Tommaso PADOA-SCHIOPPA. -

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IL RETROSCENA

"Per questa giusta battaglia sono pronto anche a cadere"

di MASSIMO GIANNINI

 

"La mozione di sfiducia? Io ho sempre fatto e continuo a fare il mio dovere. Dunque, sono tranquillissimo... ". Chi immagina Tommaso Padoa-Schioppa come un ministro ormai "alle corde", accusato dall'opposizione e criticato dalla sua maggioranza, chiuso nel suo ufficio di Via XX Settembre come se fosse in un bunker, isolato e tormentato da foschi pensieri goethiani come il Guido Carli del 1991, evidentemente non lo conosce. Il ministro dell'Economia, a chi in queste ore difficili va a chiedergli lumi sul caso Speciale, risponde con una serenità disarmante.

"Di queste vicende io parlerò solo nelle sedi istituzionali, cioè in Parlamento. Nel frattempo, parlano i fatti e parlano gli atti...", ripete ai pochi interlocutori che riceve, in via del tutto riservata.
Per un diabolico scherzo del destino, i nodi più intricati e velenosi che il ministro ha di fronte sono arrivati al pettine tutti assieme. Prima l'incidente sulla Rai, con il reintegro di Petroni in consiglio di amministrazione deciso dal Tar. Poi l'infortunio sulle Fiamme Gialle, con il reintegro di Speciale decretato sempre dal Tar.

Infine l'impasse su Alitalia, con l'ennesimo rinvio della decisione sul partner e il rischio di un drammatico fallimento della compagnia. A suo modo, secondo il Tesoro, ognuna di queste vicende racchiude una metafora del Paese. Un Paese che vive di conflittualità e rifiuta la responsabilità. Un Paese che sceglie in base alle contiguità e non sopporta le discontinuità. In ognuna di queste vicende, il ministro "tecnico" per definizione ritiene di aver tenuto una linea marcatamente "politica", che il sistema, tutto il sistema, fa fatica a comprendere e a metabolizzare.

Per il centrodestra se ne può intuire il motivo: nella passata legislatura, la Rai e la Guardia di Finanza erano i due gangli vitali di una struttura di potere che ruotava intorno al dominio dell'informazione (televisiva e pubblicitaria) e al controllo dell'intelligence (fiscale e giudiziaria). Far saltare i due "referenti" di quella struttura non poteva non sollevare la reazione scomposta di chi l'aveva inventata, costruita e usata per puro interesse di bottega. Per il centrosinistra, nell'ottica di Via XX Settembre, i dubbi si spiegano solo alla luce di una visione conservativa e "amministrativistica" della cosa pubblica, dove la forma della decisione rischia di valere più del suo contenuto. Le responsabilità di governo sono tutt'altra cosa.

Sul caso Speciale i fatti e gli atti, nella ricostruzione del Tesoro, raccontano una verità politicamente incontrovertibile, anche se giuridicamente controversa. Padoa-Schioppa, interprete di una linea discussa e condivisa dal governo, ha voluto assumere una decisione dirompente. La rimozione di un comandante generale della Guardia di Finanza, nei cui confronti era venuto totalmente a mancare il rapporto fiduciario. È stato un "atto politico", del quale il ministro si è assunto la piena responsabilità, e del quale adesso rivendica il pieno diritto. Lo ha fatto davanti alle Camere, con un discorso ruvido che a suo tempo qualcuno, nella maggioranza, ha definito persino troppo duro. Ma proprio questo è il punto cruciale della questione, che il centrodestra fa finta di non vedere e che una parte del centrosinistra si ostina a non capire.

Un governo democraticamente eletto ha o non ha la facoltà di revocare un militare di cui non si fida più? Non è forse questa una prerogativa esclusiva del potere esecutivo, che nessun potere "altro", nemmeno quello giudiziario, può avocare a sé? Padoa-Schioppa l'ha ripetuto ancora una volta ai colleghi che gli facevano notare i rischi di quella revoca: gli abbiamo dato più di un anno di tempo, per verificare se c'erano le condizioni per lavorare insieme in uno spirito di collaborazione istituzionale. "Quando abbiamo capito che quelle condizioni non esistevano più, abbiamo agito di conseguenza... ". E adesso che sono in corso indagini della Corte dei conti e della Procura militare persino su voli privati, fondi riservati e trasbordi aerei di pesce fresco, al Tesoro ci si chiede cos'altro deve succedere, ancora, per rendersi conto di cosa fosse diventata la più alta carica della Guardia di Finanza? E come si può tollerare che un "soldato" col massimo grado compaia in tv, quasi a reti unificate, su La7 e sul servizio pubblico di Raiuno e Raidue, per sparare a zero contro il governo in carica?

