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Autore Discussione: Silvano Andriani - Il Risiko delle banche centrali  (Letto 2339 volte)
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« inserito:: Dicembre 19, 2007, 11:25:54 pm »

Il Risiko delle banche centrali

Silvano Andriani


Stagflation: questa brutta parola descrive una situazione altrettanto brutta nella quale l’economia rallenta sino al rischio di recessione, ma l’inflazione paradossalmente aumenta.

A coloro ai quali ricorda gli anni 70 essa fa correre un brivido dietro la schiena. Questo fenomeno si intreccia con la crisi finanziaria che ha avuto inizio in estate con la crisi dei mutui subprime Usa.

Una crisi che appare sempre più ampia giacchè tempesta coinvolge l’enorme quantità di titoli derivati dalla pratica di cedere i crediti sempre più frequentemente adottata dalle banche, il cui valore nominale, come ha recentemente ricordato Marco Onado, ascende a circa 37000 miliardi di dollari. Ora cinque delle più importanti Banche Centrali hanno deciso di coordinarsi per inondare ulteriormente di dollari i mercati allo scopo di contrastare il rischio di collasso dei mercati finanziari. L’efficacia di tali interventi è dubbia, ciò che è certo è che la situazione dei sistemi finanziari e dell’economia mondiale è molto più brutta di quanto si pensava. Ed è certo che siamo in presenza di un salvataggio su larga scala dei sistemi finanziari attuato anche con interventi pubblici per sostenere in parte i debitori inadempienti e la costituzione di un superfondo patrocinata dal Tesoro Usa per acquistare, non si sa a quale prezzo, i titoli all’origine della crisi.

Nello stesso tempo i prezzi stanno facendo registrare dappertutto una brusca impennata, probabilmente anche in seguito all’eccesso di liquidità: l’aumento dei prezzi al consumo ha superato il 3% in Europa ed il 4% in Usa e questo dovrebbe ricordarci che il salvataggio di istituzioni finanziarie avventuriste non è gratuito e che il prezzo potrebbe essere pagato dai consumatori. Le Banche Centrali portano la responsabilità di non essere intervenute negli anni passati per porre un freno agli eccessi della finanza.

Il fatto che l’inflazione aumenta mentre rallenta la crescita non è il solo paradosso dell’attuale situazione. Mentre in passato durante le crisi finanziarie si assisteva ad un «volo verso la qualità» dei flussi finanziari, cioè verso i titoli Usa ritenuti più sicuri, essi, durante l’attuale crisi, si stanno dirigendo verso paesi emergenti, con la conseguenza di alimentare in essi una nuova bolla speculativa e di costringerli ad aumentare le già enormi riserve in valuta. Inoltre vi è un’evidente sfasatura tra i dati sempre peggiori delle crisi finanziaria ed immobiliare e i dati sull’andamento dell’economia reale - Pil, consumi ed occupazione - che, negli Usa, appaiono ancora abbastanza positivi, anche se potrebbe trattarsi solo di una sfasatura temporale.

È molto probabile che tutte queste incongruenze segnalino l’esaurimento di un ciclo economico iniziato dopo la crisi asiatica del 2006 e alimentato da un modello di sviluppo, definito «Bretton Woods II» dai suoi sostenitori. Costoro ricordano che dopo la seconda guerra mondiale le monete dei paesi in via di ricostruzione furono agganciate al dollaro ed all’economia Usa il che dette ad essi la possibilità di svilupparsi e stabilità all’economia mondiale e ritengono che l’attuale agganciamento della generalità delle monete dei paesi emergenti al dollaro stia svolgendo un’analoga funzione. Essi dimenticano però due grandi differenze. Allora il collegamento tra le monete non era una scelta di ciascuno Stato che può essere rimossa in qualsiasi momento, ma era regolato da accordi internazionali e basato sull’agganciamento del dollaro all’oro. Allora gli Usa erano grandi esportatori di capitali, come si conviene al paese più ricco, mentre ora svolgono una funzione opposta. È bene allora ricordare brevemente le caratteristiche dell’attuale modello di sviluppo. Dopo la crisi che nella seconda metà degli anni ’90 coinvolse tutti i paesi in via di sviluppo, i paesi anglosassoni, Usa in testa, sono sempre più andati assumendo il ruolo di consumatori di ultima istanza, trainando la domanda mondiale. Poiché le retribuzioni non aumentavano, l’aumento dei consumi dei ceti medi è stata alimentata da una formidabile crescita dell’indebitamento delle famiglie che ha superato ogni record storico e che si è sommata alla crescita dell’indebitamento pubblico. In effetti il complesso dei paesi anglosassoni - Usa, Inghilterra, Australia, Nuova Zelanda, Irlanda - assorbe ormai la quasi totalità dei flussi netti di capitali mondiali.

