LA-U dell'OLIVO
Novembre 22, 2024, 08:08:53 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Tommaso PADOA-SCHIOPPA. -  (Letto 14856 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Dicembre 19, 2007, 05:34:54 pm »

IL RETROSCENA

"Per questa giusta battaglia sono pronto anche a cadere"

di MASSIMO GIANNINI

 

"La mozione di sfiducia? Io ho sempre fatto e continuo a fare il mio dovere. Dunque, sono tranquillissimo... ". Chi immagina Tommaso Padoa-Schioppa come un ministro ormai "alle corde", accusato dall'opposizione e criticato dalla sua maggioranza, chiuso nel suo ufficio di Via XX Settembre come se fosse in un bunker, isolato e tormentato da foschi pensieri goethiani come il Guido Carli del 1991, evidentemente non lo conosce. Il ministro dell'Economia, a chi in queste ore difficili va a chiedergli lumi sul caso Speciale, risponde con una serenità disarmante.

"Di queste vicende io parlerò solo nelle sedi istituzionali, cioè in Parlamento. Nel frattempo, parlano i fatti e parlano gli atti...", ripete ai pochi interlocutori che riceve, in via del tutto riservata.
Per un diabolico scherzo del destino, i nodi più intricati e velenosi che il ministro ha di fronte sono arrivati al pettine tutti assieme. Prima l'incidente sulla Rai, con il reintegro di Petroni in consiglio di amministrazione deciso dal Tar. Poi l'infortunio sulle Fiamme Gialle, con il reintegro di Speciale decretato sempre dal Tar.

Infine l'impasse su Alitalia, con l'ennesimo rinvio della decisione sul partner e il rischio di un drammatico fallimento della compagnia. A suo modo, secondo il Tesoro, ognuna di queste vicende racchiude una metafora del Paese. Un Paese che vive di conflittualità e rifiuta la responsabilità. Un Paese che sceglie in base alle contiguità e non sopporta le discontinuità. In ognuna di queste vicende, il ministro "tecnico" per definizione ritiene di aver tenuto una linea marcatamente "politica", che il sistema, tutto il sistema, fa fatica a comprendere e a metabolizzare.

Per il centrodestra se ne può intuire il motivo: nella passata legislatura, la Rai e la Guardia di Finanza erano i due gangli vitali di una struttura di potere che ruotava intorno al dominio dell'informazione (televisiva e pubblicitaria) e al controllo dell'intelligence (fiscale e giudiziaria). Far saltare i due "referenti" di quella struttura non poteva non sollevare la reazione scomposta di chi l'aveva inventata, costruita e usata per puro interesse di bottega. Per il centrosinistra, nell'ottica di Via XX Settembre, i dubbi si spiegano solo alla luce di una visione conservativa e "amministrativistica" della cosa pubblica, dove la forma della decisione rischia di valere più del suo contenuto. Le responsabilità di governo sono tutt'altra cosa.

Sul caso Speciale i fatti e gli atti, nella ricostruzione del Tesoro, raccontano una verità politicamente incontrovertibile, anche se giuridicamente controversa. Padoa-Schioppa, interprete di una linea discussa e condivisa dal governo, ha voluto assumere una decisione dirompente. La rimozione di un comandante generale della Guardia di Finanza, nei cui confronti era venuto totalmente a mancare il rapporto fiduciario. È stato un "atto politico", del quale il ministro si è assunto la piena responsabilità, e del quale adesso rivendica il pieno diritto. Lo ha fatto davanti alle Camere, con un discorso ruvido che a suo tempo qualcuno, nella maggioranza, ha definito persino troppo duro. Ma proprio questo è il punto cruciale della questione, che il centrodestra fa finta di non vedere e che una parte del centrosinistra si ostina a non capire.

Un governo democraticamente eletto ha o non ha la facoltà di revocare un militare di cui non si fida più? Non è forse questa una prerogativa esclusiva del potere esecutivo, che nessun potere "altro", nemmeno quello giudiziario, può avocare a sé? Padoa-Schioppa l'ha ripetuto ancora una volta ai colleghi che gli facevano notare i rischi di quella revoca: gli abbiamo dato più di un anno di tempo, per verificare se c'erano le condizioni per lavorare insieme in uno spirito di collaborazione istituzionale. "Quando abbiamo capito che quelle condizioni non esistevano più, abbiamo agito di conseguenza... ". E adesso che sono in corso indagini della Corte dei conti e della Procura militare persino su voli privati, fondi riservati e trasbordi aerei di pesce fresco, al Tesoro ci si chiede cos'altro deve succedere, ancora, per rendersi conto di cosa fosse diventata la più alta carica della Guardia di Finanza? E come si può tollerare che un "soldato" col massimo grado compaia in tv, quasi a reti unificate, su La7 e sul servizio pubblico di Raiuno e Raidue, per sparare a zero contro il governo in carica?

Questo non vuol dire che un ministro della Repubblica non voglia rispettare la sentenza del Tar. Ma quello che conta, per Padoa-Schioppa, è che i due piani restino distinti: un conto è la questione giuridica, tutt'altro conto è la questione politica. Se nel provvedimento congiunto di revoca implicita di Speciale e di nomina esplicita di D'Arrigo c'è un vizio di forma, si troverà il modo per sanarlo. Viceversa, sulla decisione politica non si può e non si deve tornare indietro. La stessa mossa a sorpresa inscenata da Speciale due giorni fa viene definita in un solo modo: "poutchista". Un generale che scrive una lettera di dimissioni non all'istituzione dalla quale dipende direttamente (il ministro delle Finanze) ma al Capo dello Stato. E non contento di questa palese violazione della legge istitutiva del suo Corpo, chiede con un'altra missiva al Capo di stato maggiore che la sua lettera di dimissioni sia letta ai reparti. È quasi "una chiamata alle armi per i suoi soldati", secondo l'interpretazione del Tesoro. Cioè una mossa tecnicamente "eversiva".

Se questo è lo stato dei rapporti, personali e istituzionali, come si fa a non convincersi che la decisione politica di rimuovere Speciale non può essere cancellata da una sentenza del Tar? Negli uffici di via XX Settembre si fa un paragone: fatte le debite proporzioni, "sarebbe come se dopo la disfatta di Caporetto nel 1917 qualcuno avesse obiettato a Vittorio Emanuele Orlando un errore formale nella destituzione del generale Cadorna, e nella nomina di Armando Diaz al suo posto".

Per fortuna, non siamo alla Prima Guerra Mondiale. Me se non c'è un'emergenza militare, per Padoa-Schioppa c'è un'emergenza etica, che un ceto politico responsabile deve saper fronteggiare, con la coerenza dei comportamenti e la cogenza delle decisioni. Il cambiamento e la modernizzazione passano anche per queste scelte di rottura. E questo vale tanto per la Guardia di Finanza, quanto per la Rai, che in questi anni sono stati la cinghia di trasmissione di un'inedita forma di "regime light", che se non ha messo a repentaglio la democrazia, sicuramente ne ha intaccato la qualità. Anche per questo, a un collaboratore che ieri sera chiedeva al ministro quanto si rischia con il voto sulla mozione di sfiducia, Padoa-Schioppa rispondeva serafico: "Accada quel che deve. Io sono anche pronto a cadere, in questa battaglia. Perché so che è una battaglia bella. E soprattutto è una battaglia giusta: non solo per me, ma soprattutto per il nostro Paese".



(19 dicembre 2007)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Dicembre 19, 2007, 05:36:30 pm »

POLITICA

Il comandante generale della Gdf D'Arrigo: "Quella lettera non l'avrei scritta, nel Corpo ho trovato opposte fazioni"

"L'ex comandante è fuori dalla realtà così cambierò la Guardia di Finanza"

di CARLO BONINI


ROMA - Il Comandante Generale della Guardia di Finanza, Cosimo D'Arrigo, siede sul lato lungo del piccolo tavolo di lavoro del suo ufficio in viale XXI Aprile.