Questo non vuol dire che un ministro della Repubblica non voglia rispettare la sentenza del Tar. Ma quello che conta, per Padoa-Schioppa, è che i due piani restino distinti: un conto è la questione giuridica, tutt'altro conto è la questione politica. Se nel provvedimento congiunto di revoca implicita di Speciale e di nomina esplicita di D'Arrigo c'è un vizio di forma, si troverà il modo per sanarlo. Viceversa, sulla decisione politica non si può e non si deve tornare indietro. La stessa mossa a sorpresa inscenata da Speciale due giorni fa viene definita in un solo modo: "poutchista". Un generale che scrive una lettera di dimissioni non all'istituzione dalla quale dipende direttamente (il ministro delle Finanze) ma al Capo dello Stato. E non contento di questa palese violazione della legge istitutiva del suo Corpo, chiede con un'altra missiva al Capo di stato maggiore che la sua lettera di dimissioni sia letta ai reparti. È quasi "una chiamata alle armi per i suoi soldati", secondo l'interpretazione del Tesoro. Cioè una mossa tecnicamente "eversiva".

Se questo è lo stato dei rapporti, personali e istituzionali, come si fa a non convincersi che la decisione politica di rimuovere Speciale non può essere cancellata da una sentenza del Tar? Negli uffici di via XX Settembre si fa un paragone: fatte le debite proporzioni, "sarebbe come se dopo la disfatta di Caporetto nel 1917 qualcuno avesse obiettato a Vittorio Emanuele Orlando un errore formale nella destituzione del generale Cadorna, e nella nomina di Armando Diaz al suo posto".

Per fortuna, non siamo alla Prima Guerra Mondiale. Me se non c'è un'emergenza militare, per Padoa-Schioppa c'è un'emergenza etica, che un ceto politico responsabile deve saper fronteggiare, con la coerenza dei comportamenti e la cogenza delle decisioni. Il cambiamento e la modernizzazione passano anche per queste scelte di rottura. E questo vale tanto per la Guardia di Finanza, quanto per la Rai, che in questi anni sono stati la cinghia di trasmissione di un'inedita forma di "regime light", che se non ha messo a repentaglio la democrazia, sicuramente ne ha intaccato la qualità. Anche per questo, a un collaboratore che ieri sera chiedeva al ministro quanto si rischia con il voto sulla mozione di sfiducia, Padoa-Schioppa rispondeva serafico: "Accada quel che deve. Io sono anche pronto a cadere, in questa battaglia. Perché so che è una battaglia bella. E soprattutto è una battaglia giusta: non solo per me, ma soprattutto per il nostro Paese".



(19 dicembre 2007)

da repubblica.it

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POLITICA

Il comandante generale della Gdf D'Arrigo: "Quella lettera non l'avrei scritta, nel Corpo ho trovato opposte fazioni"

"L'ex comandante è fuori dalla realtà così cambierò la Guardia di Finanza"

di CARLO BONINI


ROMA - Il Comandante Generale della Guardia di Finanza, Cosimo D'Arrigo, siede sul lato lungo del piccolo tavolo di lavoro del suo ufficio in viale XXI Aprile.

