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Autore Discussione: EUROPA.  (Letto 22446 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 02, 2021, 06:44:56 pm »

Polonia, nel Paese di Papa Wojtyla i giovani voltano le spalle alla Chiesa

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ggiannig <ggianni41@gmail.com>
10:02 (8 ore fa)
a me

Solo il 9 per cento dice di avere fiducia nella gerarchia cattolica.
Il partito di sinistra polacco Wiosna (Primavera) ha aperto uffici e siti che aiutano chi …

https://www.repubblica.it/esteri/2021/01/02/news/polonia_cresce_la_distanza_tra_i_giovani_e_la_chiesa_in_dieci_anni_aumento_delle_richieste_di_apostasia-280762530/
 
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« Risposta #46 inserito:: Febbraio 12, 2021, 05:41:37 pm »

Anaïs Ginori  -  12 febbraio 2020

Buongiorno da Parigi,

Mentre a Roma Beppe Grillo citava l'esempio francese per il nuovo ministero della Transizione ecologica, a Parigi Barbara Pompili - titolare del dicastero - presentava il pacchetto "Clima e resilienza", testo cardine sulla transizione ecologica composto di 69 articoli.
Le Ong considerano che il governo è ancora troppo timoroso nella svolta verde, e molte associazioni chiedono da tempo che il dicastero dell’Agricoltura finisca dentro il maxi-ministero per poter lavorare meglio ad esempio sul bando di pesticidi.

Quando è nato, nel 2017, si chiamava “Ministero della Transizione ecologica e solidale”, come aveva chiesto l'attivista Nicolas Hulot prima di accettare di guidarlo. Non solo Ambiente, ma anche Energia, Infrastrutture, Trasporti, Edilizia. L'avventura da ministro del bretone simbolo di tante battaglie ecologiche è durata poco. Un anno dopo, Hulot se n'è andato in polemica con Macron, sostenendo che il peso delle lobby era troppo forte per varare misure coraggiose.
Con ben quattro ministri in poco più di tre anni di vita politica, il maxi-ministero ha una storia tormentata ma continua a essere un punto di forza del governo francese soprattutto adesso che la sfida green è al centro del Recovery Plan. E' nella cabina di regia che, con il responsabile dell'Economia Bruno Le Maire, gestisce il piano di rilancio approvato quest'estate: 100 miliardi di euro, di cui 30 miliardi per decarbonizzare i settori dell'economia che emettono più gas a effetto serra, tra cui 11,5 miliardi per lo sviluppo di trasporti meno inquinanti e 6,7 miliardi per la ristrutturazione ecologica degli immobili.


Pompili ha anche annunciato nelle ultime ore la rinuncia al progetto di allargamento dell'aeroporto Roissy Charles de Gaulle: faraonico progetto con un costo previsto tra i 7 e i 9 miliardi di euro che avrebbe dato allo scalo parigino una capacità supplementare pari a 40 milioni di passeggeri.

Non ho l'età
La Francia sta cambiando. Il paese della rivoluzione sessuale e del Sessantotto ha finalmente deciso di introdurre nel codice penale un età del consenso che sarà fissata a 15 anni. “E' la società ci chiede di farlo” ha spiegato il ministro della Giustizia, Éric Dupond-Moretti. E' l'effetto delle denunce di violenze sessuali su minorenni e di incesto che si moltiplicano.
Un movimento inedito diventato ancora più forte e variegato del MeToo americano. Secondo la nuova legge un adulto che farà violenza o abuserà sessualmente di una persona di meno di 15 anni potrà essere condannato fino a 20 anni di carcere senza che la vittima debba dimostrare che non era consenziente. Già nel 2018 il governo aveva provato a fare la riforma ma si era dovuto fermare per il rischio di incostituzionalità sollevato dal Consiglio di Stato. La normativa è stata adesso rilavorata da giuristi per non subire intoppi.

Terremoto a Sciences Po
Un altro effetto del libro di Camille Kouchner sono le dimissioni di Frédéric Mion, direttore della prestigiosa università parigina Sciences Po. Nel libro “La familia grande” Kouchner racconta gli abusi sul fratello gemello, avvenuti negli anni Ottanta, quando il ragazzo aveva 13 anni, da parte del loro patrigno Olivier Duhamel.
Secondo l'avvocata e autrice della denuncia, le accuse di incesto che pesavano su Duhamel erano note da tempo a molte persone nell'entourage della famiglia e negli ambienti di Sciences Po. Mion aveva prima negato di aver saputo qualcosa, ma poi è stato contraddetto dall'ex ministra Aurélie Filippetti con la quale ne aveva parlato. Ora si apre la difficile successione in una delle più famose fabbriche dell'élite francese.

La guerra dell'acqua
E' guerra totale sul progetto del gigante francese dell’acqua e dei rifiuti. Il gruppo Veolia ha annunciato un'Opa ostile sul suo diretto concorrente Suez, di cui è già primo azionista con il 29,9%. Da mesi la società guidata da Antoine Frérot cerca di portare a termine l'aggregazione per creare quello che ha definito “campione mondiale della trasformazione ecologica”.
Sulla carta poteva essere una buona notizia per la Francia, e invece il progetto è fortemente osteggiato dal management di Suez e da una parte dei sindacati che negli ultimi giorni hanno comprato pagine di giornali per pubblicare comunicati durissimi contro Veolia rappresentato come un immenso Pinocchio. Lo stesso governo, inizialmente favorevole, ha cambiato idea e chiede una soluzione amichevole. E ora nessuno è in grado di prevedere come andrà a finire.

Elogio della lettura
“Leggete, staccatevi dagli schermi”. L'accorato appello non viene dal solito editore o intellettuale preoccupato per il crollo della lettura tra i giovani. E' Bruno Le Maire, ministro francese dell’Economia, che si è lanciato in un'appassionata difesa della cultura letteraria in un mondo in cui le nuove generazioni passano spesso più tempo davanti al telefono o al computer che dentro a un libro. “Gli schermi vi divorano, la lettura vi nutre. Gli schermi vi svuotano, i libri vi riempiono. Fa tutta la differenza” dice Le Maire nel suo discorso rivolto ai giovani ripreso in un video.

Luci da Parigi torna venerdì prossimo. Mi potete mandare messaggi e segnalazioni sulla mia email (a.ginori@repubblica.it).
Buon weekend.
Anaïs Ginori


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« Risposta #47 inserito:: Marzo 06, 2021, 07:48:52 pm »

Il patto Draghi-Macron

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Rep: | Luci da Parigi
ven 5 mar, 19:49 (23 ore fa)
a me


Rep: Luci da Parigi di Anais Ginori
 
5 marzo 2020

 

Buongiorno da Parigi,

la corsa del Covid continua a preoccupare il governo. Il 60% dei nuovi contagi è ormai composta da varianti, ma “per adesso non c'è la crescita esponenziale che temevamo” dice il premier Jean Castex. La curva si attesta su un livello alto, in una forchetta tra 20 e 30mila nuovi contagi al giorno, un tasso di positività al 7% e un tasso di incidenza medio a 22.

Le autorità francesi hanno varato il lockdown nei weekend ora anche nel Pas-de-Calais, dopo averlo già dichiarato nelle province di Nizza e Dunkerque. I dipartimenti sotto “sorveglianza rafforzata” sono aumentati a 23 (con l'ingresso Hautes-Alpes, Aisne e Aube) ma tra questi ci sono piccoli segni di speranza. In Mosella e nelle Bouches-du-Rhône, infatti, è cominciata una diminuzione dei casi. Qui sotto l'ultimo bollettino di giovedì e la curva su due mesi.

 
Il calo dei ricoveri di anziani

Il dato più incoraggiante è la diminuzione dei ricoveri in ospedale di pazienti con più di 85 anni: un calo del 17,5% nelle ultime settimane, grazie all'effetto della campagna di vaccinazione. “La Francia è il primo paese in Europa per la vaccinazione delle persone più vulnerabili” dice Castex, dato contestato da alcuni ma è indubbio che da gennaio il governo ha scelto di dare una netta priorità ai più anziani. Negli Ephad, l'equivalente delle nostre Rsa, la percentuale dei vaccinati è pari all'85%.

Al livello totale, il numero delle persone che hanno ricevuto almeno una dose è di 3,2 milioni di persone (di cui 1,7 milioni con due dosi). Entro metà aprile il governo conta di aver vaccinato 10 milioni di persone, 20 milioni a maggio e 30 milioni entro l'estate. Anche se sono dati che sfigurano rispetto allo sprint dei britannici, la Francia ha accelerato, tanto che il portavoce del governo ha promesso che a metà aprile si potrà cominciare a pensare ad allentare le restrizioni e “ritrovare una certa normalità”.

L'altro punto della strategia francese confermato è la tutela dell'istruzione in presenza. Dopo le due settimane di vacanze d'inverno le scuole hanno riaperto anche nella Capitale. Secondo uno studio Unesco, la Francia è uno dei paesi dove bambini e ragazzi hanno perso meno lezioni in presenza: 41 giorni contro 93 dell'Italia.

 
Il patto Draghi-Macron

Gli sherpa sono al lavoro per invitare Mario Draghi nella capitale francese. Emmanuel Macron vorrebbe essere il primo leader europeo a incontrare di persona il nuovo premier italiano, suggellando così l’intesa con Super Mario. Niente di ancora definito, la crisi del Covid che torna a mordere da un lato e l’altro della Alpi rende tutto complicato. Ma proprio per questo c’è una sensazione di urgenza.