Generale, Roberto Speciale prima le ha dato del "poveretto" e dell'abusivo, annunciando il suo rientro. Poi, si è dimesso da un incarico in cui nessuno lo aveva reintegrato con una lettera in cui ha messo in mora il legittimo potere costituzionale del Governo, ordinando al suo capo di Stato maggiore di trasmettere la missiva all'intero Corpo. Lei, il primo giugno scorso, nel suo primo ordine del giorno da Comandante generale, scrisse: "Di Roberto Speciale ho apprezzato il profondo senso dello Stato e delle Istituzioni, l'intimo, radicato culto dei valori e delle regole, lo straordinario spirito di servizio verso la nostra Patria!". Userebbe ancora queste parole?
"Innanzitutto, tengo a dire che, come forse lei saprà, il capo di Stato maggiore non ha dato alcun seguito alla richiesta di Speciale. Perché nessun seguito legittimo quella richiesta poteva avere. Detto questo, sarò molto franco. Sette mesi fa espressi quel giudizio sulla base di una conoscenza e di un'amicizia che dura da 42 anni e che oggi confermo, non certo per malinteso senso di generosità. Ma in questi sette mesi sono accadute molte cose. E' un altro film. La situazione è degenerata e il generale Speciale, che ha continuato ad agire per fatto personale, ha perso il senso della realtà. Perché, vede, la lettera di dimissioni da un incarico che non aveva e in cui non avrebbe mai potuto essere reintegrato è una lettera fuori dalla realtà. Dico sempre ai miei collaboratori, che ciascuno di noi ha il suo tempo. Il tempo di Speciale è finito. Lui ha deciso che è finito in una certa data. Per me era finito molto prima".

E' qualcosa di più e di peggio di una lettera fuori della realtà. E' un manifesto di infedeltà istituzionale.
"Io non so perché l'abbia scritta. So soltanto che è stato anche sollecitato da alcuni amici dentro e fuori la Guardia di Finanza i quali sostengono che volesse fare "un bel gesto" per liberare il Corpo dall'imbarazzo. Ma non voglio essere ambiguo. E dunque le dico chiaramente che non solo non condivido nulla dei contenuti di quella lettera, ma che i principi della nostra Costituzione prevedono che in caso di conflitto tra Autorità politica e autorità militare, i generali debbano giustamente perdere. Sempre".

A proposito di ambiguità, in questi sette mesi lei ha taciuto. Quasi a conferma di quel che si diceva di lei il giorno della nomina. D'Arrigo è un re Travicello che non riuscirà a spostare neppure un posacenere.
"Non sono un re Travicello e, al di là dell'apparenza, non ho neppure un buon carattere. In questi sette mesi, anche facendo violenza a me stesso, mi sono imposto il silenzio per chiudere con un passato che non ci deve più riguardare. Per disgiungere il problema personale di Roberto Speciale dai destini e dall'immagine di un Corpo di 60 mila donne e uomini. Io dovevo spegnere rapidamente un antagonismo strisciante che attraversava ufficiali di grado elevato del Corpo e non prestare il fianco a strumentalizzazioni interne. Dovevo capire dove stavo, cosa era la Guardia di Finanza e, soprattutto, capire di chi mi potevo fidare non solo dal punto di vista professionale, ma della coerenza con le istituzioni".

Che significa "coerenza con le istituzioni"?
"E' coerente con le istituzioni un finanziere che pensa che la Guardia di Finanza è un'istituzione dello Stato, una risorsa del Paese, non uno strumento buono per l'affermazione di interessi privatistici, di parte. E mi riferisco non solo agli interessi di parte espressi dalla politica, ma anche agli interessi economici. La Guardia di Finanza è un'arma letale. E' una macchina delicata, con le sue criticità, che deve essere tenuta al riparo da tentazioni. Siamo tutti uomini e viviamo immersi nello stesso contesto. Ma la Guardia di Finanza deve essere un'istituzione neutrale. E guardi che non sto parlando solo di un desiderio, ma di un progetto da coltivare quotidianamente".

E quando lei ha assunto il Comando che grado di "contagio" ha registrato?
"Ho avvertito degli schieramenti, delle fazioni. Come dicevo, inevitabilmente, gli ufficiali del Corpo sono funzionari dello Stato esposti. Ma proprio per questo, proprio per comunicare quel concetto di neutralità, non mi sono avventurato nel gioco delle appartenenze e delle opposte fazioni".

Che però esistono. Nella passata legislatura, la Guardia di Finanza di Roberto Speciale è stata uno snodo cruciale di un sistema di spionaggio illegittimo a fini politici che ha visto l'intelligence del Corpo, con il suo II Reparto, lavorare in perfetta osmosi con il servizio segreto militare diretto dal generale Pollari, ex capo di stato maggiore della Finanza. Non c'è stata vicenda cruciale della vita democratica del Paese, dalle scalate bancarie agli accessi abusivi alle banche dati tributarie, alla violazione del segreto istruttorio su notizie politicamente sensibili, che non abbia visto al lavoro dei finanzieri. Non crede che ignorare il problema e dire semplicemente che si volta pagina non sia sufficiente?
"Io non ero qui fino a sette mesi fa, e ho visto una volta sola il generale Pollari, cui, come gesto di cortesia, ho offerto un caffè nel mio ufficio. Io posso dire dunque cosa farò di qui a qualche settimana. La cosiddetta intelligence della Guardia di Finanza, il II Reparto, così come è stato conosciuto, non esisterà più. Sarà riorganizzato. La cosiddetta intelligence della Finanza si occuperà di analisi di fonti aperte, di analisi di banche dati, e terrà rapporti con i nostri ufficiali presenti all'estero nelle ambasciate. Lo spionaggio sarà fatto da chi istituzionalmente lo deve fare, i Servizi. La Guardia di Finanza farà polizia giudiziaria e tributaria, lotta all'evasione".

E il patrimonio di informazioni accumulato in questi anni che fine farà? E come sarà possibile ricostruirne l'uso che ne è stato fatto? Individuare i soggetti cui è già stato consegnato?
"Conosco da una vita e sono amico dell'ammiraglio Branciforte, nuovo direttore del Sismi. E insieme stiamo lavorando proprio a questa materia. Per altro, il Sismi ha cominciato a restituire al Corpo, anche se in numeri ancora molto esigui rispetto all'esodo d'origine - parliamo di una quindicina di effettivi, al momento - sottufficiali che erano transitati al Servizio nella precedente gestione. I finanzieri che rimarranno al Sismi saranno impiegati esclusivamente in attività di spionaggio e contrasto alla criminalità economica, ai grandi traffici illeciti. Le informazioni sin qui raccolte resteranno patrimonio del Corpo e delle sue banche dati, sotto la responsabilità del Comandante generale".

Perché siete stati reticenti sull'uso che è stato fatto nella precedente gestione dei fondi riservati?
"Non siamo stati affatto reticenti. Abbiamo semplicemente ricordato al Parlamento quali sono le procedure che governano l'uso di quei fondi. Che il comandante generale è responsabile dell'intero impiego delle somme in bilancio e che non esistono giustificativi di dettaglio di quelle spese. Oggi, insomma, io sono in grado, per il passato, soltanto di sapere quanto denaro è stato speso, da chi, per autorizzazione di chi e quando. E sono informazioni che, se mi verranno richieste dalla Procura militare di Roma o dalla Corte dei Conti, non avrò nessuna difficoltà a fornire. Detto questo, ho stabilito che d'ora in avanti, i fondi riservati vengano distribuiti per intero soltanto agli uffici periferici per contribuire a far fronte a spese che le nostre limitate risorse spesso non ci consentono di coprire".

In 4 anni, Speciale ha distribuito 500 encomi solenni, di cui hanno beneficiato 100 ufficiali. Non crede che questo sia sufficiente a predeterminare le carriere e dunque il futuro dell'intero Corpo. Ad assicurare continuità con la passata gestione?
"Le rispondo di no. E con assoluta certezza. Prima di Natale, varerò un piano di impiego che prevede l'avvicendamento di circa il 60 per cento degli ufficiali in posizioni di comando su tutto il territorio nazionale. E nelle decisioni che abbiamo preso in Commissione avanzamento, quegli encomi solenni cui lei fa riferimento non hanno pesato. Per un motivo molto semplice. Ne ho esaminato una per una le motivazioni e la legge di avanzamento non prevede che faccia carriera chi ha più encomi. Ma chi è più capace. Per altro, tengo a dire che, oggi, dopo sette mesi, i generali di corpo d'armata sono su questo punto assolutamente coesi con le mie posizioni. Le dirò di più. Ho detto che, personalmente, non darò più di un encomio solenne l'anno. E che quella decisione dovrà essere condivisa dal basso. Dai comandi territoriali".

Anche a Milano ci saranno avvicendamenti?
"Anche a Milano. Perché Milano non è diversa da altri comandi e deve dunque essere una piazza soggetta al naturale turn-over di qualunque altra importante città".

E' ancora convinto che il ponte aereo di spigole e gli elicotteri di Speciale, i voli assicurati ai politici siano, come ebbe a dire all'Espresso, episodi destinati a risultare "meno pregnanti di quel che appaiono"?
"Per noi, la storia delle spigole e dei voli è un terribile macigno che faticheremo a rimuovere. Le dico però che a me le spigole non piacciono e che se a Orvieto è più conveniente andare in macchina che in elicottero, vado in macchina, perché me ne frego dell'immagine. Detto questo, il ministro Padoa Schioppa mi ha chiesto di verificare le procedure che regolano i voli assicurati alle autorità, per renderle più stringenti e sobrie. E' una cosa che farò immediatamente. Tengo anche a dire che, come deciso circa due anni fa, stiamo ammodernando la flotta aeronavale, il che ci consentirà di renderla più efficiente e meno costosa, tagliandola del 40 per cento".

