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Autore Discussione: Nicola CACACE. Chi vince chi perde  (Letto 4138 volte)
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« inserito:: Dicembre 21, 2007, 06:36:08 pm »

Italia triste primato

Nicola Cacace


In Italia la media del 2001-2005 è di 1.328 morti sul lavoro, cinque al giorno, leggermente scesa nel 2006 ma nel 2007 non si allontanerà da questo quadro. Eppure il progresso tecnico con macchine più sicure e la riduzione di lavori pericolosi come fonderie, cave e miniere ha portato fattori oggettivi di miglioramento annullati da orari più lunghi, lavoro precario, riduzione dei costi senza la giusta attenzione alla sicurezza. Perché nel nostro Paese si muore di lavoro più che negli altri paesi industriali?

La media italiana di morti sul lavoro (ultimi 5 anni) è di 22,5 morti per milione di abitanti, più del doppio dei 3 grandi paesi europei, che è di 10,5, secondo i dati Onu dell’Uil di Ginevra.

In Europa solo Spagna e Portogallo hanno dati di mortalità sul lavoro simili ai nostri, con la Romania in testa con più di 60 morti per milione di abitanti mentre nel mondo il record negativo risulta quello della Cina con 127 mila morti, quasi 100 morti per milione di abitanti.

Perché malgrado l’indubbio progresso in sicurezza di macchine ed impianti e la riduzione del peso di settori oggettivamente pericolosi in Italia da molti anni le cifre non mostrano una chiara tendenza alla riduzione? La tesi prevalente attribuisce la colpa alla carenza di controlli efficaci, io aggiungo altri due fattori, il prolungamento degli orari di lavoro e l’aumento della precarietà.

È nota la relazione inversa tra orari di lavoro e produttività oraria e tra orari e infortuni. Il caso più clamoroso noto agli esperti è quello inglese della prima guerra mondiale. Quando il ministro della guerra nel 1914 aumentò l’orario di lavoro per esigenze belliche si ebbero risultati disastrosi malgrado la buona volontà e il senso patriottico di operai e sindacati: il rendimento operaio calò tanto e l’assenteismo per infortuni aumentò, così da indurre qualche anno dopo ad abbassare di nuovo l’orario di lavoro.

Una riduzione dell’orario del 25% da 66 a 48 ore comportò una riduzione degli infortuni e dell’assenteismo con aumento del rendimento orario del 56% e della produzione industriale del 13%. Studi successivi (1955) dell’ istituto Max Planck di Dortmund confermarono il dato (G. Lehmann, Phisiologie pratique du travail, tradotto in francese dal Bte, Editions d’Organisations, Paris). Perché l’Italia marcia in direzione contraria, orari più lunghi e produttività stagnante?

Si dà il caso che in Italia l’ora di lavoro straordinario, sempre più richiesta da operai con salari di fame, costi all’azienda dal 20% al 40% meno dell’ora di lavoro ordinario e questo spiega il perché, in molte situazioni gli straordinari tendano a crescere con conseguenze negative sia sulla produttività, che infatti in Italia è stagnante da alcuni anni, sia sugli infortuni, che infatti non si riducono come dovrebbero e come accade nel resto d’Europa. Peccato che anche il recente accordo sul Welfare non abbia avuto la lungimiranza di incidere su questa anomalia italiana, l’ora di straordinario che costa meno dell’ora ordinaria, come era stato richiesto dai sindacati.

Anche i dati Istat di oggi sulla disoccupazione sotto il 6% confermano che la disoccupazione è sempre più spesso sostituita dalla sottoccupazione. Si dice, la precarietà è sulla media europea, Sì ma essa incide pesantemente solo sui giovani.

L’incidenza della precarietà sugli infortuni è nota, gli infortuni gravi sono percentualmente superiori in settori come agricoltura e costruzioni ad altissima incidenza di lavoro nero e precario, mentre all’interno degli stessi settori la percentuale di immigrati morti è più alta della loro presenza.

I controlli sono necessari se ben fatti, ma con una cultura imprenditoriale e politica che continua a subordinare la vita al denaro torneremo purtroppo ancora troppe volte a piangere su giovani vite stroncate, come oggi alla Thyssen di Torino.

Pubblicato il: 21.12.07
Modificato il: 21.12.07 alle ore 8.15   
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 12, 2008, 03:31:21 pm »

Un riccco paese di poveri

Nicola Cacace


L’Italia è da anni il Paese europeo a più bassa crescita perché non ridistribuisce fra tutti i cittadini i frutti della ricchezza che produce. L’Italia è infatti il Paese dove i consumi interni hanno contribuito meno alla crescita del Pil pur essendo il Paese coi cittadini mediamente «più ricchi» d’Europa. Italiani ricchi nel Paese più indebitato del mondo. Come è possibile? È possibile perché i redditi sono da anni distribuiti assai male tra capitale e lavoro e tra classi di cittadini.