Draghi deve correre per la stesura del Recovery Plan, mentre Macron si è portato avanti e potrebbe offrire preziosi consigli. Draghi ha una solida "french connection" che risale a quando fu candidato dalla Francia alla Bce. Il Presidente era allora Nicolas Sarkozy. È presto per parlare di asse Roma-Parigi, ma una cosa è già chiara: la coppia Draghi-Macron guiderà l’Europa nella transizione post-Merkel.
 

La battaglia di Sarkò

“Sono innocente, combatterò fino alla fine”. Così Sarkozy commenta la condanna a 3 anni (di cui due con la condizionale) per corruzione di magistrato e traffico di infuenze. Sarkozy ha fatto appello, quindi la pena è sospesa, ma intanto il 17 marzo lo aspetta un nuovo processo.

"È un doppio shock, per la politica francese nel suo insieme e per la destra in particolare" commenta il politologo Pascal Perrineau, convinto però che l'ex leader della destra "non sia politicamente morto".

Non ci poteva essere momento migliore, o peggiore. A poche ore dalla sentenza di condanna di Sarkozy, con l’ex ministro che va in tv per denunciare l'“accanimento” dei giudici, il Guardasigilli Eric Dupond-Moretti lancia una riforma della Giustizia in cui tra l’altro vengono messi nuovi paletti per intercettazioni e indagini segretate. Nel mirino c'è anche il ruolo del Parquet Nationale Financier (Pnf), la Superprocura creata dal governo di sinistra nel 2013, che ha scoperchiato molti scandali politici e considerata dalla destra come un covo di "toghe rosse". Lo stesso Guardasigilli si è scagliato contro il Pnf.


Turbolenze per il caccia del futuro
 
Non decolla il faraonico progetto per il sistema integrato del caccia del futuro battezzato da Emmanuel Macron e Angela Merkel. Proprio nei giorni in cui l'autonomia strategica dell'Europa viene invocata dai leader nel Consiglio Europeo di Bruxelles, viaggia in mezzo a turbolenze uno dei simboli della cooperazione militare franco-tedesca, inserita nel trattato bilaterale di Aix-la-Chapelle due anni fa. Anche se è un cantiere di lungo periodo, proiettato nel 2045, i lavori preliminari procedono a rilento. Il progetto, che vale oltre 100 miliardi di euro, finora non ha neppure un nome condiviso. I tedeschi usano l'acronimo inglese Fcas (Future Combat Air System), i francesi parlano invece di Scaf (Système de combat aerien du futur).

Intanto i negoziati diplomatici sull'Iran passano anche da una scuola parigina. Nell'istituto internazionale del quindicesimo arrondissement Jeannine Manuel hanno studiato sia il nuovo Segretario di Stato Anthony Blinken, che l'inviato speciale Robert Malley, entrambi diplomati nel 1980. Il dato biografico potrebbe sembrare marginale se non fosse che i contatti tra Washington e Parigi sono sempre più intensi, facilitati anche da una french connection.


Il nuovo Medio Oriente

"La combinazione tra pandemia e crollo del petrolio ha provocato un cataclisma in Medio Oriente". Il 2020 è stato un anno di svolta nella regione più tormentata del pianeta come racconta l'intellettuale Gilles Kepel nel nuovo saggio "Il Profeta e la pandemia" appena pubblicato da Gallimard e in corso di traduzione da Feltrinelli. Rispetto al suo precedente libro, "Uscire dal caos", nel quale tornava su mezzo secolo di storia della regione, Kepel firma adesso quasi un instant book, presentando la cronologia degli eventi del 2020 - dagli Accordi di Abramo alle nuove tensioni nel Mediterraneo - in una documentata analisi e una vasta cartografia. Docente all'École Normale Supérieure e all'università italiana di Lugano, Kepel è ormai un punto di riferimento fisso nel dibattito francese sull'Islam.


L'ultimo strillone

L'ultimo strillone di Parigi va in pensione. Alì Akbar, il pachistano che da 40 anni vendeva Le Monde e altri giornali nelle strade del quartiere latino, abbandona il suo storico lavoro. I suoi finti titoli sensazionalistici e presunti scoop urlati nelle strade facevano parte del folklore di Saint-Germain-des-Prés, dove Alì appariva sempre verso ora di pranzo con le copie fresche del quotidiano della sera.

La crisi del Covid ha aggravato le difficoltà dello strillone che senza café e ristoranti ha perso gran parte della sua clientela. Alì ha dovuto rassegnarsi ad abbandonare il suo lavoro che ha sempre considerato come una "vocazione". Grazie a una colletta in Rete è riuscito a ricomprarsi un piccolo chiosco davanti ai giardini del Luxembourg. Potrà vendere a famiglie e turisti (quando torneranno) bibite e gelati. Ma non è detto che sul bancone non ci sia anche qualche copia di giornale.

Luci da Parigi torna venerdì prossimo. Mi potete mandare messaggi e segnalazioni sulla mia email (a.ginori@repubblica.it).

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« Risposta #48 inserito:: Aprile 19, 2021, 11:37:23 pm »

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Care abbonate e cari abbonati,

"Trent’anni dopo la sua festosa abolizione, la cortina di ferro torna a surriscaldarsi.

Solo, molto più a Est di quanto fosse durante la Guerra fredda. Ben dentro quel che era all’epoca territorio sovietico. Epicentro: Ucraina orientale.
Quando nel 1994 gli ultimi soldati dell’Armata Rossa lasciarono Berlino, pochi immaginavano che la Nato avrebbe non solo integrato gli ex satelliti di Mosca ma ampi e strategici spazi già sovietici, quali Estonia, Lettonia, Lituania. E meno ancora si concepiva il cambio di campo di Kiev dal mondo russo a quello occidentale. O che le avanguardie russe sul fianco Sud della Nato si sarebbero installate a Sebastopoli, 1717 chilometri a oriente di Berlino Est.
È precisamente qui, fra Crimea e Donbas – visti da Mosca quali ultimi ridotti di contenimento dell’avanzata occidentale – che russi e ucraini stanno mostrando i muscoli, assemblando truppe, lanciando minacce.
Oltre a decine di migliaia di uomini a ridosso della frontiera ucraina, Putin ha financo esibito a Voronezh lanciatori per missili Iskander, capaci di scaricare una bomba atomica tattica a oltre 500 chilometri di distanza. A protezione degli ucraini, che ovviamente non avrebbero scampo in un solitario scontro diretto con i russi, Washington sta inviando mezzi navali e aerei nella regione del Mar Nero, oltre a supportare le truppe di Kiev.
 Due cacciatorpediniere Usa si faranno vedere non lontano da Sebastopoli in questi giorni. Approccio simile adottano i russi con i ribelli del Donbass, che dopo sette anni di guerra “a bassa intensità” (gergo ingannevole: sono censite 14 mila vittime) non intendono lasciare il campo all’esercito regolare ucraino.
Nessuna delle parti in causa dichiara di volere la guerra aperta, ed è probabilmente sincera. Ma si ostenta pronta a reagire facendo fuoco e fiamme in caso di aggressione altrui. Uno schema che nella storia ha già preceduto infinite volte lo scoppio delle ostilità, fosse solo per accidente..."

#IdeaLimes di oggi è l'editoriale di Lucio Caracciolo sul rischio di una nuova guerra in Ucraina.

Buona lettura
Niccolò Locatelli
Coordinatore di Limesonline

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« Risposta #49 inserito:: Giugno 17, 2021, 03:50:00 pm »

"E' l'Alleanza più forte della storia", Draghi rilancia sulla Nato

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Arlecchino Euristico
15 giu 2021, 12:49 (2 giorni fa)
a me

Serrata l'agenda di missioni in ambito Ue del presidente del Consiglio -

https://www.agi.it/politica/news/2021-06-14/draghi-vertice-nato-alleanza-forte-storia-12915264/

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« Risposta #50 inserito:: Ottobre 03, 2021, 06:25:44 pm »

Lucio Caracciolo: “Il dramma di una guerra senza senso”

A distanza di vent’anni dall’attacco alle Torri gemelle il direttore di “Limes” sottolinea l’insensatezza della “guerra al terrorismo”. E sull’esercito unico europeo commenta: “Un’idea che non sta in piedi”.