Il viceministro Vincenzo Visco è stato crocifisso per essersi azzardato a denunciare in solitudine nel palazzo della politica "anomalie" nel funzionamento della Gdf. Dopo quel che lei ha detto e promette di fare, aveva poi così torto?
"Il ministro Visco non è un passante. Ha la legittimità e l'autorità di chi è stato eletto democraticamente. Ha delle prerogative politiche che esercita e dunque il diritto di indicare, come ogni ministro, di qualunque colore sia il governo, delle priorità e degli obiettivi cui un comandante generale è tenuto a dare corso. Io ho avuto l'incarico di colmare il gap, il vuoto, che si era aperto tra l'Autorità politica e il Corpo. E sto lavorando per questo".


(19 dicembre 2007)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Giugno 06, 2009, 05:42:41 pm »

Se gli europei dicessero: Yes,we can


Un anno fa, di questi giorni, Barack Obama e Hillary Clinton si contendevano la candidatura alla Presidenza nel mezzo della più intensa e incerta campagna elettorale che si ricordi. Oggi l’America si presenta con volto, parole, atti, stile di governo, profondamente mutati: legalità costituzionale, risparmio energetico, apertura al mondo islamico, nuove relazioni con Cuba, bando alla tortura, avvio di riforme sociali. Futile arroganza, uso della paura, miopia hanno ceduto il passo a serietà, calma, ascolto, sguardo lungo. È scattato il meccanismo essenziale della democrazia: cambiare in modo pacifico una politica e un governo di cui il popolo è scontento.

Potrebbe accadere in Europa? Potremmo, tra un anno, riconoscere nell’elezione europea del 2009 una svolta nella storia del continente? Non lo impediscono nessuna maledizione divina e nessuna disposizione costituzionale.

Proviamo a immaginare. Appena insediatosi, in una mozione votata da tutti i suoi gruppi, il nuovo Parlamento dichiara che di fronte alla crisi, al disgregamento del mercato unico, al mutare degli equilibri mondiali, alla palese impotenza dei Paesi europei singolarmente presi, allo spreco di risorse insito nella frammentazione della spesa, un mutamento di rotta s’impone.

Il Parlamento decide due mosse. Primo, rivendica a se stesso la scelta del presidente della Commissione (e dei commissari). Poiché anche nell'Unione, come in ogni democrazia parlamentare, mai l'esecutivo potrebbe insediarsi senza un voto di fiducia, sappiano i primi ministri e il Consiglio europeo che — come per qualsiasi capo o re degli Stati membri — un annuncio non concordato con i rappresentanti eletti dal popolo verrà bocciato. Secondo, il Parlamento chiede un’immediata e radicale riforma del bilancio dell’Unione e quindi delle politiche comuni: spesa flessibile e discrezionale, nessuna rigida ripartizione per destinazioni nazionali, vere fonti di entrata europea, nuove risorse per attuare le politiche comuni previste dai Trattati e finora impedite dal Consiglio.

Le due mosse sconvolgono il modus operandi dell’Unione e ne bloccano il funzionamento: cessazione dei pagamenti e delle procedure, proteste dei destinatari della spesa, dimostrazioni di piazza. Il Parlamento non cede. Alla fine, dopo mesi di paralisi i governi, il Consiglio (il cartello dei non-volenti, l’immenso tavolo dove i ministri nazionali recitano le dichiarazioni preparate dai loro funzionari) capiscono che il gioco è cambiato, si rassegnano al costituirsi di un potere nuovo in Europa. Una paralisi totale di alcuni mesi è più intollerabile (ma meno dannosa) dell’emiparesi in cui l'Europa languiva da decenni. Qualche Paese che non ci sta decide di uscire dall’Unione, ottenendo di conservare i diritti acquisiti.

Non ci vorrebbe più di un anno. Non sarebbe una svolta storica più grande dell’unificazione politica dell’Italia o della Germania nel 19˚ secolo, o, nel 20˚, della rivoluzione d’Ottobre, dell’emancipazione coloniale e del crollo dell’impero sovietico. Se non accadrà, sarà solo per la pigrizia e l’indifferenza degli europei stessi.

Pochissimi ritengono che accadrà. Neanche io lo penso. Ma penso che questa eventualità sia auspicabile, che potrebbe accadere e forse un giorno accadrà, che i cittadini europei dovrebbero convincersene. E spero che persone con vocazione alla politica costruiscano le proprie fortune su di essa, così come in passato altri l’hanno costruita sulla conquista dell’unità d’Italia, o del suffragio universale, o dell’abolizione della schiavitù. Yes, we can.

Tommaso Padoa-Schioppa
06 giugno 2009

da corriere.it
« Ultima modifica: Maggio 03, 2010, 08:51:06 am da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #3 inserito:: Luglio 19, 2009, 04:45:36 pm »

L'editoriale

Le occasioni finora mancate


Nella nostra storia nazionale il 2009 vede la vera fondazione di due grandi partiti animati da una stessa e concorrente ambizione: governare l'Italia nei decenni a venire. Solo il tempo dirà se sono inizi fecondi o occasioni mancate, ma è adesso che l’importanza del fatto deve essere colta, dal politico di professione come da ogni cittadino responsabile. I partiti storici, cui i due neonati del 2009 subentrano, erano segnati da circostanze ormai scomparse da tempo: dominio di grandi ideologie, suffragio ristretto, ascesa del proletariato, italiani largamente analfabeti, senza scarpe ai piedi né acqua corrente in casa, emigranti a milioni.

Alcuni (il liberale, il repubblicano) avevano fatto il Risorgimento; uno (il socialista) le lotte sociali; uno, la riconciliazione dei cattolici con lo stato unitario; due (il fascista, il comunista) erano figli malati della democrazia, fautori tenaci di regimi totalitari, divenuti membri legittimi della famiglia democratica solo dopo decenni perduti, non prima del 1945 e del 1989, grazie all’opera educatrice dell'Unione europea. Il contesto storico è nuovo, i mali dell'Italia antichi: occorrono forze nuove per affrontarli. Guai a fare dell’anagrafe una discriminante, novità e giovane età sono cose diverse: Giovanni XXIII divenne Papa alla soglia degli 80 anni e il doge veneziano che conquistò Costantinopoli aveva superato i 90.

E tuttavia colpisce che, diversamente da quelli di oggi, i fondatori di ieri — i Turati, i Gramsci, gli Sturzo, i Mussolini — ponessero fondamenta all’alba e non al tramonto della loro esperienza politica. L'osservazione, si badi, dice di più dell'accidia dei giovani che della pervicacia dei vecchi. Occasioni mancate o inizi fecondi? A sinistra, fu di certo occasione mancata l'avvio del Pd nel 2007, quando invece di applicarsi alla costruzione del nuovo partito la sua guida abbatté il governo Prodi, disciolse la coalizione vincitrice del 2006 e restituì il potere all’opposizione. A destra, tarda la costruzione di un partito vero, di cui il capo del governo diventi il prodotto piuttosto che il produttore. Fa difetto a entrambi la chiarezza su punti fondamentali come il finanziamento, l'accesso, le regole interne.

L'opera da svolgere è enorme. Essa abbraccia quattro materie, bisognose di analisi distinte, ma ugualmente indispensabili a una formazione politica duratura. Ideologia: non ritratti di padri e nonni alle pareti, bensì principi resistenti al mutare delle circostanze, per istituzioni, democrazia, giustizia, laicità, economia, socialità, Europa, relazioni col mondo. Organizzazione: tesseramento, militanza, democrazia interna, finanziamenti. Linea politica: alleanze, programma, proposte per affrontare, oggi e nella prossima legislatura, questioni quali l'illegalità e la crisi finanziaria. Leadership: chi deve guidare il partito, con che criterio fare la scelta, che relazioni tra partito e capo del governo.

Partiti che aspirino a governare l'Italia in modo non effimero devono plasmare quelle quattro materie in modo nuovo, chiaro, convincente, che guardi, sì, all'oggi, ma ancor più al dopodomani. Seppero farlo i migliori tra i partiti di ieri. Solo questo aspetta una generazione nuova di italiani nati e cresciuti nella repubblica o in essa giunti da paesi e culture diverse, spesso ostili alla politica e ai partiti, educati nell’epoca della scuola e della televisione di massa, assetati di legalità e di riconoscimento del merito.

