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Autore Discussione: Umberto Terracini - Umberto Terracini  (Letto 2456 volte)
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« inserito:: Dicembre 20, 2007, 10:19:15 pm »

Umberto Terracini

Umberto Terracini


La Costituzione consta di 139 articoli e XVIII disposizioni transitorie e finali. Gli articoli sono raggruppati in Princìpi fondamentali e in due parti, di cui la prima è dedicata ai diritti e doveri dei cittadini e la seconda all’Ordinamento della Repubblica... L’art. 1 stabilisce che «l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro». Questa solenne affermazione evidentemente sta a significare non solo che il lavoro determina la prosperità e il benessere della vita della nazione.

Che è vecchio assioma della scienza economica - ma anche che, a coloro che ne sono i portatori, debbono essere riconosciuti, nel quadro dello Stato, particolari funzioni, corrispondenti a quei diritti che numerosi articoli espongono...

Stabilito comunque che la Repubblica è fondata sul lavoro ne discendeva come conseguenza necessaria che tutti i cittadini devono essere messi in grado di lavorare, per riconfermare così ad ogni momento il loro titolo alla cittadinanza... Ecco quindi l’art. 4 proclamare non soltanto «il diritto al lavoro», ma anche l’obbligo per la Repubblica di «promuovere le condizioni che rendono effettivo questo diritto». A nessuno può sfuggire l’importanza di questo impegno che poche altre Costituzioni assumono nei confronti dei cittadini.... Ma anche l’art. 3 è interessante occupandosi come fa, dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Ma non già di una generica uguaglianza, basata sull’astratta parità di diritti. Noi sappiamo che una effettiva uguaglianza presuppone il superamento delle iniziali differenze di posizione economica. Ecco perché l’art. 3 sancisce: «È compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscano il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».

...La giusta retribuzione del lavoro prestato, «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia una esistenza libera e dignitosa» è stabilita dall’art. 36. Lo stesso articolo si occupa anche della durata massima della giornata lavorativa, che dovrà essere fissata dalla legge; e inoltre del diritto del lavoratore al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite, senza possibilità di rinunciarvi. La tutela della donna lavoratrice è efficacemente costituita dall’art.37 che prevede per la donna parità di diritti e di retribuzione - a parità di lavoro - con l’uomo. Ciò vale anche nel confronto dei minori. Per i cittadini inabili al lavoro, nonché per i lavoratori colpiti da infortunio, malattie, invalidità, vecchiaia e disoccupazione provvede l’art. 38, affermando il diritto dei primi al mantenimento e all’assistenza sociale, e per tutti gli altri alla tutela necessaria, esercitata attraverso organi e istituti predisposti o integrati dallo Stato.

La libertà dell’organizzazione sindacale è sancita pienamente dall’art. 39 che prevede per i sindacati, «rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti», la facoltà di «stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce». Questa norma rappresenta un forte incentivo al mantenimento dell’unità sindacale, sebbene si speri da alcuno che la «libertà sindacale» possa essere intesa come stimolo alla creazione di vari concorrenti sindacati. Infatti, è dalla forza numerica delle organizzazioni, e cioè dalla coesione delle categorie e dell’intera classe, che discende la capacità di convincere a patti vantaggiosi i datori di lavoro i quali non avrebbero che da guadagnare dalle lotte intestine dei lavoratori.

Siamo giunti così all’art. 40 dedicato al diritto di sciopero, riconosciuto nell’ambito delle leggi che lo regolano. Ciò vuole dire che le leggi future potranno soltanto stabilire le modalità del suo esercizio, ma non mai sopprimerlo considerando, come già nel ventennio fascista, quale reato... È interessante ricordare che non è mancato, in seno alla Costituente, chi voleva sopprimere nella Costituzione ogni accenno al diritto di sciopero, evidentemente per abbandonare questa fondamentale arma di difesa dei lavoratori alle oscillanti venture della sorte politica; e nemmeno chi voleva condizionare il diritto di sciopero a quello di serrata, o addirittura stabilire il divieto di sciopero. Ma tutte queste velleità hanno dovuto cedere dinanzi alla formula concordata fra i maggiori partiti, che salva almeno il principio se non ogni sua estrinsecazione. L’art. 41 stabilisce la libertà dell’iniziativa economica privata a condizione che non si svolga in contrasto con l’utilità sociale o a danno della sicurezza, della libertà o della dignità umana. Esso aggiunge che, «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali», timido inizio questo di una economia programmata.