Cinzia Sciuto 9 Settembre 2021

L’11 settembre di venti anni fa molti di noi, scioccati davanti alla tv, hanno pensato “niente sarà più come prima”. Neanche un mese dopo gli Stati Uniti lanciavano la loro offensiva contro il regime dei talebani in Afghanistan, dove si nascondevano alcuni degli esponenti di al-Qaida, l’organizzazione terroristica islamica individuata come responsabile degli attentati alle Torri Gemelle. Venti anni dopo, al governo dell’Afghanistan ci sono di nuovo i talebani. La sensazione che questi vent’anni non siano serviti a nulla è forte. Che cosa abbiamo fatto, o forse è meglio dire: cosa non abbiamo fatto in questi 20 anni in Afghanistan?
Inizierei tornando indietro all’alba di quell’11 settembre 2001, qualche ora prima dell’attentato. In quel momento gli Stati Uniti d’America erano l’unica superpotenza al mondo, senza rivali, convinti di essere sul tetto del mondo. Si sentivano in una condizione di serenità rispetto a possibili aggressioni. Un’ora dopo cambia tutto, ed è uno shock terrificante. Non solo per l’evento in sé, ma soprattutto perché quell’evento ha innescato una sensazione di panico fino ad allora sconosciuta negli Usa: nei giorni successivi, nei mesi successivi gli americani hanno vissuto con la paura quotidiana di nuovi attacchi, magari anche con delle armi chimiche, biologiche o addirittura nucleari. C’era un’atmosfera di tregenda. È stato quello shock, da cui gli americani si sono solo parzialmente ripresi, a condurli a quella che loro chiamano la “war on terror”, la guerra al terrore, al terrorismo. Che è una guerra priva di logica, priva di strategia. Le guerre si fanno per fare la pace in condizioni più vantaggiose di quando le si sono cominciate. Non si può fare una guerra a un metodo bellico come il terrorismo (metodo che, detto per inciso, è utilizzabile da chiunque, compresi gli Stati Uniti, a seconda delle necessità). In realtà la guerra al terrorismo aveva un sottotesto: era in parte pensata e comunque percepita come guerra all’Islam. Tanto è vero che Bush in uno dei suoi primi discorsi parlò addirittura di “crociata”, per poi mordersi la lingua. Questo è un tema che risale fino ai tempi della nascita dell’Islam e che ci porteremo appresso per sempre. Ossia questa idea che la nostra condizione di occidentali sia anche per certi aspetti definita in chiave anti-islamica. Più specificamente, in questi vent’anni gli americani si sono trovati impegnati in campagne prive di senso strategico, prima in Afghanistan poi in Iraq poi in altri interventi – penso per esempio alla Libia, caso particolarmente significativo per noi – in cui hanno perso moltissimi uomini, e hanno ammazzato moltissimi uomini. Prendendo solo il caso afghano, ufficialmente gli americani hanno avuto più di 7mila caduti. Parlo di soldati regolari, perché poi c’erano anche i cosiddetti contractors, le cui cifre non le avremo mai precisamente. Ma il dato sconvolgente è che ci sono stati più di 30.000 caduti per suicidio al rientro: oltre quattro volte di più di coloro che sono morti sul campo. Si tratta di soldati che non riuscivano a trovare un senso per quello che stavano facendo. E questo vale anche per noi italiani che abbiamo avuto 54 morti e più di 700 feriti. È difficile trovare un senso a quello che abbiamo fatto ed è questo il vero dramma di una guerra che a mio avviso continuerà in maniera sottile, subliminale ancora per molto.
Un segnale del fatto che questa guerra non è affatto finita è arrivato il 27 agosto: subito dopo l’attacco all’aeroporto di Kabul da parte di Isis K c’è stata la reazione americana, con un drone che ha ucciso anche diversi bambini. È questo il modo migliore per combattere il terrorismo? Non abbiamo imparato nulla?
Biden ha risposto a quella che lui ha percepito come una richiesta profonda della società americana, la richiesta di vendetta. La stessa che veniva dopo l’11 settembre, in quel caso ancora più profonda naturalmente vista la spettacolarità dell’attacco. Gli americani sono un popolo piuttosto violento ed era impensabile che di fronte a un attacco come quello dell’11 settembre facessero finta di nulla. Certo, razionalmente quello che andava fatto non era certo una guerra, ma rispondere con delle operazioni di intelligence e di polizia internazionale andando a prendere i mandanti e gli esecutori di quella strage, invece di prendersela con gli afghani la cui unica colpa era quella di ospitare sul proprio territorio terroristi di al-Qaida, che in realtà i talebani avrebbero voluto cacciare. I membri di al-Qaida erano in gran parte sauditi e pachistani. Il problema è che gli Stati Uniti ovviamente non potevano fare la guerra all’Arabia Saudita e al Pakistan, due Paesi fondamentali dal punto di vista americano in quell’area, e quindi hanno ripiegato sulla soluzione apparentemente più facile: andare in un paese praticamente inesistente dal punto di vista militare, fare una grande operazione, per poi tornarsene a casa. Invece sono rimasti molto più del previsto e in questo una responsabilità ce l’abbiamo anche noi perché sono stati gli alleati europei a un certo punto, per farsi notare dagli americani e far capire che esistono anche loro, ad andare sul terreno rivoltando quella che a quel punto poteva essere tranquillamente una missione conclusa, in una missione direi coloniale, cioè di redenzione di un popolo per portarlo verso standard occidentali. Quanto di ipocrisia e quanto di buona volontà ci sia stato in questo non lo so, ma certamente è stato uno dei motivi per cui gli americani sono rimasti lì 20 anni.
Dopo il ritorno dei talebani si discute se e quanto siano cambiati: lei come la vede?
Qualcosa in vent’anni ovviamente è cambiato, sono successe molte cose, tra cui il contatto tra l’Afghanistan e il resto del mondo, anche se certo si è trattato di un contatto limitato perché quando parliamo di Afghanistan parliamo essenzialmente di Kabul, mentre il grosso della popolazione sparsa per questo grande Paese vive in condizioni molto peggiori rispetto a chi vive nella capitale. Una delle cose che certamente è cambiata è che il nuovo governo afghano, in cui ci sono clamorosi terroristi come il ministro dell’Interno Sirajuddin Haqqani, è costretto a ostentare un volto più moderato, e forse anche a praticarlo, semplicemente perché ha bisogno degli aiuti internazionali per poter tirare avanti. Quando si passa dalla condizione di guerrigliero terrorista alla condizione di ministro qualcosa cambia per forza.
Adesso che i talebani hanno annunciato anche la presa del Panshir pare non ci sia più nessuna resistenza nel Paese. Possiamo parlare di una situazione interna stabile?
In un Paese che di fatto non esiste e in cui gruppi etnici, culturali e politici si contrappongono da sempre l’uno all’altro è impossibile immaginare una pacificazione totale. L’Afghanistan ha sempre funzionato e continuerà a funzionare con una sorta di sindaco di Kabul che fa il presidente della Repubblica e il capo del governo e i vari signori del territorio, o meglio della guerra, o meglio ancora dell’oppio, che controllano singoli territori e se li contengono. Il problema è se questa competizione fra signori della guerra può essere tenuta sotto un certo livello di violenza oppure no. Attualmente non vedo all’orizzonte una guerra civile come quella che scoppiò dopo il primo avvento dei talebani. Forme di violenza e di guerriglia saranno inevitabili in un Paese così armato come l’Afghanistan (armato dagli americani che gli hanno mollato gran parte degli armamenti), ma non penso che saranno tali da destabilizzare questo molto peculiare ordine che si è venuto a creare.
Vent’anni fa i talebani sono stati attaccati perché in qualche modo protettori di al-Qaida. Oggi in che rapporti stanno con l’organizzazione fondata da Osama bin Laden?
In verità i talebani non sono mai stati in ottimi rapporti con al-Qaida, anche quando andarono al governo per la prima volta nel 1996. La consideravano un pericolo perché, a differenza loro che sono interessati unicamente all’Afghanistan (o meglio ai territori afgani, perché l’Afghanistan non esiste), al-Qaida era ed è interessata al resto del mondo per sovvertirlo. Dobbiamo tenere a mente che non esiste un fondamentalismo islamico tout court. Esistono diversi modi di interpretarlo e questi modi sono tendenzialmente conflittuali visto che il mondo islamico è percorso da una quantità di conflitti, di tensioni quando non di vere e proprie guerre che coinvolgono islamici di una tendenza o di un’altra. Qualcuno legge queste tensioni soprattutto in chiave di contrapposizione fra sunniti e sciiti, ma anche questa è una semplificazione. Insomma l’Islam come soggetto unitario non è mai esistito nemmeno gli esordi, figuriamoci oggi che non è più tempo di califfi.
Se alcune delle frange del fondamentalismo islamico hanno mire universali, quanto è concreta la minaccia per l’Europa e l’Occidente?
Le strutture deputate al controllo e alla repressione del terrorismo fanno abbastanza bene il loro mestiere. L’opinione pubblica, finché non viene colpita e impaurita da attentati, tutto sommato anche. Il problema è che ora la questione del terrorismo islamico si connette, anche per iniziativa di certi gruppi politici e culturali, a quella migratoria. Per cui il problema non è più tanto percepito come la paura di un attentato quanto nei termini di “questi ci invadono”, “ci rubano casa”, “vengono a imporre la loro legge a casa nostra” e questo può diventare un motivo serio non tanto di scontro fra “loro” e “noi” quanto di disgregazione del tessuto sociale e istituzionale dentro i nostri paesi. Il presidente Macron parla di separatismo, intendendo il fatto che in Francia esistono dei territori molto importanti e molto vasti – basti pensare alla città di Marsiglia o a certe periferie di Parigi neanche tanto lontane dal centro – che sono di fatto insediamenti di popolazioni mal radicate nel territorio francese che vivono autosegregate, e in parte anche segregate, rispetto al resto della nazione. Di fronte a questo problema Macron ha bisogno di apparire come uomo forte per guadagnare popolarità in un’opinione pubblica che è molto scossa e anche molto “reattiva”. Io temo però che si tratti di una questione che non può essere risolta con un atteggiamento da campagna elettorale o con semplici dichiarazioni, ma solo attraverso una capacità di filtrare e gestire i flussi migratori, che per Paesi in declino demografico sono in parte inevitabili e in parte però superiori al necessario, ma che in ogni caso non possono avvenire in modo caotico e incontrollato. Questa è un’operazione innanzitutto culturale che dovrebbe investire le nostre società fin dalla scuola per poi risalire fino alle strutture di governo, di intelligence e di sicurezza. Perché o ci abituiamo a convivere con questa realtà migratoria e a gestirla per quanto possibile oppure fenomeni di guerra civile a bassa intensità, che sono già individuabili, potrebbero diventare pericolosi. Non tanto in termini di “guerre di religione” quanto piuttosto di sfaldamento delle nostre società.
In un’intervista al Corriere della Sera il sottosegretario ai Servizi Segreti e alla Sicurezza Franco Gabrielli alla domanda se pensa che ci saranno nuove guerre risponde: “Non sono auspicabili perché è vero che la democrazia non si esporta con la forza. Tuttavia negare che i diritti e le libertà si possano difendere anche con la forza significherebbe rinnegare l’aiuto ricevuto dagli eserciti alleati nella guerra di Liberazione da cui è nata la nostra Repubblica”. Le sembra sensato questo richiamo alla guerra di Liberazione dell’Italia dal regime nazifascista?
Penso che sia un modo per dire che non possiamo semplicemente dichiarare la pace eterna, che dobbiamo essere pronti a qualunque situazione, e tanto più deve esserlo un signore che fa il mestiere di Gabrielli. Non si tratta certo di un incitamento ad armarsi e scendere in campo, ma semplicemente di un invito a essere consapevoli del fatto che la pace non è un regalo eterno, ma è qualcosa che deve essere preservato. Il fatto che noi italiani ormai, per fortuna, da almeno tre generazioni siamo emancipati da questo rischio ci induce a pensare che la pace sia un bene eterno o comunque assicurato almeno per le nostre vite e quelle dei nostri figli. Ma non è così, quindi questo richiamo mi pare pertinente.
In questi giorni si parla molto di un esercito europeo unico. Da un lato c’è chi lo ritiene un elemento di forza dell’Europa, dall’altro invece chi pensa che paradossalmente un interlocutore unico sarebbe più subalterno agli Stati Uniti di quanto lo siano i diversi Stati con i propri interessi nazionali. Cosa ne pensa?
Facciamo l’ipotesi che domani il Consiglio europeo decida di formare un esercito unico e quindi mette insieme 27 eserciti. A parte che sarebbe interessante capire in che lingua parlerebbero i soldati fra loro, ma mettiamo che ci sia da fare una guerra contro la Russia. Siamo sicuri che un baltico o un polacco la vivrebbe come un italiano o un tedesco o un francese? Per fare invece un esempio non astratto ma reale, se in Libia fosse andato un esercito europeo avrebbe ricevuto ordini completamente diversi a seconda che fosse stato comandato da un italiano, da un francese o da un danese. Insomma, quella dell’esercito unico è un’ipotesi che non sta in piedi perché manca il soggetto politico. Si possono formare delle bande mercenarie, ma non un esercito vero e proprio se non c’è un potere politico che lo legittima, lo comanda, lo autorizza: se non sei uno Stato non puoi avere un esercito. E attualmente non vedo questa possibilità all’orizzonte. Per definizione questa organizzazione che è l’Unione europea non ha dei limiti, siamo partiti in 6 e, senza neanche capire bene secondo quali criteri, siamo diventati 27: difficile immaginare che una realtà del genere possa darsi una struttura statuale. Un esercito europeo si potrebbe fare dopo aver fatto la terza guerra mondiale e aver stabilito chi comanda in Europa, cosa naturalmente che nessuno auspica. Altrimenti non vedo come si possano spontaneamente tenere insieme culture, interessi, punti di vista, popoli così diversi come quelli europei. Quello che invece è perfettamente possibile è che, preservando la propria quota di sovranità e i propri interessi, alcuni paesi si mettano d’accordo, anche con un certo grado di integrazione fra le rispettive forze armate, per fare delle missioni insieme. Ben sapendo comunque che in ultima analisi la loro capacità operativa, almeno per i prossimi dieci o vent’anni, è strettamente legata alla disponibilità americana a sostenerli.