Tommaso Padoa Schioppa

19 luglio 2009
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #4 inserito:: Agosto 02, 2009, 03:58:49 pm »

L’USCITA DALLA CRISI E LA SUA EREDITÀ

Si crescerà a basso regime


Il vocabolario dell’eco­nomia torna a parole gradite: finisce la re­cessione, inizia la ri­presa, il peggio è passato. Dal dicembre 2006, quan­do, quasi inosservato, si ar­restò un principale motore dell’espansione economi­ca mondiale (la bolla im­mobiliare, ossia l’ascesa ir­ragionevole dei prezzi del­le case in America), non è la prima volta che si parla di «uscita dalla crisi». Ma che significato dare a una tale espressione?

Affermare che si è pros­simi al punto in cui l’eco­nomia riprende a crescere è nello stesso tempo azzar­dato e fuori luogo. Azzar­dato perché i cosiddetti punti di svolta sono sem­pre difficili da individuare, e lo sono soprattutto quan­do il convalescente organi­smo economico è talmen­te debole da poter ricadere in catalessi anche per fatti irrilevanti in circostanze normali: le perdite di una banca, la chiusura di un’im­presa, un nuovo scandalo finanziario. Fuori luogo perché interpretando gli at­tuali movimenti dell’eco­nomia come fasi di un ci­clo economico, parlando perciò di recessione e di ri­presa, si fraintende il signi­ficato di ciò che sta avve­nendo. La crisi riguarda la crescita, il debito e la strut­tura dell’economia, non il suo andamento ondoso.

Non possiamo capire il dopo- crisi se non capiamo il prima , che conviene dun­que ricapitolare. La bolla immobiliare aveva spinto l’intero mondo in una cor­sa che pareva senza fine. I proprietari di case credeva­no, soprattutto in Ameri­ca, che i prezzi sarebbero saliti sempre e, credendosi in possesso di una vena au­rifera, s’indebitavano e spendevano. Spendevano per beni fabbricati da ope­rai istruiti e poco pagati di Paesi asiatici, i quali accu­mulavano — in cambio — titoli in dollari emessi in abbondanza dal governo Usa. La finanza si arricchi­va in un giro di denaro in cui i Paesi poveri prestava­no ai ricchi. La percezione del pericolo era offuscata dall’insensata credenza che potesse continuare co­sì, dal mito della razionali­tà del mercato e da inge­gneri finanziari che inven­tavano prodotti e circuiti nei quali il rischio sembra­va scomparire dal sistema come la donna dall’arma­dio del prestigiatore.

Più di una volta, nei pas­sati vent’anni, simili bolle speculative si erano forma­te ed erano poi scoppiate: prima delle case, i titoli hi­gh tech ; prima ancora, il debito dei Paesi emergen­ti. Ma il buio creato dallo spegnersi di un botto veni­va illuminato poco dopo dall’accendersi del succes­sivo e ogni volta si ripren­deva l’andazzo, passando da una bolla a un’altra.

Sarà così anche ora? Commetterebbe un errore chi lo ritenesse possibile o l’auspicasse: sia esso gover­no, banca centrale, impre­sa o famiglia. Uscire dalla crisi significa arrestare la caduta, non però tornare sulla strada che ha portato al baratro.

Quello immobiliare è, dovrebbe essere, il gran bengala, il botto finale. La crisi pone al centro delle preoccupazioni la riduzio­ne del debito, non più la ri­presa del consumo. Certo, la produzione dei Paesi ric­chi cesserà di precipitare e per ciò stesso riprenderà a crescere. Certo, l’econo­mia mondiale dispone di altri motori, dei quali pure converrà parlare. Ma sarà crescita lenta, frenata dalla riluttanza a fare nuovi debi­ti e dalla necessità di ridur­re quelli vecchi. Ci vorran­no anni per smaltire il pas­sato. E tutta l’economia mondiale risentirà del bas­so regime a cui girerà il motore dei Paesi ricchi.

Per la politica economi­ca la vera sfida inizia nel momento della ripresa. Il difficile viene adesso.

Tommaso Padoa Schioppa
02 agosto 2009
da corriere.it
« Ultima modifica: Marzo 15, 2010, 09:42:02 am da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #5 inserito:: Settembre 20, 2009, 06:32:56 pm »

 2011, CHE COSA VA CELEBRATO

Si parli di Stato, non di nazione


Ricordo le celebra­zioni di Italia 1961: in un Paese giovane e laborio­so crescevano il benessere e la democrazia. Lo studio del farsi dell'unità d'Italia, ripetuto alle elementari, al­le medie e al liceo aveva co­stituito in me, come in mol­ti, la struttura stessa del pensarmi come cittadino. Fui inorridito, trent'anni dopo, quando constatai che in un illustre liceo di Roma il capitolo sul Risor­gimento, uno solo dell'im­menso manuale adottato, era tra quelli che non si chiedeva agli allievi di stu­diare.

Il terzo cinquantenario si celebra in un momento assai più buio non solo del secondo, ma anche del pri­mo, segnato dalle riforme giolittiane. Oggi ministri che hanno giurato sulla Co­stituzione annunciano la se­cessione senza che alcuno strale li colpisca in modo immediato e diretto. Chi ta­ce acconsente. Per il 2011 sono previste, oltre che opere pubbliche, iniziative storico-culturali. E poiché se ne cerca tuttora il filo conduttore, oso una proposta.

Bisogna chiarire bene l'anniversario che sarà cele­brato; finora il dibattito pubblico ha del tutto man­cato di farlo. Nel 2011 si ce­lebrerà non la nascita della nazione italiana (un fatto di cultura), bensì la fonda­zione dello Stato italiano (un fatto politico e istituzio­nale). La nazione esiste dal Medioevo, precede addirit­tura il formarsi della tede­sca, francese, spagnola, bri­tannica. La lingua parlata oggi in Italia assomiglia a quella di Dante come nessu­na lingua europea assomi­glia al suo progenitore del XIII o XIV secolo. E ha seco­li di storia non solo la nazio­ne, ma anche la coscienza di essa da parte degli spiriti illuminati: basta rileggere Dante, Petrarca, poi Machia­velli.

Soltanto dopo secoli di divisione, asservimento, de­cadenza materiale e civile, crebbe e si realizzò l'idea di dare all'Italia uno Stato, isti­tuzioni, leggi, poteri. La pe­culiarità della storia italia­na non è la nascita recente della nazione, è la combina­zione di una nazione preco­ce e di uno Stato tardivo. Finalmente, nell'Ottocen­to, lo Stato italiano nasce e nel 2011 è dunque di questo che si deve parlare. Tanto più che molta, molta mate­ria ci impone di riflettere, di compiere un esame di co­scienza, di correggere com­portamenti e istituzioni. Nell'Italia di oggi ce n'è per ogni regione e per ogni ce­to, per la parte pubblica e per la privata.

Tutte le celebrazioni del 150˚dovrebbero ruotare, a mio giudizio, intorno a un solo grande tema: lo stato dello Stato italiano . È que­sto — oggi, ma in realtà da tempo — l'organo malato dell'Italia, quello la cui pato­logia sta facendo deperire l'intero corpo sociale, l'eco­nomia, la terra e le acque, la cultura, la scienza, il rap­porto con la sfera religiosa. Non è un'esagerazione af­fermare che dei 150 anni trascorsi dal 1861 forse la metà sono stati consacrati alla costruzione dello Stato italiano; altrettanti a una ve­ra opera di distruzione che si è fatta più intensa negli ultimi decenni e ancor più negli anni recenti. È una du­ra affermazione che può (e dovrebbe) essere documen­tata in modo specifico pro­prio all'avvicinarsi dell'anni­versario al fine di preparare un riscatto. Sono ormai gravemente minacciati la democrazia, principi fondamentali del­lo Stato di diritto, la preser­vazione del patrimonio arti­stico, l'ambiente naturale, il fatto stesso di essere uno Stato unitario. Lo Stato, non la nazione, è e deve essere il tema di Italia 2011.

Tommaso Padoa-Schioppa
20 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #6 inserito:: Dicembre 10, 2009, 10:30:33 am »

LA FINE DELL’INTERVENTO PUBBLICO NELLA CRISI

Come scegliere il momento giusto

Exit strategy è il no­me anglo- latino della questione og­gi più discussa e più ardua nel dibattito co­smopolita sulla crisi. Si tratta di scegliere il mo­mento giusto per qualcosa che deve avvenire. Ma da che cosa si deve uscire, e perché la questione è tan­to ardua?

