunque seguito questo intento: ricostruire un percorso, o meglio ricostruire il discorso filosofico dell’epoca contemporanea.

Lucio Cortella è Professore Ordinario di Storia della filosofia presso l'Università Ca' Foscari di Venezia.

(18 settembre 2020)

Tag:filosofia contemporanea, Gadamer, Habermas, Hegel, linguaggio, Popper

Scritto venerdì, 18 settembre, 2020 alle 19:37 nella categoria Archivio. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.

3 commenti a “Come fare la storia della filosofia contemporanea?”
Sisco scrive:
18 settembre 2020 alle 20:53
Perduto in secche concettuali che non ha nemmeno saputo far comprendere, l'autore di questo articolo non ha appassionato il lettore agli argomenti che sono stati messi in campo. L'ombra del dio morto appare ancora nell'oscurita delle caverne platoniche con quella supponenza che probabilmente aggrada ai solutori di enigmi filosofici. E pensare che chi legge di filosofia approva questo modo di periodare fra salti tra un pensatore e l'altro senza neppure il brivido di un salto mortale...
Soggettivismo e linguaggio? Cosa può significare questo doppio filo che congiungerebbe due diversi modi di intendere le filosofie contemporanee; dove mai si sono potute anche solo pensare queste linee guida per una lettura?

Giovanni M. scrive:
19 settembre 2020 alle 08:37
Sembra un testo molto interessante.

A mio modesto avviso uno dei problemi della filosofia contemporanea è il rapporto con la scienza.
Sembra quasi non ci sia più da fare filosofia perché la scienza avrebbe spiegato tutto e il senso della filosofia cone ricerca del sapere viene dunque meno.

Lo ritengo un approccio sbagliato, anzi proprio grazie alla scienza partendo da assunti razionali e scientifici, la filosofia potrebbe inoltrarsi nella interpretazione metafisica della realtà(scientifica).

Pasquale Giannino scrive:
19 settembre 2020 alle 17:52
Da quello che ho potuto leggere, sembra che l'autore ignori del tutto il contributo fondamentale fornito da Bertrand Russell con la sua teoria delle descrizioni. Prendiamo il problema dell'esistenza. Un problema che si presta a ogni genere di inganni verbali, dall'essere uno immobile ed eterno di Parmenide agli essenti eterni di Emanuele Severino. Il professor Severino sosteneva che se A è esistita ieri non può non esistere oggi, non potrà non esistere domani. Se A è esistita, non può non essere eterna. Dov'è l'inganno? Non è poi così difficile scoprirlo. Altro è dire se A è vera non può essere falsa (e viceversa), altro è dire se A esiste non può non esistere. Nel primo caso, si ipotizza la verità o falsità oggettiva di A. Nel secondo, l'esistenza. Verità ed esistenza non sono la stessa cosa. Se A esiste oggi, potrebbe non esistere domani. La proposizione "7 è un numero dispari" è vera oggi, lo sarà domani, lo sarà sempre.

La teoria delle descrizioni è lo strumento che consente di svelare tali inganni verbali spacciati per logica. Il concetto chiave è quello matematico dell'enunciato aperto: un enunciato in cui compare una variabile x, e il cui valore di verità (oggettivo) dipende dal valore a essa attribuito. Esempio: l'enunciato aperto "x è un numero dispari" diventa una proposizione vera per tutti i valori dispari attribuiti a x; falsa per quelli pari. Bene, ci sono enunciati aperti che sono veri per un solo valore di x. Esempio: "x è il numero primo più piccolo". È vero solo in un caso: quando x vale 2. Ossia, esiste un solo numero naturale tale che l'enunciato "x è il numero primo più piccolo" è vero quando x è uguale a quel numero. Rispetto al problema dell'esistenza, nella teoria delle descrizioni si considera quest'ultimo tipo di enunciati aperti, estendendoli al linguaggio comune. Fra i vari esempi fatti da Russell, è molto interessante quello delle montagne d'oro. Dire: "Le montagne d'oro non esistono" è cattiva sintassi. Qualcuno potrebbe chiedervi cos'è che non esiste. Se voi rispondete: "Sono le montagne d'oro", siete nei guai. Infatti l'altro potrebbe eccepire: "Ah, 'sono' le montagne d'oro... allora esistono!". Ecco, per evitare di incorrere in tali spiacevoli ambiguità sintattiche, Lord Russell consiglia di esprimersi in tal modo: "Non esiste un'entità c tale che 'x è d'oro e montuoso' è vero quando x è c e non altrimenti".