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« Risposta #51 inserito:: Ottobre 25, 2021, 02:59:08 pm »


Buongiorno! Sono David Carretta e questa è Europa Ore 7 di venerdì 22 ottobre,
realizzato con Paola Peduzzi e Micol Flammini, grazie a una partnership con il Parlamento europeo.

In quello che probabilmente è il suo ultimo Consiglio europeo, la cancelliera tedesca, Angela Merkel, è riuscita ad evitare una resa dei conti sullo stato di diritto con la Polonia, frenando l'azione della Commissione di Ursula von der Leyen nonostante la richiesta esplicita del premier olandese, Mark Rutte, di non dare il via libera al piano di Recovery di Varsavia. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha tratto la conclusione che "il dialogo politico deve continuare per trovare soluzioni", ha spiegato una fonte dell'Ue. Anche se una maggioranza di leader ha espresso sostegno alla Commissione, dal Vertice non è arrivato un mandato esplicito a von der Leyen per aprire procedure di infrazioni, attivare il meccanismo di condizionalità sullo stato di diritto, aggiornare la procedura dell'articolo 7 del trattato o bloccare i fondi del Recovery fund per la Polonia. In fondo è stata una delle molte caratteristiche dei sedici anni di regno di Merkel sull'Ue: “Kick the can down the road”. Rinviare all'infinito un problema, anche se è un problema esistenziale come lo Stato di diritto.

Il dibattito tra i capi di stato e di governo sulla sentenza del Tribunale costituzionale polacco che ha dichiarato incostituzionali due articoli del trattato è durato un paio d'ore. Il primo a prendere la parola è stato il premier polacco, Mateusz Morawiecki, che ha sostanzialmente ribadito quanto detto martedì al Parlamento europeo: la Polonia rispetta lo stato di diritto, la Corte di giustizia dell'Ue è uscita dalle sue competenze, c'è un attacco contro Varsavia per ragioni politiche. Morawiecki ha trovato solo due alleati: il premier ungherese, Viktor Orbán, e quello sloveno, Janez Jansa.

"La Polonia è il migliore paese in Europa", ha detto Orbán, secondo il quale "non c'è alcuna necessità di avere sanzioni. E' ridicolo". Jansa si è lamentato della magistratura nel suo paese, accusandola di essere politicizzata e ostile al suo governo. L'intervento di von der Leyen è stato breve. Morawiecki, la presidente della Commissione ha ribadito quel che aveva detto al Parlamento europeo: la sentenza del Tribunale costituzionale polacco è senza precedenti e l'esecutivo comunitario sta valutando le varie opzioni per rispondere. Durante il dibattito "il più duro è stato Mark Rutte", ci ha spiegato un'altra fonte dell'Ue. Ma le critiche del premier olandese sono state frenate da Merkel che, con Emmanuel Macron e Mario Draghi, ha sostenuto la linea del dialogo.

"Dobbiamo essere duri", ha spiegato Rutte. "L'indipendenza della giustizia polacca è la questione chiave che dobbiamo discutere e risolvere". Per il premier olandese, l'indipendenza della giustizia "ha a che fare con le fondamenta della nostra democrazia in questa parte del mondo. Non è negoziabile".

È "difficile immaginare come un grande quantità di denaro del Recovery fund possa essere reso disponibile alla Polonia fino a quando questo non è risolto", ha spiegato Rutte, chiedendo anche al Consiglio europeo di giocare il suo ruolo, per esempio continuando a lavorare sull'articolo 7 del trattato. "Spero che nel frattempo la Polonia prenda le misure necessarie per salvaguardare l'indipendenza della giustizia", ha spiegato Rutte.

Una decina di leader hanno detto di condividere la riflessione di Rutte, ma senza esporsi elencando le misure da adottare contro la Polonia. “La mia prima domanda al mio collega polacco è: dove vuoi arrivare? Che futuro vedi in Europa?”, ha detto il premier belga Alexander De Croo: “Se si vuole far parte di un club e approfittare dei suoi vantaggi, bisogna rispettarne le regole”. Il primo ministro irlandese, Michael Martin, ha denunciato “uno schiaffo in faccia” agli altri stati membri da parte della Polonia.
 
A parte Orbán e Jansa, nella discussione Merkel è stata la più cauta sulla Polonia. “Lo stato di diritto è una parte chiave dell'Ue, ma dobbiamo trovare possibilità per ritornare a essere uniti, perché una cascata di dispute legali davanti alla Corte europea di giustizia non è la soluzione”, ha spiegato la cancelliera in pubblico. Per Merkel, “un buon posto per discutere” di Stato di diritto, competenze nazionali, unione sempre più stretta e il modo di concepire l'Ue è “la Conferenza sul futuro dell'Europa”.

Dentro al Consiglio europeo, Merkel ha spiegato che c'è il rischio di arrivare a una rottura con i paesi dell'est con “conseguenze irreversibili”, ci ha raccontato la nostra seconda fonte. Macron e Draghi hanno espresso sostegno alla Commissione ma – secondo altri diplomatici – si sono schierati nel campo dei reticenti alla linea dura sulla Polonia. Risultato: von der Leyen potrebbe decidere di rinviare l'attivazione del meccanismo di condizionalità sullo stato di diritto.

A proposito di Polonia, ieri il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione dopo il dibattito in plenaria di martedì con Morawiecki. I deputati europei hanno definito il tribunale costituzionale illegittimo e inadatto a interpretare la Costituzione, perché per le interferenze del governo è diventato "uno strumento per legalizzare le attività illegali delle autorità".

Il Parlamento ha chiesto di bloccare i fondi comunitari ai governi che minano in modo flagrante, mirato e sistematico i valori dell'Ue e di proteggere il popolo polacco che rimane pro-europeo per la stragrande maggioranza. Secondo i deputati, la Commissione deve astenersi dall'approvare il piano di Recovery della Polonia. La risoluzione è stata approvata 502 voti favorevoli, 153 contrari e 16 astensioni.