Da oltre un anno gover­ni e banche centrali pom­pano la spesa pubblica e privata per arrestare la ca­duta della produzione: di­latazioni smisurate dei de­ficit di bilancio e della mo­neta e azzeramento dei tas­si d'interesse. Poiché la ca­duta sembra cessata, ora ci si interroga se sia il mo­mento di «uscire» da quel­le misure per riportare sot­to controllo bilanci pubbli­ci e moneta. Nell’acme del­la crisi, infatti, l’economia è stata curata con gli stessi veleni che l'avevano intos­sicata, mentre è chiaro che può guarire solo liberando­sene.

Ogni errore nella scelta dei tempi può essere fata­le, come per i trapezisti che devono afferrarsi al vo­lo nel circo. Un’uscita pre­matura può precipitarci in una nuova caduta, come fu per l'errore che negli anni Trenta trasformò la reces­sione in depressione. Ma continuare nell'espansio­ne monetaria provoca (an­zi, forse ha già provocato) nuove euforie speculative e pericoli d'inflazione; mentre appesantire ancor più il debito inquieta il mercato e può accelerare la caduta del dollaro.

Cogliere l'attimo fuggen­te dell' exit significa, se non evitare anni difficili, al­meno sottrarsi al dilemma se prolungare questa crisi o generare la prossima.

La scelta del momento è ancor più ardua per il fatto che diversi trapezisti devo­no coordinare (coordina­re, non sincronizzare) le lo­ro uscite dalla scena. Devo­no farlo i Paesi : Europa, Asia, Stati Uniti possono sospendere contemporane­amente gli stimoli alla cre­scita o devono farlo in tem­pi diversi? L'azione di uno ha effetti sugli altri e ognu­no vorrebbe che gli altri continuassero a espandere mentre lui inizia a frenare. E devono coordinarsi le po­litiche : la moneta e il bilan­cio vanno normalizzati contemporaneamente o di­sgiuntamente e, in tal ca­so, secondo quale ordine?

Non solo: coordinare le mosse sarebbe già difficile per un onnipotente regista che desse i comandi da die­tro le quinte. Lo è ancor di più perché il regista non c'è e i trapezisti (i Paesi e le banche centrali) hanno un tale concetto della propria indipendenza da ritenersi minacciati dal concordare alcunché con alcuno: ognu­no crede di sapere che co­sa dovrebbe fare l'altro e dall'altro non vuole sentire consigli.

Infine: è difficile coordi­nare le mosse perché a det­tare il momento giusto dell'azione non è più il me­tronomo di una crisi in at­to (il panico, la caduta pro­duttiva) ma solo l'idea chia­ra di un approdo sicuro e l'accettazione del costo per arrivarci.

Purtroppo oggi esponia­mo soprattutto dubbi e pe­ricoli, mentre al lettore vor­remmo comunicare qual­che certezza e qualche ri­medio. Ma possiamo alme­no enunciare un criterio.

Il criterio è questo: nes­sun approdo è sicuro se ri­guarda solo le economie singolarmente prese igno­rando le interdipendenze tra esse, se trascura il fatto che di fronte alle sfide di oggi il mondo è uno. Nulla ce lo ricorda con tanta for­za quanto il tema del clima che occupa la riunione in corso a Copenaghen. Ma lo stesso vale per la mone­ta, per il commercio, per le migrazioni, per la stabilità finanziaria, per la sicurez­za.

Tommaso Padoa Schioppa

08 dicembre 2009(ultima modifica: 09 dicembre 2009)© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
« Ultima modifica: Gennaio 17, 2010, 10:32:38 pm da Admin » Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #7 inserito:: Gennaio 17, 2010, 10:33:03 pm »

Le banche e la crisi

Chi non paga per gli errori


Mentre le fabbriche chiudono e i lavoratori perdono il posto, le banche, vere responsabili della crisi, fanno profitti; li fanno dopo essere state salvate dai contribuenti e li devolvono in gran parte a se stesse sotto forma di lauti guadagni per dirigenti e amministratori; nello stesso tempo rifiutano il credito alle imprese e, obbligandole a chiudere e a licenziare, affossano l'economia. Sono accuse note; le ripete anche il presidente Obama.

Come non farsi travolgere da simili accuse indirizzate a unmestiere già impopolare prima della crisi? Invece bisogna ragionare e non farsi travolgere. E se il ragionare comincia col distinguere, occorre esaminare le accuse una per una.

Oggi guardiamo ai salvataggi bancari, questione bruciante perché il denaro usato era del contribuente. Si noti che i salvataggi — cerniera tra il prima e il dopo crisi— sono avvenuti soprattutto in Paesi orgogliosamente predicanti le virtù magiche della proprietà privata e del mercato libero: Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Olanda; non in Italia, dove le banche si sono rafforzate con capitali privati. Si noti anche che il tema va tenuto distinto da altre questioni riguardanti il modo in cui le banche si conducono oggi coi loro debitori, nel mercato finanziario, nel compensare dirigenti e amministratori: questioni su cui occorrerà tornare e che riguardano tutte le banche, non soltanto quelle in cui lo Stato ha immesso capitale.

È, era, giusto salvare le banche? In condizioni normali la risposta è no. Se è cronicamente incapace di fare utili, qualunque impresa, anche se banca, deve uscire dal mercato perché, invece di creare, distrugge ricchezza. Il fallimento è un modo di uscire, non l'unico né sempre il migliore; altri sono il passaggio di proprietà o la rilevazione da parte di un concorrente.

Le condizioni del 2008, però, non erano normali; stava crollando non una banca, ma la funzione bancaria stessa; e le perdite erano spesso un fatto momentaneo dovuto a cattiva gestione o a panico, non un indebolimento irrimediabile. Se la moneta cessa di circolare e nessuno fa più credito ad alcuno, ogni economia basata sullo scambio (dunque, nel mondo di oggi, tutte le economie) crolla e ricostruirla è arduo. Il perdurare del panico avrebbe moltiplicato a dismisura le vittime innocenti: risparmi e posti di lavoro perduti.

In quelle circostanze l'interesse a salvare le banche era generale, prima che dei banchieri.

Non solo: per il contribuente che lo paga, il salvataggio è per lo più un buon affare, non una perdita. Ciò che egli compera vale assai più del bassissimo prezzo pagato ed è destinato a rivalutarsi. I giganteschi utili che la banca centrale americana ha appena annunciato ne sono la riprova: e le banche centrali devono sapere (ma qualche volta lo dimenticano!) che i loro utili sono destinati non a se stesse ma alle casse dello Stato.

Salvare sì, dunque; ma chi? Chi tra azionisti, amministratori, dirigenti, impiegati, depositanti, debitori? Mentre in un fallimento puro la risposta sarebbe «nessuno», in un salvataggio non può essere «tutti». Almeno i primi tre dei sei soggetti elencati dovrebbero perdere soldi e funzioni.

È da deplorare che ciò non sempre sia avvenuto. Ma nei casi in cui non è avvenuto, la critica va rivolta al salvante più che al salvato. Spettava al potere pubblico distinguere tra continuità della banca e discontinuità della sua proprietà e del comando.

Tommaso Padoa-Schioppa

17 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #8 inserito:: Febbraio 16, 2010, 07:44:37 pm »

LA CRISI DI ATENE RIDISEGNA L’UNIONE

La sovranita’ in movimento

La crisi greca durerà a lungo, e a lungo la studieremo. Il suo esito trasformerà l'Unione europea. Sue poste sono, più che la finanza e la stabilità, la sovranità e la democrazia: non in Grecia solamente, ma in ogni Paese e nell'Ue in quanto tale.

La dichiarazione emessa l'11 febbraio dai Capi di Stato o di governo è un lapidario concentrato di antinomie: responsabilità comune, ma doveri degli Stati; misure già decise da Atene, ma altre che la Commissione proporrà; azione «determinata e coordinata » dei Paesi dell'euro, ma nessuna richiesta greca di sostegno finanziario; riferimento al Fondo monetario internazionale, ma per far capire che non sarà esso a intervenire. Il Financial Times parla con malumore di «ibrido maldestro», ma le antinomie sono coerenti, anche se dirompenti: la Grecia non è più unica sovrana in casa sua, il sovrano europeo è entrato nei suoi confini e con essa governerà. La Grecia va sostenuta, ma non riceverà regali.

A malincuore l'Unione ha accettato di essere il sovrano capace, ma è ben conscia che il sovrano legittimo risiede per convenzione ad Atene. Questo ha riconosciuto la propria impotenza, ma deve rendere legittime le misure che la situazione impone e assumersene la paternità. La democrazia obbliga Papandreu a fare accettare l'austerità a quello stesso popolo sovrano che solo pochi mesi fa aveva blandito con promesse impossibili.