La crescita annua della torta nazionale, il Pil, va in gran maggioranza ad utili e rendite mentre assai poco resta per salari e stipendi. Infatti da anni mentre i salari reali sono fermi, le rendite immobiliari e finanziarie crescono a tassi molte volte superiori all’inflazione. Lo dicono tutti i dati nazionali ed internazionali sulla distribuzione di redditi e richezza. Banca d’Italia ha calcolato che il 45% della ricchezza nazionale, immobili e risorse finanziarie, è posseduto dal 10% delle famiglie, dieci anni fa era il 41%. Eurostat ha misurato il grado più o meno equo della distribuzione dei redditi e della ricchezza tra i cittadini con un indicatore di “eguaglianza sociale” e ha piazzato i Paesi scandinavi in cima alla classifica e l’Italia al fondo. Eppure l’Italia, con 1500 miliardi di ricchezza posseduta dai cittadini in immobili e finanze, stima di Banchitalia, risulta il Paese “più ricco” d’Europa, essendo la ricchezza privata pari a nove volte il Pil, contro valori medi di quattro volte il Pil nel resto d’Europa. Italiani ricchi in un Paese povero, con la ricchezza concentrata nelle mani di pochi. Questo è risultato di una redistribuzione errata di redditi e ricchezza.

Il pensiero unico dei sostenitori di un capitalismo liberale senza welfare o con poco welfare, sostiene da sempre che crescita economica e solidarietà sociale sono valori contrastanti: chi vuole la crescita non deve dare molto spazio alla solidarietà e al welfare. Niente di più falso! In questi giorni di crisi struttural-recessiva dell’America, quando i nodi di debiti e consumismo spinti, insieme ad un alto grado di ineguaglianza sociale, stanno venendo al pettine, forse due illustri pensatori di casa nostra come Alesina e Giavazzi, si staranno pentendo di aver titolato «Goodbye Europa» invece di «Goodbye America» una loro recente opera di successo. Bastava guardare la classifica dei 50 maggiori Paesi per Pil pro capite della Banca mondiale (riportata dal Sole 24 ore del 7 gennaio scorso) per vedere nelle prime sei posizioni i quattro Paesi scandinavi, Paesi che, come è noto, sono anche leader mondiali di solidarietà e welfare. E convincersi che “crescita ed equità... si può fare”, perché esse marciano insieme e non su terreni divergenti.

La recente proposta di Veltroni di iniziare una correzione di questa iniquità sociale, che è anche responsabile prima della crisi dei consumi interni e delle difficoltà vitali di milioni di famiglie, approvando subito provvedimenti di riduzione della pressione fiscale su salari e stipendi, soprattutto più bassi, da tempo richiesti da sindacati e anche dalle imprese, va in questa direzione. Spero proprio che il Governo ed il Partito democratico, insieme con le forze sociali, spingano con forza in questa direzione. Come spero che il programma del Pd per le prossime elezioni sottolinei con forza che l’Italia è il Paese a più alta iniquità sociale, che questo fatto oltre ad essere eticamente scorretto è anche economicamente dannoso al Paese e che il Pd vuole assumere come prioritario quest’impegno solenne ad una più equa distribuzione dei redditi. Anche nel ricordo dell’inimitabile art. 3 della Costituzione che sul punto della equità ed eguaglianza si espresse senza equivoci affernado che «tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge... è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli... che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese». Più chiaro di così.

Pubblicato il: 12.02.08
Modificato il: 12.02.08 alle ore 10.07   
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« Risposta #2 inserito:: Maggio 22, 2008, 11:54:51 pm »

Chi vince chi perde

Nicola Cacace


I capitoli principali dei provvedimenti del Consiglio dei ministri di Napoli - abolizione Ici per tutti, detassazione straordinari, pacchetto sicurezza, accordo governo-banche sui mutui - confermano una visione dei bisogni della società con priorità non tutte condivisibili, una società con pochi vincitori e masse di sofferenti per insicurezza: quella legata al loro futuro lavorativo e quella percepita per la vicinanza di immigrati ancora più poveri di loro. I vincitori sono i proprietari agiati di prima casa che il governo Prodi aveva lasciato fuori dalle detrazioni Ici riservate al 40% di cittadini meno abbienti.