A questo punto possiamo entrare nel vivo della questione. La frase "Dio esiste" è cattiva sintassi. La teoria delle descrizioni ci consente di affrontare il problema dell'esistenza di Dio in modo rigoroso e non ambiguo. Il concetto chiave è questo: prima di affermare che un soggetto nominato esiste bisogna descriverlo; poi si potrà discutere della sua esistenza. Di quale Dio parliamo? Di quali attributi metafisici lo dobbiamo adornare? E qui abbiamo una prima difficoltà, piuttosto seria: bisogna attingerli da una particolare tradizione religiosa. Una fra le tante. Non possiamo descrivere un Dio condiviso da tutte. Per semplicità, prendiamo la Trinità descritta dal cattolicesimo (ma potremmo considerare quella induista, il Dio descritto dall'ebraismo, dall'islam etc.). La forma corretta è: "Esiste un'entità c tale che l'enunciato 'x è la Trinità cattolica' è vero quando x è c e non altrimenti; inoltre c è Dio". Bene, sul piano logico, non vi è alcun dubbio sull'esistenza di quell'entità c che rende vero l'enunciato, e che per i cattolici è Dio. I credenti di tutte le altre fedi, persino gli atei e gli agnostici non possono negare che tale entità corrisponda alla descrizione della Trinità fornita dalla dottrina cattolica. Nessuno di loro dirà che tale entità è Dio. Questo lo diranno i cattolici. Ma sul piano dell'esistenza concreta, neanche i cattolici possono asserire che tale entità che essi identificano con Dio esiste. Lo stesso ragionamento si può ripetere per tutte le altre descrizioni di Dio, giungendo a conclusioni analoghe.

Forse, un giorno, la guerra tra i filosofi continentali e gli analitici avrà fine. E la filosofia occidentale indicherà una nuova strada, per il cammino della civiltà umana.

Per chi abbia voglia di inquadrare questa mia breve riflessione in un discorso più ampio, rimando al saggio Dio gioca a dadi? pubblicato in questo blog il 3 febbraio scorso.

Da - http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/09/18/come-fare-la-storia-della-filosofia-contemporanea/
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 01, 2020, 05:35:01 pm »

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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 12, 2020, 01:05:58 pm »

Della gentilezza e del coraggio, manuale denso ed essenziale di G. Carofiglio

Titti Ferrante
6 Ottobre 2020

“Caliti junku ca passa la china
Caliti junku da sira a matina”

Si intitola “Della gentilezza e del coraggio” breviario di politica e altre cose, l’ultimo libro di Gianrico Carofiglio, in cui lo scrittore barese affronta il tema della pratica intelligente e produttiva del conflitto dialettico attraverso la neutralizzazione dell’avversario. Quella della cedevolezza e della gentilezza è una tecnica che si ispira al principio di non resistenza ghandiana e alla pratica del jujutsu e delle arti marziali in generale che tendono a ridurre la violenza del conflitto provocando lo squilibrio dell’avversario.

Un libro che si configura come un manuale di politica, ma anche di educazione al pensiero, alla messa in opere delle buone pratiche educative.

Per enfatizzare concetti essenziali, Carofiglio definisce utilizzando la tecnica del contrario, egli cioè sottolinea cosa non è gentilezza: non è garbo, buone maniere, educazione, non è il mite di Bobbio, ossia l’eterno sconfitto, l’arrendevole, incapace di modificare il mondo.

Essa è un potente arnese che consente di disinnescare le semplificazioni che portano alla sopraffazione e alla violenza, attraverso il confronto, l’apertura a ciò che è diverso, alla percezione dell’altro. É superamento del conflitto che è molla evolutiva e strumento di crescita se trasformato in energia positiva.

Attenzione e ascolto, doti essenziali alla percezione dell’altro, richiedono una mente sgombra, priva di pregiudizi e sovrastrutture, capacità di negoziare. L’ascolto diviene attivo se è capace di mettere a tacere l’ego che si nutre di schemi prefabbricati e visioni miopi.

A tale proposito, Antonio Vigilante nel suo studio su Danilo Dolci individua la simmetria come fondamento di una relazione autentica; è necessario che i partecipanti ad un dialogo educativo si riconoscano come uguali e si sforzino di lavorare insieme nel rispetto della pari dignità di ognuno. Quando uno o più membri occupano una posizione predominante, le relazioni sono asimmetriche e si instaura una relazione di dominio. La relazione in Dolci è il fondamento essenziale per comprendere e cambiare la realtà. La coscienza, che non è il possesso della verità assoluta, “realizza quell’apertura implicita nel cum della sua etimologia (cum scientia) e diventa conoscenza comune, partecipata, in quanto tale, la coscienza ha naturalmente una dimensione politica … consapevole dei nessi che esistono tra individuo e collettività nel riconoscimento non di un altro generico ma di un essere umano con la sua identità”.