Lega e Fratelli d'Italia hanno votato contro, prendendo le difese del PiS polacco. In un editoriale il Foglio spiega che il voto di Lega e Fratelli d'Italia è contro gli interessi dell'Italia e mostra la pavidità dei partiti anti-europeisti che hanno smesso di promuovere le “exit” ma si nascondono dietro al nazionalismo giuridico polacco.

Più di quattro ore di negoziati al Vertice sull'energia - Ci sono volute più di quattro ore di discussioni e un altro paio di negoziati per arrivare ad un accordo sulle conclusioni del Consiglio europeo sull'aumento del prezzo dell'energia. Andrej Babis, il primo ministro uscente della Repubblica ceca, ha insistito su una richiesta di introdurre delle misure per limitare il prezzo delle quote di emissioni nell'ambito del sistema Ets. Il pretesto? L'accusa lanciata dalla Spagna di speculatori che fanno salire il prezzo del carbonio. In realtà la Commissione ha già spiegato che non ci sono prove di speculazione sul mercato degli Ets. Il Consiglio europeo ha dato il suo avallo alla proposta della Commissione di affidare uno studio all'Esma e deciso di tornare sulla questione a dicembre.

Orbán accusa Timmermans di voler uccidere la classe media - Il tema degli Ets è comunque caldissimo, in particolare dopo la proposta della Commissione nel pacchetto “Fit for 55” di allargare il sistema a famiglie e consumatori introducendo quote di emissioni per riscaldamento domestico e trasporti su strada. Il premier ungherese, Viktor Orbán, ha lanciato un attacco frontale contro il vicepresidente responsabile del Green deal, Frans Timmermans. “Ciò che propongono Timmermans e altri ucciderà la classe media in Europa. E la chiave per la democrazia europea è la classe media”, ha detto Orbán: “Utopie e fantasie ci uccidono”. Secondo il premier ungherese “includere le auto, il traffico su strada e gli appartamenti nel sistema Ets” significa mettere “le famiglie in ginocchio. Non fatelo”.

Al Vertice Draghi sotto pressione sui movimenti secondari dei migranti - Il Consiglio europeo oggi dibatterà di migrazione e digitale. Nei piani di Charles Michel, il dibattito sui migranti dovrebbe essere consensuale: i leader erano stati invitati a concentrarsi sull'uso dei migranti da parte del presidente della Bielorussia, Alexander Lukashenka, contro l'Ue e sulla dimensione esterna con la richiesta alla Commissione di concretizzare (finanziariamente) i piani di azione per i paesi di origine e transito. Ma, come spieghiamo sul Foglio, potrebbe esserci una sorpresa sgradevole per l'Italia: Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Svezia e forse Germania vogliono mettere pressione su Mario Draghi di fermare i movimenti secondari.

Il Parlamento congela i fondi di Frontex - Il Parlamento europeo ha chiesto di congelare una parte del bilancio di Frontex per il 2022 a causa del presunto coinvolgimento dell'agenzia dei guardia-frontiera dell'Ue in respingimenti e altre violazioni dei diritti fondamentali. La raccomandazione di concedere il discarico (la procedura di verifica dei deputati sulle spese del bilancio dell'Ue) a Frontex per la gestione del bilancio 2019 è stata approvata con 558 voti favorevoli, 82 contrari e 46 astensioni. Nel testo della risoluzione di accompagnamento, i deputati riconoscono gli sforzi in corso di Frontex per porre rimedio ad alcune carenze, ma chiedono che parte del bilancio del 2022 sia congelato e reso disponibile solo quando l'agenzia avrà soddisfatto una serie di condizioni specifiche. Tra queste, l'assunzione dei restanti 20 osservatori dei diritti fondamentali e di tre vice-direttori esecutivi, la creazione di un meccanismo per la segnalazione di incidenti gravi alle frontiere esterne dell'Ue e un sistema di monitoraggio dei diritti fondamentali pienamente funzionante. Durante l’adozione della posizione sul bilancio dell'Ue per il 2022, i deputati hanno messo in riserva 90 milioni di euro (il 12 per cento degli oltre 750 milioni allocati all'agenzia) del budget di Frontex per il prossimo anno.

Nel 2022 il Parlamento vuole un bilancio focalizzato sulla ripresa - Il Parlamento europeo ieri ha votato la sua posizione per i negoziati con i governi sul bilancio dell'Ue del 2022. I deputati hanno annullato la maggior parte dei tagli effettuati dal Consiglio (1,43 miliardi di euro in totale), riportando il progetto di bilancio al livello originariamente proposto dalla Commissione (172,5 miliardi di pagamenti e 171,8 miliardi di impegni). I deputati hanno proposto di aumentare i finanziamenti per diversi programmi e politiche legati alla ripresa post-pandemia. Tra questi, il programma di ricerca Horizon Europe (+305 milioni rispetto alla proposta della Commissione), la Connecting Europe Facility (+207 milioni), e il programma LIFE per l'ambiente e l'azione per il clima (+171 milioni). Il voto di ieri dà il via a tre settimane di negoziati di "conciliazione" con il Consiglio, con l'obiettivo di raggiungere un accordo per il bilancio del prossimo anno.

Il Parlamento chiede un accordo sugli investimenti con Taiwan - Il Parlamento europeo ieri ha chiesto alla Commissione e agli stati membri di lanciare i negoziati per un accordo bilaterale sugli investimenti con Taiwan, provocando una dura reazione da parte della Cina. In una risoluzione approvata con 580 voti favorevoli, 26 contrari e 66 astensioni, i deputati hanno definito Taiwan come un partner chiave dell'Ue e un alleato democratico nell'Indo-pacifico ed espresso le loro preoccupazioni per le pressioni militari della Cina sull'isola. Il Parlamento europeo vuole relazioni più strette con Taiwan, anche se guidate dalla politica “Una Cina”. Ma per rafforzare la cooperazione, i deputati ritengono urgente lanciare una valutazione di impatto e una consultazione pubblica per un accordo sugli investimenti. I deputati hanno sottolineato l'importanza delle relazioni commerciali tra Ue e Taiwan, incluso su tecnologie come il 5G, la sanità pubblica e le forniture di semiconduttori. Il Parlamento europeo ha chiesto ai governi di fare di più per proteggere la democrazia di Taiwan dalla belligeranza militare cinese. Un'altra proposta che fa infuriare Pechino è quella di cambiare il nome dell'ufficio economico e commerciale europeo a Taiwan in “Ufficio dell'Unione europea a Taiwan”.

La Cina condanna il Parlamento su Taiwan - Pechino ha condannato la risoluzione adottata ieri dal Parlamento europeo voluta a rafforzare i legami con Taiwan, lanciando un avvertimento di “non sottovalutare la determinazione” della Cina di difendere le questioni legate alla propria sovranità. “La risoluzione (…) viola gravemente le norme fondamentali delle relazioni internazionali, il principio di “Una Cina” e gli impegni assunti da Bruxelles sulla questione di Taiwan”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri, Wang Wenbin: “il suo impatto è negativo”.

La Conferenza sul futuro dell'Europa si riunisce in plenaria - A partire da oggi si riunisce a Strasburgo la plenaria della Conferenza sul futuro dell'Europa per discutere delle relazioni dei panel di cittadini che si sono tenuti nelle scorse settimane. Con la plenaria della Conferenza si insedieranno gli 80 rappresentanti dei panel europei selezionati tra un gruppo di 800 cittadini riunitisi a Strasburgo a settembre e ottobre. Inoltre, per la prima volta la plenaria discuterà dei contributi dei cittadini provenienti dalle diverse componenti della Conferenza, mentre proseguono le deliberazioni, gli eventi e il dibattito online.

Gli insegnanti italiani con i salari più bassi dell'Europa occidentale - Gli stipendi di ingresso lordi degli insegnanti in Italia sono i più bassi dell'Europa occidentale dopo Grecia e Portogallo, secondo un rapporto pubblicato ieri dalla rete Eurydice della Commissione europea. Il rapporto mostra che i redditi degli insegnanti variano in modo considerevole da un paese all'altro dell'Ue, in generale in funzione del loro livello del costo della vita. Le differenze riguardano non solo i salari di partenza, ma anche la loro evoluzione durante la carriera.

Eurostat certifica deficit e debito del 2020 - Nel 2020 il deficit pubblico dell’area euro e dell'Ue è salito rispettivamente al 7,2 e del 6,9 per cento del pil, secondo la seconda notifica dei dati provvisori per il 2020 pubblicata ieri da Eurostat. Il debito pubblico è salito al 97,3 per cento del pil per l'area euro e al 90,1 per cento dell'Ue. I livelli più alti di deficit sono stati registrati in Spagna (-11,0 per cento), Grecia (-10,1), Malta (-9,7) e Italia (-9,6). I livelli più bassi sono stati registrati in Danimarca (-0,2) e Svezia (-2,8). La ratio più alta di debito sul pil è stata registrata in Grecia (206.3 per cento), Italia (155,6), Portogallo (135,2) e Spagna (120,0). Anche Francia e Belgio hanno un debito considerevolmente superiore al 100 per cento del Pil rispettivamente con il 115,0 per cento e il 112,8 per cento. I livelli più bassi di debito sono stati registrati in Estonia (19,0 per cento) Bulgaria (24,7), Lussemburgo (24,8) e Repubblica ceca (39,7). Complessivamente 13 stati membri dell’Ue hanno un debito più alto del valore di riferimento del 60 per cento previsto dal Patto di stabilità e crescita. Nel 2020 la spesa pubblica nell'area euro è stata del 53,8 per cento del Pil, mentre le entrate sono state pari al 46,6 per cento del pil.

