IL REGISTA DE «IL RUMORE DELLA MEMORIA», LA WEB SERIE ONLINE DAL 20 GENNAIO
«Quando mia nonna ebrea beffò i nazisti»
Marco Bechis: io, desaparecido in Argentina, ho capito l’orrore ad Auschwitz
Marco Bechis con Vera Vigevani Jarach, protagonista della web serie «Il rumore della memoria»
«Anch’io, desaparecido, ero diventato una lettera seguita da un numero. Mi chiamavo, anzi mi chiamavano A01, e non potevo permettermi di dimenticare altri due numeri, 190 e 191, cioè le combinazioni per aprire i lucchetti ai capi della catena che circondava le mie caviglie. Ero diventato un signor nessuno, senza nome e senza identità».
Marco Bechis, il regista della nostra web serie «Il rumore della memoria», che verrà trasmessa da Corriere.it a partire da lunedì 20 gennaio, è un artista segnato da dure esperienze, ma non si è mai abbandonato al pessimismo. Non ama la retorica. Il suo lavoro è sempre asciutto e incisivo. E poi si nutre di dubbi, la medicina terapeutica che garantisce i risultati migliori.
«Io desaparecido, di Auschwitz non avevo capito niente»
«Quando mi avete proposto la web serie per il Corriere Tv, che sarà seguita da un film-documentario, ho avuto due reazioni contrapposte. Mi affascinava, ovviamente, la storia di Vera Vigevani Jarach, una donna ebrea che nella vita non ha tombe su cui piangere. Il tema delle morti senza nomi e senza tombe mi ha sempre sconvolto e coinvolto. Dovendo però tornare un’altra volta nel luogo dove anch’io ho avuto un’esperienza dolorosa, sarei stato tentato di rifiutare. Però la proposta web del Corriere era decisamente seducente e innovativa. E poi sono convinto che nel web prima o poi vincerà il contenuto».
Che cosa intende?
«Mi spiego. So bene che sul web la percentuale di hard news e di gossip è preponderante. Magari si avvicina al 90 per cento. A me interessa impegnarmi per l’ultimo segmento. Per questo è importante il modo di raccontare una storia, quindi il contenuto che diventa forma. Una grande storia, raccontata male, è scialba. Una piccola storia, in mani giuste, può diventare un grande caso. Sa che cosa potrebbe accadere?».
Non mi dica che il web annienterà persino la televisione?
«In parte è già accaduto. Sul web si troveranno con frequenza prodotti seriali socialmente condivisi, che un gruppo di amici potrebbe decidere di gustare in compagnia, affittando una sala. Non quindi un cinema dove paghi il biglietto per vedere quello che hai scelto, e che poi potrebbe deluderti, ma un posto dove rivedere con piacere e condividere. Chissà che questo non diventi il futuro».
Nel docu-web per il «Corriere della Sera» lei racconta una storia che parte dall’Argentina e arriva in Polonia, ad Auschwitz-Birkenau. Vede punti di contatto tra queste due tragedie del Novecento?
«Le proporzioni, ma soprattutto le sproporzioni sono evidenti. Da una parte c’è il genocidio etnico, dall’altra quello ideologico. Però, nel metodo persecutorio trovo molti punti in comune. Vede, in Cile, in Uruguay, in Grecia vi sono state dittature feroci, e tutti abbiamo visto stadi, carri armati e immagini di violenza. In Argentina i golpisti, dopo aver studiato attentamente gli errori commessi negli altri Paesi, hanno cambiato tattica: cercando, con ogni mezzo, di far sparire, segretamente, gli oppositori. Li rapivano, utilizzando squadre in borghese, e poi negavano di averli sequestrati. Desaparecidos, appunto. L’annientamento studiato e programmato, probabilmente in anticipo».
Che cosa vuol dire?
«Le faccio un esempio. La prigione dove mi portarono e fui rinchiuso non esiste più. Era una delle sedi della polizia, chiamata in codice “club atletico”. Ora l’edificio è stato distrutto per costruire un tratto di strada sopraelevata. Pensi che il barista della casa di fronte mi ha raccontato che, sin dall’anno prima del golpe, c’erano operai che lavoravano alacremente nel sotterraneo dell’edificio, e poi andavano a bere un bicchiere raccontando qual era il loro lavoro. Costruire letti di pietra e celle in serie. Mi pare che l’intenzione dei committenti fosse evidente».
Lei è ebreo?
«Era ebrea mia nonna, Luisa Zaban Bechis, che si convertì al cattolicesimo prima del fascismo, ma che per le autorità era un’ebrea. Aveva studiato con i suoi fratelli in Germania, e conosceva il tedesco alla perfezione. Durante l’occupazione nazista arrivò a Torino con un figlio malato, mio zio. Voleva scendere in un albergo, davanti alla stazione di Porta Nuova. Ma l’hotel era stato requisito dal comando tedesco. Non si perse d’animo. Entrò e, con il suo tedesco perfetto, spiegò che suo figlio era malato e che dovevano sistemarli lì per una notte. Accettarono. Una beffa straordinaria».
Lei era molto turbato durante la nostra visita, per accompagnare Vera, ad Auschwitz e a Birkenau.
«Sì, è vero. Non ero mai stato ad Auschwitz, e confesso che, al mio ritorno in Italia, non ero più lo stesso. Mi sembrava che prima non avessi capito niente. Quando si tocca con lo sguardo e con il cuore la dimensione dell’orrore, beh, cambia davvero tutto. E poi c’è l’ossessione di quel perché? Chiedersi come sia stata possibile quella mostruosità, e poi pensare, come in un incubo, che può succedere ancora».
17 gennaio 2014
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Antonio Ferrari
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https://www.corriere.it/cultura/14_gennaio_17/quando-mia-nonna-ebrea-beffo-nazisti-28c18a5c-7f61-11e3-aa77-33cce3d824e3.shtml