Ma nello sfondo vi sono un altro sovrano e altri «elettori »: un mercato, che ha la forza di travolgere una nazione quando sente l'odore del sangue e quella di esaltarla quando è inebriato dall'euforia. E’ un sovrano senza legittimità politica e spesso senza saggezza economica; bestia che però solo un sovrano economicamente più saggio e politicamente forte può domare. Il governo greco non è stato all'altezza; ora ci prova l'Unione.

Negli anni '80 e '90 economisti illustri sconsigliavano l'euro perché «senza unione politica non può esserci moneta unica»; i governi volevano l'euro come passo verso l'unione politica. Conclusioni opposte tratte da una stessa verità.

Anni fa parlai di «euro, una moneta senza Stato» per segnalare l'anomala condizione in cui operava la Banca centrale europea e il pericolo di compiacersene. La storia si muove zoppicando nelle contraddizioni, ma alla lunga deve ricongiungere moneta e Stato: non come Leviatano centralizzato dentro e arcigno fuori, secondo il nazionalismo giacobino; ma come «organizzazione potestativa sovrana dotata di poteri coercitivi», secondo Sartori.

Per vent'anni lo spazio tra moneta e Stato europeo è rimasto aperto, anzi si è allargato. Ma quando la crisi, invece di un'impresa o una banca, ha colpito un Paese e minacciato l'euro si è cominciato a capire che non si poteva più fare a meno dello «Stato dell'euro». La Germania ha capito che non aveva alcun senso intervenire per una Landesbank o un impianto della Opel e considerare cosa altrui il debito greco.

Per secoli i confini del potere sovrano furono tracciati da guerre e matrimoni dinastici. Ora intervengono il mercato e la politica.

Tommaso Padoa-Schioppa

15 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #9 inserito:: Marzo 15, 2010, 09:42:42 am »

DOPO LA CRISI UNA FASE NUOVA

Prova d'orchestra o governo europeo


Quando Angela Merkel e Nicola Sarkozy hanno insieme invocato, dal podio di Bruxelles, un «governo economico europeo » gli spasmi dell’Europa, vittima potenziale di una crisi causata da altri, sono divenuti evidenti. Che fosse minacciata l’Unione stessa si poteva fingere di ignorarlo finché erano colpiti una banca, un settore industriale, o uno Stato vicino; non più ora che vacilla un Paese dell’euro. Lo si capisce particolarmente in Germania, il Paese che, rinunciando al marco, ha posto la propria sicurezza monetaria nelle mani dell’Europa (un passo che la Francia non ha ancora saputo fare con l’arma nucleare); il Paese che, bocciando la candidatura di Blair, ha assunto la leadership europea dopo un decennio di egemonia britannica.

Ora, se vogliamo che, tra i molti possibili, prevalga l’esito migliore dobbiamo interpretare il corso storico che produce lo spasmo e definire correttamente i compiti del «governo economico europeo». Per farlo occorre capire che finisce la fase, iniziata un quarto di secolo fa, in cui il progetto europeo, in contraddizione coi Trattati fondatori, si esauriva nel mercato unico. Un mercato unico nel quale l’intervento pubblico veniva bandito dalle competenze europee anche in campi previsti dai Trattati dove l’Unione poteva far risparmiare soldi e guadagnare efficacia (energia, ricerca, trasporti e altri). Il mercato doveva essere europeo, ma l’intervento pubblico ridiventava monopolio nazionale. Onde l’asfissia del bilancio dell’Unione, il no al piano Delors del 1992, il no agli eurobonds.

L’Unione regrediva a coordinatore di politiche nazionali, non era attore in proprio. Non strumenti europei di politica economica, ma concerto degli strumenti nazionali: un concerto senza spartito e senza direttore che emetteva cacofonie peggiori di quelle immortalate da Fellini in Prova d’orchestra. Si diffondeva l’assurda pratica in nome della quale Bruxelles compensava l’assenza di competenze proprie ficcando il naso in quelle altrui, ben più di come faccia un vero governo federale; pratica senza costrutto perché, al dunque, i coordinandi decidevano di non darsi reciprocamente fastidio e producevano solo impotenza e discredito per l’Unione stessa. Ironia della sorte, la strategia del «mercato soltanto » ha infine minato il mercato stesso. Un numero crescente di direttive europee definisce l’armonizzazione necessaria come la libertà per ognuno di fare quello che vuole, legittimando regole nazionali che discriminano lo straniero. Quale ministro, ho dovuto recepire nell’ordinamento italiano norme europee autorizzanti pratiche protezionistiche che le leggi italiane vietavano: l’Europa m’imponeva non l’apertura ma la chiusura delle frontiere!

Oggi la crisi minaccia di morte proprio il mercato e siamo al bivio tra coordinamento e vero governo economico dell’Unione. Questo avrà un senso e sarà efficace solo se doterà l’Ue di competenze e strumenti propri, come i Trattati prevedono. Non solo una effettiva applicazione del patto di Stabilità che ponga fine all’indulgenza reciproca, ma anche iniziative quali un programma europeo di investimenti finanziati con obbligazioni dell’Unione, una riforma del bilancio che riduca la spesa nazionale e aumenti (meno che proporzionalmente) quella europea, una tassa europea sulle emissioni di carbonio, una vigilanza finanziaria realmente europea, una vera politica dell’energia.

Tommaso Padoa-Schioppa

14 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #10 inserito:: Maggio 02, 2010, 11:19:12 am »

L'europa e la crisi greca

La linea d’ombra tedesca


A giorni il governo tedesco proporrà al Parlamento il prestito alla Grecia. Lo farà nonostante che i mercati continuino a scommettere sul mancato rimborso; che le agenzie di rating la declassino proprio quando Atene approva misure severissime; che illustri economisti esortino la Grecia a non ripagare i suoi debiti (la «ristrutturazione ordinata») o addirittura a uscire dall'euro. È stupefacente che mercati, agenzie, cosiddetti tecnici ancora godano di tanto credito dopo che la crisi ne ha crudamente svelato miopie, errori e conformismi. Smentendo le profezie, Angela Merkel proporrà il prestito e il Bundestag l’approverà. Eppure entrambi sanno che l’80 per cento dei tedeschi (blanditi dai quotidiani popolari, ma anche da autorevoli commentatori) non lo condivide.

In questo clima, sono ben pochi coloro che rinunciano a impartire lezioni alla Germania, a incolparla, se non proprio dei guai greci, almeno dell’aggravarsi della crisi. È vero, questa minaccia direttamente la Germania, la sua moneta e le sue banche: se la Grecia fosse abbandonata al suo destino le conseguenze più catastrofiche sarebbe forse proprio lei a subirle. È vero, le incertezze di Berlino hanno incattivito i mercati e reso forse più costoso il salvataggio. È vero dunque che — in termini economici — sostenere la Grecia è non generosità,ma bene inteso interesse. E tuttavia proporre e approvare il prestito è un atto di grande coraggio politico e non può stupire che sia stato arduo arrivarci. È venuto dunque il momento di aiutare il lettore italiano a capire le buone ragioni della Germania.

Nessun paese dell’Unione ha mai compiuto una rinuncia alla propria sovranità altrettanto grande di quella che ha accettato la Germania con l’euro. Rinuncia dolorosissima, se si pensa che i tedeschi hanno un ricordo drammatico della grande inflazione e che proprio il marco forte ha ridato loro morale nel dopoguerra. Ed è falso il luogo comune secondo cui quella rinuncia fu il prezzo della riunificazione: quando Kohl lanciò il progetto della moneta unica nessuno immaginava la caduta del Muro. Nessun paese dell’Unione ha preso l’imperativo dell’eccellenza e della competitività (la cosiddetta Strategia di Lisbona) tanto sul serio quanto la Germania: possiamo incolparla di raccoglierne i frutti? Nessun movimento sindacale in Europa ha scelto con altrettanta lucidità di privilegiare la piena occupazione rispetto agli incrementi salariali: magari sapessimo fare lo stesso in Italia.

Nessun grande paese industriale ha accettato, come la Germania, i vincoli di una crescita economica mondiale che sia sostenibile sotto il triplice profilo economico, sociale e ambientale: sobrietà nei consumi opulenti, risparmio di risorse naturali, energia pulita, contenimento della spesa pubblica, pace sociale. E infine, c’è la lezione che la Germania ha impartito a se stessa dopo la tragedia del nazismo e della guerra: fai il tuo dovere in casa tua e non aspirare mai più a guidare il mondo. Il mondo no, ma l’Europa ormai sì. Senza leadership l’Europa non avanza, rischia anzi di distruggersi. La guida tedesca dell’Europa è nei fatti: ignorarlo sarebbe per Berlino solo un modo errato di esercitarla. Nella crisi greca di queste settimane forse la Germania ha superato, come il giovane capitano del romanzo di Conrad, la sua linea d’ombra.