La fiducia dei consumatori in calo - L'indice della fiducia dei consumatori a ottobre ha registrato un calo di 0,8 punti nella zona euro collocandosi a quota -4,8, secondo la stima flash pubblicata ieri dalla Commissione. Nell'Ue a 27, l'indice della fiducia dei consumatori è sceso di 0,9 punti a quota -6,1. Per entrambe le aree l'indice rimane vicino o al di sopra dei suoi livelli pre pandemia e della media di lungo periodo.


Accade oggi in Europa
•   Consiglio europeo
•   Conferenza sul futuro dell'Europa: plenaria a Strasburgo (fino a sabato)
•   Commissione: la commissaria Ferreira a Roma interviene alla "Centesimus Annus Pro Pontifice International Conference"
•   Eurostat: statistiche sulle finanze pubbliche nel secondo trimestre del 2021; dati su debito e deficit nel secondo trimestre del 2021; conti annuali di famiglie e imprese non finanziarie nel 2020; dati su Ricerca e Sviluppo nel 2019
•   Nato: riunione dei ministri della Difesa

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« Risposta #52 inserito:: Novembre 11, 2021, 09:29:26 pm »

Merkel a Putin: "Disumana e inaccettabile strumentalizzazione dei migranti"

La cancelliera tedesca ha telefonato al presidente russo chiedendo un suo intervento sulla Bielorussia, vista l'altissima tensione al confine polacco dove migliaia di persone stanno tentando di entrare e sono fronteggiare dall'esercito di Varsavia

aggiornato alle 13:3810 novembre 2021
 
AGI - Angela Merkel ha avuto un colloquio telefonico con Vladimir Putin. Lo riferisce su Twitter il portavoce del governo tedesco, Steffen Seibert: "La cancelliera ha telefonato con il presidente Putin per discutere della situazione al confine bielorusso-polacco". A detta del portavoce, Merkel "ha sottolineato che la strumentalizzazione dei migranti attraverso il regime bielorusso è disumano e inaccettabile e ha pregato il presidente Putin di intervenire" su questa situazione.
Il presidente russo ha invitato la cancelliera tedesca a stabilire un dialogo diretto con Minsk sulla crisi migratoria ai confini con la Polonia e la Lituania. Come riferisce il Cremlino in una nota, riportando i contenuti del colloquio telefonico tra i due leader, "il presidente della Federazione russa ha proposto di avviare una discussione nei contatti diretti dei rappresentanti degli Stati membri dell'Ue con Minsk".
Putin e Merkel hanno deciso di continuare i contatti su questo argomento, ha aggiunto il Cremlino, sottolineando che l'iniziativa della telefonata è avvenuta da parte tedesca. La cancelliera aveva chiesto al presidente russo di esercitare la sua influenza sul leader bielorusso, Aleksandr Lukashenko, denunciando una "strumentalizzazione" inaccettabile dei migranti.
Da - https://www.agi.it/estero/news/2021-11-10/telefonata-merkel-putin-inaccettabile-disumana-strumentalizzazione-dei-migranti-14503591/
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« Risposta #53 inserito:: Novembre 30, 2021, 05:35:08 pm »

L’identità del Popolo Palestinese, che non ha ancora raggiunto la volontà di pace, deve essere ricordata!

Con l’auspicio che si ritrovi riconosciuta e capace di farsi rispettare e rispettare, nella serenità della Pace.

ggiannig
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« Risposta #54 inserito:: Gennaio 12, 2022, 06:34:27 pm »

L'ex consigliere di Trump e Obama: "L'Italia è il bersaglio della Russia"

Posta in arrivo

Arlecchino Euristico <ggianni41@hotmail.it>
dom 28 nov 2021, 15:00
a me

Fiona Hill: "Putin non usa solo gli agenti segreti o i ransomware per influenzare la politica italiana. In alcuni partiti manca consapevolezza" -

https://www.agi.it/estero/news/2021-10-30/ex-consigliere-trump-e-obama-italia-bersaglio-di-russia-14371056/

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« Risposta #55 inserito:: Gennaio 18, 2022, 04:09:53 pm »

Oggi in Svizzera
Care lettrici, cari lettori,
stando a una recente analisi fatta da un gruppo di “fact checker” (gruppo di persone o istituzioni che si occupano di verificare la veridicità di informazioni dichiarazioni), le fake news che circolano in rete non sono prerogativa dei social network. Anzi: la pecora nera è YouTube. Tra i miliardi di filmati presenti sulla piattaforma, è facile trovare molta disinformazione e gli esperti chiedono alla proprietaria Google di intervenire per migliorare la situazione.
Noi vi invitiamo, però, a leggere qui le notizie della giornata. Queste, ve lo possiamo assicurare, non sono false.

Marija Milanovic
 Copyright 2021 The Associated Press. All Rights Reserved.
I veicoli ibridi non sono verdi come si pensa: a rivelarlo è uno studio di Impact Living commissionato dal Canton Vallese.

Secondo i dati raccolti dall’impresa che punta ad accelerare la transizione energetica, i veicoli che combinano motore termico tradizionale e motore elettrico con carica tramite presa della corrente sono una “trappola climatica” poiché aumentano le emissioni di gas a effetto serra invece di ridurle.

“Una truffa”: il rapporto non usa mezzi termini per definire questi mezzi di locomozione che, dati alla mano, consumano 230% in più rispetto a quanto pubblicizzato dai produttori. “I veicoli ibridi sono spesso vantati per consumare 1,5-2,5 litri sui 100 chilometri, ma in realtà, nel loro uso quotidiano, ne consumano dai 4 ai 7, come dei motori a diesel”, spiega alla trasmissione romanda “La Matinale” della RTS il fondatore di Impact Living Marc Muller.

Il Governo vallesano, che ha finanziato lo studio di Impact Living, ha ora deciso di sopprimere le sovvenzioni per l’acquisto di veicoli ibridi plug-in. “Non possiamo sostenere dei mezzi che non ci permettono di raggiungere gli obiettivi [climatici] che ci siamo fissati”, spiega il consigliere di Stato vallesano Frédéric Favre.

Lo studio di Impact Living (in francese)
L’articolo su rts.ch (in francese)
Dal nostro sito: “Un'auto su sette venduta in Svizzera è elettrica”

Da - tvsvizzera.it <tvsvizzera@swissinfo.ch> Annulla iscrizione
17:17 (6 ore fa)
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« Risposta #56 inserito:: Gennaio 19, 2022, 03:16:44 pm »

Keystone / Zoltan Balogh

Il Tribunale amministrativo federale (Taf) bacchetta la Segreteria di Stato della migrazione (Sem) per il respingimento in Croazia di un cittadino afghano maltrattato a più riprese dagli agenti di frontiera di Zagabria.
Per i giudici di San Gallo, che già in novembre avevano accolto un ricorso dell'espatriato, l'agenzia federale non avrebbe tenuto in debito conto dei difetti, evidenziati dai racconti del ricorrente e da molti osservatori indipendenti, della procedura d'asilo applicata nel paese balcanico, che prevede rinvii immediati (push-backs) degli stranieri. Una pratica che non consente di accedere alle norme a tutela dei profughi e sarebbe sistematicamente accompagnata da violenze di varia natura.

Gli abusi riferiti dal cittadino asiatico, che avrebbe subito manganellate, pugni, torture e sequestri da parte degli agenti croati, appaiono credibili al Tribunale e per questo motivo sono di impedimento al suo respingimento. 

Inoltre, la corte federale ha sollevato dubbi sulla reale competenza, nel caso concreto, della Croazia (in base al Regolamento di Dublino), in particolare in relazione alle reali date dei tentativi di ingresso nel paese da parte dell'immigrato afghano.
La procedura di ricorso contro una decisione negativa in materia di asilo.
Il regime dell'asilo in Svizzera descritto da swissinfo.ch.
---
Keystone / Barbara Gindl

In seguito a una decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo del 2021 Losanna rinuncia a sanzionare i mendicanti sul suo territorio, anche se la legge "resta in vigore".
La precisazione è giunta martedì dal responsabile cittadino della sicurezza Pierre-Antoine Hildbrand in Consiglio comunale, che ha chiarito che la polizia non infligge più multe, per un importo che va dai 50 ai 100 franchi, alle persone che chiedono l'elemosina in strada.
Finora le autorità vodesi hanno sostenuto che la legge cantonale adottata nel 2018 restava in vigore mentre altri cantoni, come Ginevra, hanno congelato norme analoghe. Nel parlamento locale sono comunque pendenti due mozioni della sinistra e della destra che chiedono, rispettivamente, l'abrogazione delle disposizioni cantonali e un'interpretazione meno rigida della sentenza europea.