Generale, Roberto Speciale prima le ha dato del "poveretto" e dell'abusivo, annunciando il suo rientro. Poi, si è dimesso da un incarico in cui nessuno lo aveva reintegrato con una lettera in cui ha messo in mora il legittimo potere costituzionale del Governo, ordinando al suo capo di Stato maggiore di trasmettere la missiva all'intero Corpo. Lei, il primo giugno scorso, nel suo primo ordine del giorno da Comandante generale, scrisse: "Di Roberto Speciale ho apprezzato il profondo senso dello Stato e delle Istituzioni, l'intimo, radicato culto dei valori e delle regole, lo straordinario spirito di servizio verso la nostra Patria!". Userebbe ancora queste parole?
"Innanzitutto, tengo a dire che, come forse lei saprà, il capo di Stato maggiore non ha dato alcun seguito alla richiesta di Speciale. Perché nessun seguito legittimo quella richiesta poteva avere. Detto questo, sarò molto franco. Sette mesi fa espressi quel giudizio sulla base di una conoscenza e di un'amicizia che dura da 42 anni e che oggi confermo, non certo per malinteso senso di generosità. Ma in questi sette mesi sono accadute molte cose. E' un altro film. La situazione è degenerata e il generale Speciale, che ha continuato ad agire per fatto personale, ha perso il senso della realtà. Perché, vede, la lettera di dimissioni da un incarico che non aveva e in cui non avrebbe mai potuto essere reintegrato è una lettera fuori dalla realtà. Dico sempre ai miei collaboratori, che ciascuno di noi ha il suo tempo. Il tempo di Speciale è finito. Lui ha deciso che è finito in una certa data. Per me era finito molto prima".

E' qualcosa di più e di peggio di una lettera fuori della realtà. E' un manifesto di infedeltà istituzionale.
"Io non so perché l'abbia scritta. So soltanto che è stato anche sollecitato da alcuni amici dentro e fuori la Guardia di Finanza i quali sostengono che volesse fare "un bel gesto" per liberare il Corpo dall'imbarazzo. Ma non voglio essere ambiguo. E dunque le dico chiaramente che non solo non condivido nulla dei contenuti di quella lettera, ma che i principi della nostra Costituzione prevedono che in caso di conflitto tra Autorità politica e autorità militare, i generali debbano giustamente perdere. Sempre".

A proposito di ambiguità, in questi sette mesi lei ha taciuto. Quasi a conferma di quel che si diceva di lei il giorno della nomina. D'Arrigo è un re Travicello che non riuscirà a spostare neppure un posacenere.
"Non sono un re Travicello e, al di là dell'apparenza, non ho neppure un buon carattere. In questi sette mesi, anche facendo violenza a me stesso, mi sono imposto il silenzio per chiudere con un passato che non ci deve più riguardare. Per disgiungere il problema personale di Roberto Speciale dai destini e dall'immagine di un Corpo di 60 mila donne e uomini. Io dovevo spegnere rapidamente un antagonismo strisciante che attraversava ufficiali di grado elevato del Corpo e non prestare il fianco a strumentalizzazioni interne. Dovevo capire dove stavo, cosa era la Guardia di Finanza e, soprattutto, capire di chi mi potevo fidare non solo dal punto di vista professionale, ma della coerenza con le istituzioni".

Che significa "coerenza con le istituzioni"?
"E' coerente con le istituzioni un finanziere che pensa che la Guardia di Finanza è un'istituzione dello Stato, una risorsa del Paese, non uno strumento buono per l'affermazione di interessi privatistici, di parte. E mi riferisco non solo agli interessi di parte espressi dalla politica, ma anche agli interessi economici. La Guardia di Finanza è un'arma letale. E' una macchina delicata, con le sue criticità, che deve essere tenuta al riparo da tentazioni. Siamo tutti uomini e viviamo immersi nello stesso contesto. Ma la Guardia di Finanza deve essere un'istituzione neutrale. E guardi che non sto parlando solo di un desiderio, ma di un progetto da coltivare quotidianamente".

E quando lei ha assunto il Comando che grado di "contagio" ha registrato?
"Ho avvertito degli schieramenti, delle fazioni. Come dicevo, inevitabilmente, gli ufficiali del Corpo sono funzionari dello Stato esposti. Ma proprio per questo, proprio per comunicare quel concetto di neutralità, non mi sono avventurato nel gioco delle appartenenze e delle opposte fazioni".