E vincitori sono anche quegli imprenditori che potranno continuare a sfruttare meglio la mano d’opera con ore di straordinario che ad essi già costano il 20% meno dell’ora ordinaria, al contrario dei loro colleghi tedeschi e francesi a cui lo straordinario consta il 20% in più. Da oggi qualche milione di lavoratori marginali che ieri rifiutavano lo straordinario per non incorrere nel salto di aliquota Irpef, saranno tentati dalla cedolare secca del 10% se guadagnano meno di 30mila euro l’anno e fanno meno di 3mila euro di straordinari. Tra i vincitori è doveroso includere alcune migliaia di possessori di mutui casa cui un accordo con l’Abi (Associazione bancaria italiana) potrà concedere qualche vantaggio su tassi rinegoziati e scadenze allungate, sollievo che non ci sarà.

Le masse dei perdenti delle priorità governative sono quei 30 milioni di lavoratori dipendenti e di pensionati che aspettavano un sollievo retributivo con una detrazione Irpef su salari e stipendi, come era nelle intenzioni del governo di centrosinistra. Il capitolo sicurezza merita un commento più articolato e complesso. L’insicurezza del XXI secolo dipende anzitutto dalle soluzioni che il turbocapitalismo globalizzato ha adottato da tempo. «Permettere al turbocapitalismo di avanzare senza ostacoli significa disintegrare la società in piccole elìte di vincitori e in masse di perdenti». Lo aveva detto un esponente del conservatorismo americano molti anni prima che Tremonti scoprisse i guasti del liberismo capitalista o “mercatismo” senza proporre soluzioni in grado di correggerne il principale difetto, le disuguaglianze crescenti . È la frase della quarta di copertina del libro di un noto esperto di strategia del pentagono, Edward N. Luttwak, scritto nel 1998 e pubblicato in Italia da Mondadori col titolo «La dittatura del capitalismo». Il cambiamento più negativo di questi anni per il ceto medio e le masse lavoratrici è stata la possibilità, amplificata dalla finanziarizzazione senza controlli, di trasferire il rischio, che prima era la contropartita del profitto, dal capitale al lavoro. Producendo in tal modo una “società dei due terzi”: una minoranza di privilegiati sempre più ricca ed una maggioranza di perdenti sempre più povera ed insicura, anzi sicura dell’impossibilità di quella ascesa sociale che gli inizi dell’industrializzazione aveva lasciato intravedere a masse fiduciose del futuro. Alle disuguaglianze di reddito prodotte dalla globalizzazione e a questa insicurezza del futuro si aggiunge oggi l’insicurezza fisica che lo scontro tra poveri rende più drammatico. Mancanza di sicurezza reale e avvertita, accentuata sia dalla pericolosa strumentalizzazione che la destra politica ne ha fatto in Italia e in Europa, sia dalle risposte tardive e sbagliate della sinistra. A questo bisogno diffuso di sicurezza il governo ha dato una prima risposta dovuta, promessa in campagna elettorale ed attesa da tutti i cittadini. Alcuni provvedimenti vanno nella direzione giusta altri meno, come quel reato di immigrazione clandestina che rischia di restare sulla carta e/o di essere applicato in modi difformi sul territorio e/o di essere ripreso da Bruxelles e/o di accentuare un intasamento delle carceri oggi già abbastanza disumano.

Resta una considerazione amara. L’immigrazione veloce che stanno sopportando Paesi a bassa natalità come Italia e Spagna è necessaria ma non è facile da governare. Nessuno in Italia, neanche la sinistra, ha spiegato bene ai cittadini che con nascite da decenni dimezzate (da un milione a 500mila nati l’anno), l’Italia avrà bisogno per almeno 30 anni di molte migliaia di immigrati l’anno, come ha calcolato l’Istat, se non si vogliono chiudere ospedali, fabbriche, alberghi, i servizi di pulizia delle città, l’intera economia e abbandonare milioni di anziani e bambini a braccia e cuori che non abbiamo. L’immigrazione è una grande risorsa se accompagnata da una saggia politica di integrazione, si trasforma in un inferno se viene abbandonata a se stessa o viene criminalizzata.

Pubblicato il: 22.05.08
Modificato il: 22.05.08 alle ore 12.03   
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« Ultima modifica: Ottobre 10, 2008, 09:46:32 am da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 24, 2008, 10:37:12 pm »

Emendamento salva Rete4, la logica del privilegio

Giuseppe Giulietti


Il cosiddetto emendamento «salva-Rete4» metterà la parola fine a qualsiasi tentativo di dialogo tra la maggioranza e l’opposizione? Gli ultrà delle due fazioni sono già all’opera, con il rischio di oscurare la gravità di quanto sta accadendo nelle aule parlamentari e di offuscare l’efficace azioni delle opposizioni finalmente unite. Chiunque non sia afflitto da pericolose forme di infantilismo acuto non può che auspicare che, prima o poi, anche in Italia si possa mettere mano ad alcune riforme, a cominciare da quelle elettorali, rendendo questo paese un po’ più europeo e un po’ meno feudale. Nello stesso tempo chiunque non sia sprovveduto deve conservare memoria, come ha ben scritto Antonio Padellaro, di quanto è già accaduto e di quanto, purtroppo, sta già riaccadendo.