Secondo l’articolo 42 la proprietà privata è riconosciuta dalla legge, «che ne determina» però i «limiti allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti», aspirazione forse utopistica, ma che autorizza larghe misure legislative di riforma agraria. È anche prevista dall’art. 43 la possibilità di esproprio per motivi di interesse generale, a favore di comunità di lavoratori o di utenti, qualora si tratti di servizi pubblici essenziali o di fonti di energia o di situazioni di monopolio; strada aperta, questa, a misure riformatrici in campo industriale. La proprietà della terra è disciplinata dall’articolo 44, affermandovisi che «la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione» e «la trasformazione del latifondo». Dopo di che è sperabile che anche la magistratura rinuncerà a bollare di anticostituzionalità le leggi colpevoli solo di antilatifondismo!

Alla tutela e allo sviluppo della cooperazione e dell’artigianato è dedicato l’art. 45, che erige un primo argine difensivo delle più modeste, ma più sane attività produttrici contro la spietata concorrenza delle maggiori intraprese capitalistiche.

Particolare attenzione merita l’art. 46, per il quale «la repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende». Echeggia in queste parole il grande moto operaio per il riconoscimento dei consigli di gestione, rivestito finalmente di valore giuridico e solo subordinato alle norme che la legge dovrà ormai sollecitamente emanare. I lavoratori, dopo questo solenne riconoscimento, non potranno più vedersi opporre le abusate accuse di legalità nella loro azione innovatrice dei rapporti interni di fabbrica. Si deve peraltro ricordare che il testo del progetto di Costituzione era ancora più esplicito al riguardo, affermando «che i lavoratori hanno diritto di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende dove prestano la loro opera». Ma anche qui, sotto il velo di preoccupazioni giuridiche, si sono coalizzate in fronte ostile ai lavoratori tutte le forze più o meno conservatrici; sicché ha finito di prevalere la formula più temperata e cauta, tale tuttavia da confortare i lavoratori nelle loro lotte per un diretto intervento nella dirigenza delle intraprese.

Occorre da ultimo far parola di una nuova assemblea rappresentativa creata dalla Costituzione: «Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro». Esso, previsto dall’articolo 99, dovrà essere composto di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa; e sarà organi consultivo, darà cioè pareri alle Camere e al governo sulle materie che gli saranno attribuite dalla legge. Il Consiglio potrà anche presentare all’approvazione del parlamento disegni di legge e contribuire alla legislazione economica e sociale.

A proposito di questo nuovo organo non si può fare a meno di rilevare che - secondo una proposta inizialmente presentata - esso avrebbe dovuto essere espressione diretta dei sindacati mediante elezione, sia pure con l’immissione anche di una rappresentanza governativa e delle categorie produttrici e ricevendo la denominazione di «Consiglio nazionale del lavoro». In tal modo sarebbe stata più sottolineata la composizione democratica del Consiglio e la sua maggiore importanza ai fini della tutela degli interessi dei lavoratori.

Esaurito così l’esame delle norme scritte nella Costituzione circa i diritti del lavoro, i lavoratori italiani si domanderanno come e quando esse saranno realizzate nella vita concreta del nostro popolo. A questa domanda la risposta deve essere chiara e precisa: le norme scritte nella Costituzione rimarranno sulla carta, non si realizzeranno automaticamente, se i lavoratori stessi non agiranno, non veglieranno affinché gli organi dello Stato le svolgano in nuove leggi, e l’amministrazione pubblica non eseguisca ciò che queste leggi disporranno. Se, cioè, i lavoratori non opereranno per permeare tutta la vita politica del nostro paese dello spirito nuovo e trasformatore che ha dettate le formule costituzionali, pur nella loro dizione ancora troppo spesso timida e incerta.

Come l’affermazione dei diritti del lavoro si deve in gran parte alla forza dei lavoratori che, stretti in un grande organismo unitario, hanno esercitato la loro influenza e hanno posto all’ordine del giorno del paese la soluzione dei problemi del lavoro, così la realizzazione concreta di quelle affermazioni dipenderà dall’azione che, per l’avvenire, essi sapranno svolgere nel quadro della legalità democratica, secondo gli orientamenti riformatori che furono propri della grande lotta popolare per la libertà.


Pubblicato il: 20.12.07
Modificato il: 20.12.07 alle ore 8.23   
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