Tommaso Padoa-Schioppa

01 maggio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #11 inserito:: Agosto 14, 2010, 03:50:58 pm »

LA VIA D’USCITA DALL’INSTABILITA'

La politica curi la politica

Un governo tecnico rappresenterebbe il contrario della soluzione politica di cui c’è bisogno



Gli italiani torneranno al lavoro tra pochi giorni senza sapere se il governo ritroverà una maggioranza per continuare, se ne nascerà uno nuovo con diversa maggioranza, o se saranno presto richiamati a votare. Sentono parlare di governo tecnico, o istituzionale, o di larga alleanza, senza che sia chiarito il significato di queste assai diverse formule. Ignorano le formazioni politiche, le coalizioni, i candidati, i programmi tra i quali dovrebbero eventualmente scegliere.

Instabilità e incertezza non nascono da disaccordi in campi, pur importantissimi, di politica ordinaria: scuola, disoccupazione, servizi pubblici, sicurezza dei cittadini. Ancor meno, però, nascono da un semplice scontro di personalità e di potere. Le questioni da cui nascono sono più, non meno, fondamentali della politica ordinaria: contrappongono diverse concezioni dello Stato, della politica, della legalità. Che dividano uno schieramento (il centrodestra vittorioso nel 2008, ma potrebbe essere accaduto al centrosinistra) non deve sorprendere perché trattasi di questioni diverse da quelle segnate dallo spartiacque destra-sinistra: hanno, nella sostanza, natura costituzionale.

È possibile che le differenze si ricompongano, come è avvenuto in passato tra quelle stesse forze e quelle stesse persone. Ma non è facile che ciò avvenga senza imponenti sforzi e rinunce, perché si tratta di differenze che vivono, per così dire, di vita propria e vanno molto al di là delle lotte personali e di potere con cui le si rappresentano. Al contrario delle deboli scosse di assestamento che dopo il 1948 hanno accorciato la vita dei governi della Prima Repubblica lasciando intatte struttura del potere e direttrici di fondo, qui si muovono faglie profonde: la legalità, lo Stato di diritto, l’architettura dello Stato, il funzionamento delle istituzioni e della democrazia.

Che cosa auspicare se la ricomposizione non avvenisse?

Due esiti sarebbero, a mio giudizio, davvero infausti per il Paese: le elezioni immediate e il cosiddetto governo tecnico. Infausti perché sarebbero due fughe dell’intera classe politica dalla sua vera responsabilità, perché porrebbero il problema in mani sbagliate e inadatte a risolverlo, siano esse quelle di un tecnico o dell’elettorato.

Elezioni subito sarebbero un pericoloso abbandono del Paese a se stesso da parte delle istituzioni e della classe politica in uno di quei momenti in cui massimo è il bisogno di guida: sarebbe quasi un 8 settembre. Che lo si voglia o no, questioni di natura costituzionale trascurate per decenni si sono affacciate sul proscenio e sono divenute le più urgenti: non solo la legalità e lo stato di diritto; anche il federalismo, la libertà e l’indipendenza dell’informazione, i poteri rispettivi dell’Esecutivo, del Legislativo e del Giudiziario. Sono questioni trascurate da chi governa oggi e da chi ha governato ieri e l’altro ieri. I cittadini se ne rendono conto, la classe politica le deve affrontare. Non dimentichiamo i casi storici in cui il tentativo di risolvere uno stallo politico con elezioni a ripetizione, tenute in un Paese disorientato e privo di un’informazione indipendente, è stato fatale alla democrazia.

Un governo tecnico — cioè un governo incaricato di non affrontare i nodi che ora si stringono— sarebbe una fuga altrettanto infausta, il contrario della soluzione politica di cui c’è bisogno. Certo che la fragilità della nostra situazione economica e finanziaria non va persa di vista nemmeno per un minuto. Ma proprio per questo occorre sapere che il rischio di perdere improvvisamente la fiducia dei mercati l’Italia lo corre a causa della sua debolezza e ambiguità politico-istituzionale, non della sua condizione economico- finanziaria.

La chiarificazione costituzionale di cui il Paese ha urgente bisogno deve e può essere compiuta in questa legislatura e da questo parlamento. Compierla spetta all’intera classe politica. L’Italia è una repubblica parlamentare. Ciò significa che il parlamento ha il dovere di fare ogni sforzo per esprimere una maggioranza in grado di riconoscere e affrontare i problemi dell’ora. Questo dice la nostra Costituzione; e nei momenti più difficili e incerti è la Costituzione che si deve leggere, non il modo in cui la si è raccontata.

Gli italiani tutti hanno eletto un parlamento, prima e più che una maggioranza. I parlamentari non sono soggetti a vincolo di mandato (articolo 67 della Costituzione). Dichiarare illegittima una situazione nella quale una maggioranza parlamentare si proponga di affrontare le questioni più gravi e più urgenti del Paese e di sostenere un governo che opera sotto il controllo delle Camere, contraddice in pieno la Costituzione. Le questioni più urgenti—tanto urgenti da aver causato una forse temporanea rottura della stessa maggioranza — devono essere affrontate ora, e con l’unità sostanziale di intenti necessaria alla loro soluzione.

Il momento in cui i cittadini vanno a votare è il più alto di una democrazia; tanto che ne hanno bisogno, per mascherarsi, perfino i peggiori regimi autoritari. Questo passo non va né svilito, né abusato; alla classe politica non deve essere consentito di scaricare sul popolo le proprie inadempienze, magari solleticandone i pregiudizi antipolitici.

Il ritorno al voto verrà e dovrà avere la funzione solenne che gli compete. Ma al popolo il ceto politico ha il dovere di riportare un’urna di cui abbia ricomposto i cocci che esso stesso ha rotto.

Nelle pagine che un tempo dedicavano alla politica, i giornali ora parlano di interessi privati nell’esercizio di pubbliche funzioni, di legami di politici con mafia e camorra, di affari lucrati sulle disgrazie naturali, di campagne giornalistiche montate per colpire l’avversario del momento, di minacce di sempre nuove rivelazioni e di altro ancora. Il serio confronto politico che è in atto su questioni della massima importanza ne risulta svilito e opacizzato.

Si vede uno spettacolo orrendo al quale bisogna avere la forza di contrapporre una chiara e semplice consapevolezza: solo la politica potrà guarirci dai mali della politica, solo la buona politica potrà scacciare la cattiva.

Tommaso Padoa-Schioppa

14 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_14/padoa-schioppa-politica-curi-politica_503d1318-a764-11df-9159-00144f02aabe.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #12 inserito:: Ottobre 03, 2010, 12:12:38 pm »

LE NUOVE REGOLE EUROPEE DI STABILITÀ

Tre parole per un patto


MILANO - Nel marzo scorso il presidente Sarkozy e il cancelliere Merkel, da podi affiancati, invocarono un «governo economico» per l'Europa. L'invocazione fu accolta dall'intero Consiglio europeo dopo solo tre mesi; ma chi leggeva il comunicato ufficiale scopriva che nelle principali lingue dell'Unione il concetto era espresso con tre parole diverse, di forza decrescente (Gouvernement, Governance, Steuerung). Ora la Commissione propone come tradurre quel concetto in regole, procedure, poteri, sanzioni.

L'impianto è questo: le regole di bilancio restano quelle del Patto di stabilità, ma il debito pubblico (sotto il 60 per cento) - finora trascurato - assurge alla stessa importanza del deficit (sotto il 3); si rafforzano i meccanismi di controllo e le sanzioni; alla disciplina di bilancio si aggiunge una politica di prevenzione e correzione degli squilibri macroeconomici; si fa più autonomo il potere della Commissione e più difficile il boicottaggio del Consiglio.

Le proposte sono complesse e occorre guardarsi dai giudizi affrettati; tanto più che non sappiamo con quali modifiche diverranno norme, né come le norme saranno poi applicate. Suggerisco questa linea di giudizio e di condotta negoziale: si lavori sull'impianto proposto cercando di trarne il massimo, ma nello stesso tempo si pongano in essere, anche se in forma embrionale, gli strumenti di un vero governo economico europeo, indirizzandoli al sostegno della crescita: bilancio dell'Unione, una tassa europea, eurobonds, uso attivo del nuovo Fondo di Stabilità Finanziaria.