Per i giudici di Strasburgo, che si erano pronunciati il 19 gennaio dello scorso anno sul caso riguardante una cittadina romena di etnia rom a Ginevra, l'ammenda di 500 franchi e la pena sostitutiva di 5 giorni di carcere per il mancato pagamento della stessa, erano "sproporzionati".
La notizia riportata da 20 minutes.
---
Sulla sentenza della CEDU il servizio multimediale di rsi.ch e di swissinfo.ch.
Una panoramica sul divieto di mendicità in Svizzera l'articolo di swissinfo.ch.
La mendicità descritta in una prospettiva di più ampio respiro dal Dizionario storico della Svizzera (DSS).
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« Risposta #57 inserito:: Gennaio 28, 2022, 09:23:53 pm »

Regolamentazione del commercio di legno

Dal 1° gennaio 2022 sarà proibito immettere sul mercato svizzero legname di provenienza illegale e i prodotti da esso derivati. La nuova ordinanza sul commercio di legno (OCoL) entra in vigore contestualmente alla modifica della legge sulla protezione dell’ambiente (LPAmb). Per tutti gli operatori del mercato, l’ordinanza prevede l’adempimento di un obbligo di diligenza nonché l’attenuazione dei rischi connessi al legname di provenienza illegale.

Il prelievo e il commercio di legno di provenienza illegale rappresentano un problema globale che ha ricadute negative sull’ambiente, l’economia e la società. Per contrastare tale fenomeno, molti Governi hanno emanato regolamenti relativi all’immissione sul mercato di legno e prodotti derivati, ad esempio: il Lacey Act negli Stati Uniti, l’Illegal Logging Prohibition Bill in Australia o lo European Timber Regulation (EUTR) nell’UE. Tutti i regolamenti stabiliscono che i prodotti siano verificati con la dovuta diligenza prima di essere immessi sul mercato.
Lotta al prelievo e al commercio di legno di provenienza illegale

Il Consiglio federale fissa l’entrata in vigore al 1° gennaio 2022 della modifica della legge sulla protezione dell’ambiente (LPAmb), la quale prevede il divieto di mettere in commercio legno e prodotti da esso derivati di provenienza illegale. La modifica di legge è stata approvata dal Parlamento nel 2019 e costituisce la base legale per la nuova ordinanza sul commercio di legno (OCoL), che entrerà contestualmente in vigore. Con l’OCoL, il Consiglio federale, su mandato del Parlamento, istituisce una normativa equivalente al regolamento dell’Unione europea (UE; EUTR 995/2010). Lo scopo è, da un lato, impedire che in Svizzera siano immessi sul mercato legno e prodotti da esso derivati provenienti da prelievo o commercio illegali. La lotta contro il prelievo e il commercio illegali ridurrà la deforestazione, ma anche la perdita di biodiversità, il che rappresenta un contributo alla lotta contro il cambiamento climatico. Dall’altro lato, in questo modo si eliminano gli ostacoli al commercio tra la Svizzera e l’UE.

Gli operatori del mercato sono tenuti alla dovuta diligenza
L’aspetto centrale dell’ordinanza è l’obbligo di diligenza per chi commercializza per la prima volta legno e prodotti da esso derivati, i cosiddetti operatori, i quali devono poter dimostrare di aver valutato sistematicamente i rischi e, ove presenti, di averli ridotti a un livello trascurabile. A tal fine, devono allestire, applicare e aggiornare regolarmente un sistema di dovuta diligenza.
I commercianti, i quali acquistano o vendono legname già immesso sul mercato, devono documentare da quali fornitori hanno acquistato il legno o i prodotti da esso derivati e a quali acquirenti li hanno rivenduti. Questa tracciabilità deve consentire di identificare gli operatori.
Anche i proprietari di bosco, che raccolgono legno nei boschi svizzeri, sono soggetti a questa normativa. Essi possono presumere che l’autorizzazione di utilizzazione prevista dalla legislazione forestale, di competenza dei Cantoni, ed eventuali altri documenti approvati per l’utilizzazione (ad es. un piano aziendale) contengano le informazioni necessarie. Di conseguenza sono tenuti a conservare queste informazioni attestanti la «raccolta legale». La valutazione e l’attenuazione del rischio sono di regola soddisfatte con le attestazioni summenzionate.
L’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM) è responsabile del controllo degli operatori e dei commercianti, mentre i Cantoni sono responsabili del controllo dei proprietari di bosco.

In cosa consiste la dovuta diligenza
Chi per la prima volta immette sul mercato svizzero legno o prodotti da esso derivati, è tenuto a garantire che il legname sia stato raccolto e commercializzato legalmente. Per dimostrarlo, gli operatori del mercato allestiscono un sistema di dovuta diligenza, preferibilmente da subito. Qui di seguito sono riportati gli elementi necessari per l’allestimento.

Obbligo di diligenza
Esecuzione e controllo

L’esecuzione spetta in gran parte all’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM), il quale si concentra soprattutto sulle aziende che importano volumi elevati di legname da Paesi a rischio, mentre i Cantoni si occupano del legname raccolto nei boschi svizzeri.

Esecuzione e controllo
Domande frequenti (FAQ)
Cosa comporta la nuova normativa e chi è interessato? Qui sono riportate le risposte alle domande più importanti.
Domande frequenti (FAQ)
Newsletter «Commercio legale di legname in Svizzera»
L’UFAM informa gli operatori, i commercianti e altri soggetti interessati in merito a progressi, pubblicazioni ed eventi rilevanti sul regolamento per il legno.
Iscrizione
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Obbligo di dichiarazione per il legno e i prodotti del legno in Svizzera
In Svizzera, l’obbligo di dichiarazione per il legno e i prodotti del legno è in vigore dal 2010 (RS 944.021). La relativa ordinanza obbliga i venditori di legno e prodotti del legno a fornire ai consumatori informazioni trasparenti sulla specie e sull’origine del legno (Paese di produzione del legname).
Ufficio federale del consumo (UFDC): Dichiarazione del legno
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Ulteriori informazioni
12.05.2021
Il Consiglio federale approva ordinanze nel settore ambientale
07.12.2018
Lotta al disboscamento illegale: il Consiglio federale propone una modifica di legge
Legge federale sulla protezione dell’ambiente
Seleziona la versione dal 01.01.2022
Legge federale sulla protezione dell’ambiente (Legge sulla protezione dell’ambiente, LPAmb) - Modifica del 27 settembre 2019 (PDF)
Progetto della Commissione di redazione per il voto finale
Messaggio concernente la modifica della legge federale sulla protezione dell'ambiente
(Divieto di mettere in commercio legname ottenuto illegalmente)
Ordinanza sulla messa in commercio del legno e dei prodotti da esso derivati
(Ordinanza sul commercio di legno, OCoL)

Commento concernente l’ordinanza sulla commercializzazione del legno e dei pro-dotti da esso derivati (Ordinanza sul com-mercio di legno, OCoL) (PDF, 730 kB, 12.05.2021)

Ufficio federale del consumo (UFDC): Dichiarazione del legno
European Union EU: Timber Regulation
 

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« Risposta #58 inserito:: Marzo 17, 2022, 04:18:56 pm »

Carlo Angelo Tosi e Lino Gabriel Del Sarto hanno condiviso un post.
Gianmarco Volpe