I paesi emergenti, Cina in testa, sono andati assumendo il ruolo di produttori di manufatti di ultima istanza ed hanno impiegato buona parte dei surplus realizzati per acquistare dollari e sterline, finanziando così finanziare le proprie esportazioni e impedendo che le proprie monete si rivalutassero nei confronti del dollaro. Questi paesi si configurano come esportatori di manodopera, merci e capitali a basso costo e sono stati la principale forza che ha consentito all’economia mondiale di crescere finora con inflazione costantemente bassa. L’attuale crisi finanziaria può essere correttamente letta solo nel contesto di un modello di sviluppo che ha consentito un formidabile sviluppo dell’indebitamento perché su di esso si è basata la crescita della domanda interna dei paesi ricchi.

Vari interrogativi sono da tempo sorti circa la sostenibilità di un tale modello di sviluppo. Fino a quando le famiglie e gli Stati potranno continuare ad indebitarsi? Fino a quando i paesi asiatici potranno reggere politicamente uno sviluppo trainato dalle esportazioni che lascia fuori grandi parti del territorio? Fino a quando essi vorranno finanziare i consumi di paesi ricchi? Fino a quando la pressione al ribasso sui prezzi delle merci e dei fattori della produzione esercitata dai paesi emergenti controbilancerà quella al rialzo che essi stessi esercitano sui prezzi delle materie prime? La crisi finanziaria e l’aumento dei prezzi ci dicono che siamo probabilmente già al di là dei limiti di sostenibilità di questo tipo di crescita. Possiamo dire allora con Martin Wolf su Financial Times che «ciò che sta accadendo è una enorme colpo alla credibilità del modello anglosassone di capitalismo finanziario». Ora l’economia mondiale si sta addentrando in un territorio inesplorato, giacchè non è facile prevedere l’esito delle spinte contrastanti generate dallo sgonfiamento della bolla speculativa immobiliare e da una crisi finanziaria dalle caratteristiche del tutto inedite e dalla spinta all’aumento dei prezzi e delle aspettative di inflazione. Ma sopratutto non sono note le caratteristiche che dovrebbe avere un diverso modello di sviluppo e non si sa se l’economia mondiale si è emancipata dal ruolo trainante dei paesi anglosassoni. Recenti ricerche Ocse ci spiegano che la svalutazione del dollaro non sta comportando e non è previsto che comporti una riduzione degli squilibri dell’economia mondiale. Da questa situazione difficilmente si uscirà senza una maggiore capacità di regolare lo sviluppo a livello mondiale e di ridefinire la funzione delle istituzioni economiche internazionali. Bisognerebbe cominciare a discuterne seriamente.

Le Banche Centrali sono di fronte ad un drammatico dilemma: ridurre i tassi per impedire che il rallentamento dell’economia si trasformi in dura recessione o aumentarli per impedire che l’inflazione cresca ancora. Se dovessero scegliere la seconda strada farebbero bene a dirlo ed i sindacati farebbero bene a cercare di evitare che negli anni delle vacche magre a dimagrire siano quelli che non sono affatto ingrassati al tempo delle vacche grasse.



Pubblicato il: 19.12.07
Modificato il: 19.12.07 alle ore 12.59   
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