I limiti dell'impianto sono evidenti. Ho altre volte sostenuto che una politica economica europea fondata sul mero coordinamento è nello stesso tempo troppo debole e troppo ambiziosa. Debole, perché minata dal fatto che sono i giudicati ad essere giudici, soprattutto quando la Commissione si lasci da essi intimidire. Ambiziosa, perché neppure là dove una vera federazione esiste, il governo federale ha un potere di coordinamento sulle politiche dei federati (si chiamino Stati, Länder, Province o Regioni). Quello che si propone ora è, forse, sì un governo europeo, ma - a differenza della moneta - un governo privo di strumenti europei, affannato a indirizzare strumenti e variabili nazionali, quali il bilancio, il debito, la produttività, i salari. Insomma, una felliniana prova d'orchestra.

Una condanna immediata sarebbe però un errore. Non dimentichiamo che nel 1957 sia Altiero Spinelli sia Jean Monnet dettero del Trattato di Roma un giudizio assai più negativo di quello che la storia ed essi stessi decretarono in seguito. Bocciare la proposta non spianerebbe la strada verso l'impianto giusto, verso il vero governo europeo; aumenterebbe solo la cacofonia attuale. Se accolte e applicate al meglio, le regole e le procedure proposte potranno rafforzare - pur nei limiti del modello del coordinamento - la disciplina degli orchestrali e l'autorità del direttore.

Il dibattito è incominciato, e chi pronunciava parole forti sembra ora preferire una sostanza debole. Il ministro francese si affretta a dichiarare eccessive le nuove regole; quello tedesco le accetta e le giudica insufficienti. Inizia un negoziato che durerà mesi. Era accaduta una cosa simile 22 anni fa quando venne avviato il progetto dell'unione monetaria. Per la Germania doveva significare una moneta e una banca centrale; per la Francia un fondo di riserva comune, che lasciasse in vita molte monete e politiche monetarie nazionali. Prevalse il fondamentalismo tedesco e l'euro si fece.

Tommaso Padoa-Schioppa

03 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_03/tre-parole-per-un-patto-editoriale-pasoa-schioppa_965e7278-ceb1-11df-92c2-00144f02aabe.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #13 inserito:: Novembre 21, 2010, 11:52:53 am »

QUATTRO TEMI PER IL PAESE

La necessità di ricostruire


Come nello scorso agosto, così oggi la politica e le istituzioni si sono date un mese di tempo per decidere del loro futuro e di quello dell'Italia. Ogni cittadino consapevole vive questo tempo con animo sospeso e medita sulle alternative. Propongo al lettore qualche riflessione di carattere esclusivamente personale. Se il governo in carica otterrà la fiducia, esso continuerà il suo lavoro. Se la perderà in una delle due Camere, la crisi si aprirà inevitabilmente e inizieranno consultazioni per accertare se un nuovo esecutivo possa nascere dal Parlamento. Secondo la Costituzione questo è sovrano lungo tutto l'arco della legislatura; il suo compito non è di essere fedele a un «mandato degli elettori» perché i parlamentari sono stati eletti senza vincolo di mandato (articolo 67). Esso ha ricevuto una delega, non un mandato. Esso è il popolo, e può (anzi, in quel caso, «deve») essere sciolto solo se si dimostra incapace di formare un governo sorretto dalla propria fiducia. Non c'è né legge elettorale, né cosiddetta costituzione materiale che possano modificare le regole chiarissimamente scritte nella Costituzione.

Se un gruppo di forze politiche si proporrà con un accordo di programma e un sostegno parlamentare credibili, esso riceverà dunque l'incarico di costituire un governo. Se l'accordo si conferma, il governo si forma, giura, entra in carica e va alle Camere per ottenerne la fiducia. L'esecutivo precedente cesserà di esistere da quando il nuovo avrà giurato; a nulla servirebbe che avesse ottenuto la fiducia di un ramo del Parlamento poco prima di essere sfiduciato dall'altro. Ottenuta la fiducia, il nuovo esecutivo sarebbe legittimo a tutti gli effetti e per tutte le materie che la Costituzione assegna alla sua competenza. Eventuali accordi che limitino la durata o il programma di un governo sono, dal punto di vista costituzionale, irrilevanti; hanno la natura di pronunciamenti politici. Fino al giorno in cui venga colpito da un voto di sfiducia o dal terminare della legislatura, ogni governo è legittimo e ha pienezza di poteri.

Nel passaggio da uno ad altro governo, la funzione del capo dello Stato di tutore e garante della correttezza costituzionale è particolarmente rilevante proprio perché in quel passaggio manca un esecutivo dotato della pienezza dei poteri. Sostenere che il capo dello Stato abbia il dovere o il potere di condizionare il programma, o la durata, o la composizione, o l'omogeneità politica del nuovo governo significa sollecitarlo a distorcere il proprio ruolo e minarne l'autorevolezza istituzionale. Quegli aspetti, infatti, sono competenza del Parlamento e delle forze politiche.
Il governo, dunque, potrebbe cadere soltanto per effetto di un voto di sfiducia e il presidente del Consiglio fa bene a ricordarcelo. Ma quel voto di sfiducia, se ci fosse, avrebbe a sua volta un senso soltanto se il suo fondamento fosse chiaro: non un disaccordo su temi di ordinaria politica, ma il riconoscimento (nato, per impulso di Fini, nella stessa maggioranza) di una profonda triplice crisi della democrazia, dello Stato di diritto e dell'unità nazionale.

Il voto di sfiducia dovrebbe allora essere espressione di una unione nazionale volta a uno scopo. E l'unico scopo che si può vedere è di porre fine alla stagione politica iniziata nel 1992-94 e mai risoltasi in un duraturo rimedio ai mali della Repubblica. Sarebbe indispensabile, in altre parole, che la maggioranza sfiduciante fosse del tutto consapevole che il suo vero compito non consisteva tanto nel far cadere il governo, ma nel compiere una intensa, anche se breve, «ricostruzione della normalità istituzionale». È su questa che sarebbe giudicata dalla storia. Il nesso tra pars destruens e pars construens è strettissimo. Lo è innanzi tutto nei tempi. Il destino del Paese per i prossimi dieci o quindici anni sarà infatti determinato dalla transizione che è iniziata ormai da qualche mese e che continuerà per uno o due anni: così fu nel 1943-46, così nel 1992-94. Ma lo è anche negli effetti. Se avverrà, la «distruzione» potrà essere efficace e duratura a una sola condizione: che essa costituisca il primo passo per dare alla Repubblica la correttezza di funzionamento da tempo scomparsa.

Ricostruire non significa dunque cambiare il primo ministro né mutare la composizione della maggioranza. Significa, a mio giudizio, intervenire sulle quattro più gravi patologie dell'Italia di oggi: rapporto tra gli elettori e la politica (legge elettorale in primo luogo), rapporto tra questa e l'informazione (televisioni in primo luogo), funzionamento della giustizia (indipendenza e tempi dei giudizi), rapporto tra Nord e Sud (federalismo). Sono patologie divenute talmente gravi da mettere a rischio la democrazia, lo Stato di diritto e la stessa unità nazionale. Ne sono largamente responsabili anche le forze che hanno governato prima di Berlusconi, il quale deve parte della sua fortuna politica proprio alla promessa (ahimè mancata) di curarne alcune. I rimedi devono perciò agire molto in profondità e non sono né di destra né di sinistra.

Se le figure politiche che avessero determinato la caduta del governo mancassero della capacità e della determinazione richieste dalla pars construens, sarebbero esse, non Berlusconi, a scomparire dalla scena politica. In passato ciò è già avvenuto con le esperienze delle legislature iniziate nel 1996 e nel 2006: hanno entrambe restituito il potere a un avversario rafforzato dalla sconfitta.
Se invece l'iniziativa apparisse come il primo e credibile passo di una cura profonda, non «di parte», è assai probabile che essa verrebbe assecondata da forze assai più numerose di quelle che se ne facessero promotrici. Proprio perché si tratta di compiere una ricostruzione istituzionale, il nuovo governo potrebbe, anzi dovrebbe, essere sostenuto da un arco di forze politiche ampio, tanto da includere componenti rilevanti sia della destra sia della sinistra. Esso non sarebbe né tecnico, né a tempo, né del presidente, né di «ribaltone»; sarebbe, semmai, un governo del Parlamento. La ricostruzione dovrà infatti essere patrimonio comune della Repubblica, tanto di chi vincerà quanto di chi perderà al successivo voto.
La ricostruzione istituzionale dovrebbe essere completata in questa legislatura, prima di andare al voto. Se si votasse senza averla compiuta, essa non verrebbe intrapresa affatto, o sarebbe opera dal vincitore disconosciuta dallo sconfitto.

Tommaso Padoa-Schioppa

21 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_21/necessita-di-ricostruire-padoa-schioppa_20720afa-f546-11df-91c8-00144f02aabc.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #14 inserito:: Dicembre 19, 2010, 06:44:20 pm »

Riposi in pace.

admin
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!