Mille anni che sta lì

Dice: bisogna capire le ragioni dell’altra parte. E capiamole, allora, ma sul serio. Dice: questa guerra non è iniziata adesso. Sì, ma manco nel 2014. Né nel 2008. E nemmeno nel 1991. Se volete fare sul serio, io ci sto.
E quindi partiamo da Pietro il Grande.
A cavallo tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, è il primo zar a fare del concetto di profondità strategica il principio di base della politica di difesa della Russia. L’impero, al tempo, è già sterminato e praticamente indifendibile, perché non ha barriere naturali a protezione dei suoi centri nevralgici. L’invasione da Occidente non è un pericolo ipotetico: meno di un secolo prima, dopo la morte di Ivan il Terribile e il periodo dei torbidi, i polacchi erano entrati a Mosca e vi avevano regnato un paio d’anni.
L’intuizione dello zar è di mettere quanto più terra possibile tra il Cremlino e i suoi nemici. L’impero inizia ad allargarsi verso il Baltico, verso il Mar Nero, verso il Caucaso, verso l’Asia centrale. È Pietro il Grande a portare la frontiera fino al Mare d’Azov e fino al fiume Dnipro in Ucraina. La profondità strategica, con l’aiuto del generale inverno, consente alla Russia di salvarsi dall’offensiva di Napoleone nel 1812 e da quella di Adolf Hitler nel 1941. Resta infatti concetto centrale della politica di sicurezza anche per l’Unione sovietica, che non a caso due anni prima dell’operazione Barbarossa scendeva a patti con la Germania nazista per spartirsi il territorio della Polonia; e che non a caso, durante gli anni della Guerra fredda, non esita a inviare i carri armati a Budapest e a Praga per assicurare la tenuta del Patto di Varsavia.
Il problema per Mosca è che, quando incorpori nuovi territori, incorpori anche nuove nazionalità. I sovietici, fin dai primi anni, tentano di sedare le spinte centrifughe nazionaliste con rudi esperimenti di ingegneria demografica e disegnando confini per così dire fantasiosi, che ancora oggi non mancano di alimentare conflitti in tutta l’area post-sovietica. Ma per tenere insieme il baraccone serve una salda ortodossia ideologica, una forza militare schiacciante e la promessa di un miglioramento delle condizioni di vita di tutte le popolazioni dell’Unione. L’Urss collassa nel 1991 per effetto del venir meno di tutti e tre questi elementi, dando vita a una costellazione di Stati indipendenti che, nella gran parte dei casi, immaginano di costruire il proprio futuro sul modello politico ed economico proposto dall’Occidente, quello uscito vincitore dalla Guerra fredda. 
Quando Vladimir Putin definisce il crollo dell’Unione sovietica “la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo” non lo fa perché è un nostalgico del socialismo reale, ma perché è consapevole che nel 1991 Mosca ha perso la sua profondità strategica. Già la Russia di Boris Eltsin tenta di chiudere i cancelli dando vita alla Comunità degli Stati indipendenti (Csi), che però non riesce mai a dotare di una politica estera e di difesa comune. I buoi sono già scappati e Eltsin non ha la forza politica ed economica per andare a recuperarli. Nel 1997 Georgia, Ucraina, Azerbaigian e Moldova danno persino vita a un’organizzazione regionale parallela che si chiama Guam, dalla quale la Russia è esclusa. È questo il periodo del grande allargamento dello spazio Nato, che – temo vada sempre ricordato – non è una potenza, ma un’alleanza militare alla quale si aderisce volontariamente. Sul rapporto Nato-Russia non mi dilungo, perché l’ho già fatto il 26 febbraio qui su Facebook.
Quando arriva al potere, nel Duemila, Putin incarna il senso di umiliazione e d’insofferenza che la sua generazione – una generazione cresciuta nell’epoca della dottrina brezneviana, nel mito dell’espansionismo sovietico e i cui padri avevano resistito a Stalingrado e liberato Berlino – che la sua generazione, dicevo, vive nelle macerie fumanti dell’impero. È un uomo del Novecento, sì, ma è soprattutto un leader russo e come un leader russo disegna la sua politica estera. Mette subito in chiaro che il disegno strategico che persegue punta dritto a mettere in discussione l’ordine mondiale emerso dalla Guerra fredda, a ridisegnare i confini dell’Europa. Lo fa piallando al suolo la capitale dell’ultima delle repubbliche separatiste, la Cecenia, e utilizzando ogni strumento a disposizione per richiamare all’ordine gli Stati indipendenti della galassia post-sovietica.
L’Ucraina, per ragioni strategiche, è il Paese verso cui, più d’ogni altro, si concentrano le attenzioni e le preoccupazioni di Putin. La sua esistenza è accettabile solo come Paese satellite della Russia: dista 600 chilometri da Mosca, dai Carpazi alla capitale russa è aperta pianura, e a Sebastopoli, nella Crimea ucraina, c’è la principale base navale russa sul Mar Nero. Nel 2004, quando si avvicinano le elezioni, il candidato filoccidentale alla presidenza, Viktor Yushchenko, viene avvelenato con la diossina, sopravvive ma ne porterà i segni sul volto per tutto il resto della sua vita. Tra il 2006 e il 2009, con lo stesso Yuschenko al potere, Gazprom interrompe ogni anno le forniture di gas in pieno inverno. Non sorprende che nel 2010 vada al potere un leader ben disposto verso Mosca, Viktor Yanukovic, il quale però tenta un gioco pericoloso di equilibrismo: tratta l’Accordo di associazione con l’Unione europea, poi si tira indietro quando arrivano cospicui assegni dalla Russia. Il resto è storia recente: la protesta dell’Euromaidan, gli spari sulla folla, le infiltrazioni di estrema destra, Yanukovic che viene esautorato dal parlamento e scappa dal Paese, l’annessione della Crimea, il conflitto a bassa intensità nel Donbas.
Non bisogna perdere di vista il quadro più ampio. L’invasione dell’Ucraina è un piano pronto da tempo: non è una reazione, non è una risposta, non è una rappresaglia. Putin ritiene fondamentale colpire per primo e colpire duro, come teorizza scavando nell’aneddotica della sua infanzia a Leningrado e ricordando di quando andava a caccia di topi e uno di questi, stretto all’angolo, approfittò di un’esitazione del piccolo Vladimir per saltargli addosso e trovare una via di fuga. Il 12 luglio 2021 il leader russo pubblica un lungo articolo che s’intitola “Sull’unità storica tra russi e ucraini” (lo linko nei commenti): ha già deciso d’invadere l’Ucraina.
Perché proprio ora? Per quattro ragioni fondamentali. La prima è che nel 2021 i prezzi di gas e petrolio sono raddoppiati in maniera inattesa, e garantiscono alla Russia un flusso di cassa extra per finanziare l’avventura militare. La seconda è che la guerra in Siria è ormai finita e Mosca può permettersi di aprire un nuovo fronte. La terza è che, nell’analisi del Cremlino, il blocco occidentale è diviso: gli Stati Uniti, debilitati dalla disastrosa transizione Trump-Biden, guardano quasi solo al Pacifico, e l’Europa è l’Europa, per di più in convalescenza da uno dei più gravi shock finanziari della sua storia. La quarta è che Putin è convinto di trovare sponda in Cina e di potersi quindi permettere di rompere con l’Occidente: Xi Jinping ha bisogno oggi più che mai del gas e del petrolio russo per accelerare la crescita economica, e avrà bisogno in futuro di un alleato che gli copra le spalle quando toccherà a lui invadere Taiwan.

Alcuni punti importanti:
• Putin non vuole la neutralità dell’Ucraina: in tal caso il conflitto si sarebbe già concluso, o più probabilmente non sarebbe mai iniziato. Putin vuole terra: l’Ucraina intera o, se dovrà accontentarsi, la sua metà fino al fiume Dnipro.
• Non si fermerà fino a quando non sarà in grado di portare a casa un risultato in grado di consolidare il suo potere e il suo consenso interno, inevitabilmente intaccato dal crollo delle condizioni di vita dei russi provocato dalle sanzioni. È ingenuo pensare che possa sedersi ora al tavolo dei negoziati.
• La Russia non vincerà mai questa guerra. L’ha già persa sul piano mediatico, rischia di perderla persino sul piano militare (il blitzkrieg è già fallito, la guerra casa per casa avvantaggia gli ucraini e il tempo gioca contro gli occupanti) e la perderà certamente sul piano politico (se anche dovesse prender Kiev, a che costo potrà controllarla?).
• La nostra capacità d’incidere sugli eventi è limitata, benché distorta dalla nostra tendenza a sentirci il centro del mondo. Dobbiamo invece abituarci a un pianeta che sempre più gira indipendentemente dalla nostra volontà e dalle nostre responsabilità. Vedete: un secolo fa l’Europa rappresentava il 30 per cento della popolazione della Terra, oggi tra il 7 e l’8 per cento. Nel 1975, quando nacque, il G7 raccoglieva l’80 per cento della ricchezza mondiale, oggi non arriva al 50. Ci sono nuovi protagonisti, nuovi scenari, nuovi centri gravitazionali. È un pensiero arrogante quello che ci porta a credere che tutto dipenda da noi, dalle nostre scelte o dalle nostre inazioni.
• Ci sono anche nuovi e vecchi imperialismi, e bisognerebbe imparare a riconoscerli prima che ci piovano le bombe in sala da pranzo. Anche se mi rendo conto che esiste una parte di questo Paese - in quel territorio oscuro nel quale s’intrecciano destra e sinistra e nel quale la necessità di posizionarsi contro il Pensiero Unico®️ sovrasta quella di cercare la verità e di abbracciare la complessità delle cose, ma anche di provare una naturale compassione per le vittime e per gli oppressi – che sarebbe disposto ad appoggiare qualunque despota, anche il più sanguinario, purché fieramente anti-occidentale.
Putin non è pazzo, piuttosto è il prodotto paranoico di una cultura paranoica. Ma è sempre stato questo. Sta invecchiando, e questo lo porta ad affrettare delle scelte che in altri tempi avrebbe ponderato più a lungo. È solo, e quindi non ha nessuno intorno che lo avverta che sta facendo una cazzata. Ma la traiettoria che lo porta a invadere l’Ucraina è la stessa lungo la quale si è mossa la sua intera carriera politica. È sempre stato tutto lì, davanti ai nostri occhi. Solo che non l’abbiamo voluto vedere. Putin oggi vuol terminare un lavoro iniziato quasi vent’anni fa. O, se vogliamo, mezzo millennio fa.

Carlo Angelo Tosi
IS17peuttri al6mo0sloure 14:3ec4  ·

OGGI E' IL MOMENTO DI BATTERE SUL CHIODO
E' paradossale che esistano mentalità così arcaiche (l’articolo lo racconta) e non è la sola quella di Putin. Il Mondo sta viaggiando verso gli anni 3000, se mai ci arriverà. Non ci arriverà se si continua a percorrere la “striscia rossa”, come l'ho definita a conclusioni dei miei studi storici. La "La Lunga Linea Rossa di Sangue".  Eppure, ci sono stati saggi, uomini e non dei che hanno indicato l'ipotesi alternativa. La verità è più semplice di tutte le palle. C'è un unico Paradiso, è "qui, ora e adesso" come ha scritto un mio caro amico e teologo. Spetta a noi realizzarlo e per farlo dobbiamo smetterla di seguire la strada sbagliata. Nulla è impossibile per l'umanità, anche l'abbandono delle armi e la messa al bando delle guerre, delle nazioni e di tutte le sconcezze e oscenità di cui continuiamo a cibare il potere. Dobbiamo smetterla di farci opprimere dalla mancanza di una visione superiore dei peggiori. Spetta a ognuno di noi ribellarsi, come ha fatto Marina Ovsyannikova e molti come lei. Dobbiamo smetterla di farci turlupinare da chi pretende di guidare l'umanità. Noi tutti possiamo viaggiare verso un futuro migliore di quello che ci raccontano. Dobbiamo volerlo con tutte le forze.

Da fb del 16 marzo 2022
PS: loro pensieri e ricordi in cui io non entro.
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« Risposta #59 inserito:: Marzo 18, 2022, 12:33:09 pm »

Macron, Francia sia pronta ad una guerra di alta intensità

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