Carofiglio cita Trump come esempio eccellente di un pessimo comunicatore e di grande manipolatore in quanto lontano dall’essere portatore di verità, propina messaggi privi di significato usando parole che servono ad influenzare i propri interlocutori attraverso l’utilizzo di schemi ed etichette che adattano la realtà ad una visione grandiosa di sé.

Tipico esempio di dialettica manipolatoria sono le soluzioni grottesche individuate per far fronte al diffondersi dell’epidemia da Covid 19, oggetto di satira mondiale così come la ricerca del capro espiatorio quando, resosi conto di aver sottovalutato l’emergenza, ha attribuito colpe all’Organizzazione mondiale della sanità e alla Cina accusata di aver condotto esperimenti di manipolazione genetica.

Il narcisista, di cui il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti sarebbe il prototipo, è privo di metacognizione cioè la capacità di osservare criticamente le proprie prestazioni che comporta la sopravvalutazione di se stessi e l’utilizzo di giudizi semplificati nell’interpretazione della complessità del mondo che richiederebbe, invece, quella che la neuroscienziata Maryanne Wolf definisce la pazienza cognitiva.

Fenomeno dilagante del mondo contemporaneo, infatti, è la vasta mole di informazioni a cui abbiamo accesso che genera l’illusoria convinzione di poter acquisire tutto il sapere velocemente senza studio; bandito l’impegno e la fatica, si perde la facoltà di problematizzare, non si perviene all’acquisizione di competenze e saperi.  Carofiglio racconta a tale proposito, che Picasso era seduto ad un bistrot parigino che disegnava su un tovagliolo di carta quando viene avvicinato da una signora interessata ad acquistare il disegno, all’osservazione che gli era bastato poco tempo per realizzarlo mossa dopo la richiesta di una cifra esorbitante, il maestro risponde che invece aveva impiegato una vita intera. La rapidità è il risultato di competenza e padronanza che si acquisisce solo attraverso l’esercizio, la pratica, l’allenamento.

Quella della competenza è un altro tema affrontato nel libro, Carofiglio ci spiega che non esiste il competente in ogni campo, la competenza si esercita in campi specifici, la caratteristica della competenza è la consapevolezza del suo limite, Socrate era consapevole della finitezza del suo sapere.

Quello del linguaggio gergale, settoriale, spesso volutamente oscuro e autoreferenziale, caratteristica degli esperti nel dibattito pubblico, è un altro argomento affrontato nel libro che sta particolarmente a cuore dello scrittore barese. La partecipazione alla vita democratica richiede l’abbandono di pose aristocratiche ed un uso di un linguaggio chiaro, semplice, lineare.

Un linguaggio da parte di leader politici dalle strutture sintattiche spesso molto semplificate con l’uso di frasi brevi, sintassi frammentaria e sconnessa, riduzione del vocabolario, frasi ridondanti hanno caratterizzato politiche demagogiche in tutti i periodi storici compreso quello attuale ed è spesso veicolo di idee razziste e violente, di istinti di sopraffazione, di liberazione di energie tossiche. Il messaggio dei populisti è proprio quello di non temere l’espressione dei sentimenti più oscuri. Il populismo affonda le sue radici non solo nell’ignoranza e nella rozzezza, nell’odio e nella paura verso lo sconosciuto che serve ad alimentare la coesione sociale di un gruppo definendone l’identità, ma anche in un senso di fiducia tradita, di una promessa di cambiamento non mantenuta.

L’alternativa al discorso manipolatorio, caratterizzato dall’uso costante e intenzionale degli argomenti fallaci, è la discussione ragionevole, la capacità di interrogazione del potere, di rimuovere pregiudizi e i muri che limitano il pensiero collettivo impedendo il progresso e l’evoluzione.

Fondamentale all’attività di porsi domane, di uscire da se stessi e affrontare crisi inattese, è l’autoironia. La mancanza di senso dell’umorismo si accompagna a certezze radicali infondate e spesso grottesche; la capacità di cogliere il ridicolo, al contrario, favorisce una visione meno deformata del mondo e di noi stessi, consentendo l’uscita dalla gabbia dell’ego, dall’adesione cieca alla regola e un’aderenza ad uno scorrere più fluido dell’intrinseca libertà della vita.

Il coraggio, inteso come reazione attiva ai pericoli individuali e collettivi insieme alla gentilezza che non è semplice cortesia, ma strumento per affrontare e gestire il conflitto, sono arnesi indispensabili che definiscono non solo la fisionomia del cittadino consapevole, ma la sua appartenenza al genere umano.

Da - https://www.glistatigenerali.com/letteratura/della-gentilezza-e-del-coraggio-manuale-denso-ed-essenziale-di-g-carofiglio/
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