L’emendamento «salva-Rete4», sotto questo profilo è un classico dell’orrore. Il presidente del Consiglio, titolare di un irrisolto conflitto di interesse, ancora prima di affrontare la questione sicurezza per tutti gli italiani ha deciso di mettere in sicurezza e di blindare per il presente e per il futuro, le sue frequenze e il suo patrimonio privato. La vicenda è talmente grave in sé che non c’è bisogno alcuno di caricarla di altri significati. In questo momento non sono in gioco le ragioni del dialogo e neppure i rapporti di forza all’interno dell’opposizione, ma assai più concretamente e più gravemente sono state messe in discussione persino le decisioni dell’Alta Corte di giustizia europea, della Commissione Europea, e della stessa Corte Costituzionale.

Al di là dei tecnicismi l’emendamento presentato dal governo blinda la situazione attuale, consegna le frequenze ai soliti noti, cancella i diritti dei nuovi entranti e soprattutto nega a Europa7 e all’imprenditore Di Stefano il diritto ad esercitare il suo mestiere. Non si tratta solo di una norma «ad aziendam» (come pure era accaduto nel passato), ma di una vera e propria norma «contra aziendam», di una pugnalata tirata contro l’esistenza di un libero mercato anche nel settore dei media. La proclamazione dello sciopero generale questa volta spetterebbe direttamente alla Confindustria...

Quello che è capitato a Europa7 e a Di Stefano potrà accadere ad altri imprenditori, ad altri cittadini, a prescindere dalla loro appartenenza politica. Di Stefano, per esempio, non è certo un militante della sinistra radicale, ma è finito nell’occhio del ciclone solo per aver tentato di mettere il naso nel settore delle tv ed essersi permesso di sostenere le sue ragioni, in ogni forma possibile e persino nelle aule di giustizia. L’arbitrio in atto è ancora più grave perché Rete4 non sarebbe né cancellata, né oscurata, ma eventualmente, molto eventualmente, solo trasferita in modo leggermente anticipato sul digitale terrestre o sul satellitare, esattamente su quelle autostrade del futuro che rappresentano le nuove frontiere dell’innovazione e del profitto, come ci spiegavano i capi della destra quando bisognava imporre la legge Gasparri ed aggirare le sentenze della Corte Costituzionale.

Mentivano allora o mentono adesso? Sarebbe bastato pochissimo per dare un segnale di novità. Sarebbe bastato un gesto di buona volontà da parte di Berlusconi ed un pieno riconoscimento della sentenza europea. Invece, per l’ennesima volta, è prevalsa la logica della conservazione, del privilegio, dell’estremismo proprietario. Sono queste le ragioni, di metodo e di merito, che hanno indotto le opposizioni unite, Udc compresa, a contrastare con durezza una palese violazione dei più elementari diritti di libertà individuale e collettiva. Questa attenzione unitaria dovrà essere mantenuta e ulteriormente rafforzata, magari con la presentazione di una proposta organica e condivisa di materia di conflitto di interesse, di assetto dei media, e di liberazione della Rai dal giogo del controllo governativo e partitico.

L’associazione Articolo21, ha già proposto a tutti i movimenti che operano nel settore della cultura, della comunicazione, dell’audiovisivo, dell’editoria, di accompagnare l’impegno dei parlamentari con la promozione di iniziative in tutta Italia, sino ad arrivare alla convocazione di una manifestazione nazionale come ha chiesto la Tavola della pace. Tanto per cominciare consegneremo ai rappresentanti del Parlamento e della Commissione europea, dell’Alta Corte di giustizia, un documentato dossier sui fatti e sui misfatti di questi giorni. Ci resta una ultima, quasi inconfessabile speranza: ed è quella di veder comparire nell’aula della Camera dei Deputati, un Berlusconi in versione statista europeo, capace magari di stupirci con effetti speciali e di annunciare: «Una stagione è davvero finita. L’emendamento sarà subito ritirato. Le sentenze saranno rispettate, le aziende saranno considerate tutte uguali, Europa7 godrà delle stesse amorevoli attenzioni dedicate in questi anni alle mie imprese...».

Questa sarebbe davvero una svolta epocale! In attesa del lieto evento, sarà bene non mollare la presa e dialogare anche con quei milioni di donne e di uomini che non sono «antiberlusconiani» di professione che non amano i clamori di una politica sovraeccitata e, proprio per questo, mal sopportano le prepotenze commesse dai berlusconiani.

(*Portavoce Articolo 21)

Pubblicato il: 24.05.08
Modificato il: 24.05.08 alle ore 12.40   
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