Che però esistono. Nella passata legislatura, la Guardia di Finanza di Roberto Speciale è stata uno snodo cruciale di un sistema di spionaggio illegittimo a fini politici che ha visto l'intelligence del Corpo, con il suo II Reparto, lavorare in perfetta osmosi con il servizio segreto militare diretto dal generale Pollari, ex capo di stato maggiore della Finanza. Non c'è stata vicenda cruciale della vita democratica del Paese, dalle scalate bancarie agli accessi abusivi alle banche dati tributarie, alla violazione del segreto istruttorio su notizie politicamente sensibili, che non abbia visto al lavoro dei finanzieri. Non crede che ignorare il problema e dire semplicemente che si volta pagina non sia sufficiente?
"Io non ero qui fino a sette mesi fa, e ho visto una volta sola il generale Pollari, cui, come gesto di cortesia, ho offerto un caffè nel mio ufficio. Io posso dire dunque cosa farò di qui a qualche settimana. La cosiddetta intelligence della Guardia di Finanza, il II Reparto, così come è stato conosciuto, non esisterà più. Sarà riorganizzato. La cosiddetta intelligence della Finanza si occuperà di analisi di fonti aperte, di analisi di banche dati, e terrà rapporti con i nostri ufficiali presenti all'estero nelle ambasciate. Lo spionaggio sarà fatto da chi istituzionalmente lo deve fare, i Servizi. La Guardia di Finanza farà polizia giudiziaria e tributaria, lotta all'evasione".

E il patrimonio di informazioni accumulato in questi anni che fine farà? E come sarà possibile ricostruirne l'uso che ne è stato fatto? Individuare i soggetti cui è già stato consegnato?
"Conosco da una vita e sono amico dell'ammiraglio Branciforte, nuovo direttore del Sismi. E insieme stiamo lavorando proprio a questa materia. Per altro, il Sismi ha cominciato a restituire al Corpo, anche se in numeri ancora molto esigui rispetto all'esodo d'origine - parliamo di una quindicina di effettivi, al momento - sottufficiali che erano transitati al Servizio nella precedente gestione. I finanzieri che rimarranno al Sismi saranno impiegati esclusivamente in attività di spionaggio e contrasto alla criminalità economica, ai grandi traffici illeciti. Le informazioni sin qui raccolte resteranno patrimonio del Corpo e delle sue banche dati, sotto la responsabilità del Comandante generale".

Perché siete stati reticenti sull'uso che è stato fatto nella precedente gestione dei fondi riservati?
"Non siamo stati affatto reticenti. Abbiamo semplicemente ricordato al Parlamento quali sono le procedure che governano l'uso di quei fondi. Che il comandante generale è responsabile dell'intero impiego delle somme in bilancio e che non esistono giustificativi di dettaglio di quelle spese. Oggi, insomma, io sono in grado, per il passato, soltanto di sapere quanto denaro è stato speso, da chi, per autorizzazione di chi e quando. E sono informazioni che, se mi verranno richieste dalla Procura militare di Roma o dalla Corte dei Conti, non avrò nessuna difficoltà a fornire. Detto questo, ho stabilito che d'ora in avanti, i fondi riservati vengano distribuiti per intero soltanto agli uffici periferici per contribuire a far fronte a spese che le nostre limitate risorse spesso non ci consentono di coprire".

In 4 anni, Speciale ha distribuito 500 encomi solenni, di cui hanno beneficiato 100 ufficiali. Non crede che questo sia sufficiente a predeterminare le carriere e dunque il futuro dell'intero Corpo. Ad assicurare continuità con la passata gestione?
"Le rispondo di no. E con assoluta certezza. Prima di Natale, varerò un piano di impiego che prevede l'avvicendamento di circa il 60 per cento degli ufficiali in posizioni di comando su tutto il territorio nazionale. E nelle decisioni che abbiamo preso in Commissione avanzamento, quegli encomi solenni cui lei fa riferimento non hanno pesato. Per un motivo molto semplice. Ne ho esaminato una per una le motivazioni e la legge di avanzamento non prevede che faccia carriera chi ha più encomi. Ma chi è più capace. Per altro, tengo a dire che, oggi, dopo sette mesi, i generali di corpo d'armata sono su questo punto assolutamente coesi con le mie posizioni. Le dirò di più. Ho detto che, personalmente, non darò più di un encomio solenne l'anno. E che quella decisione dovrà essere condivisa dal basso. Dai comandi territoriali".

Anche a Milano ci saranno avvicendamenti?
"Anche a Milano. Perché Milano non è diversa da altri comandi e deve dunque essere una piazza soggetta al naturale turn-over di qualunque altra importante città".

E' ancora convinto che il ponte aereo di spigole e gli elicotteri di Speciale, i voli assicurati ai politici siano, come ebbe a dire all'Espresso, episodi destinati a risultare "meno pregnanti di quel che appaiono"?
"Per noi, la storia delle spigole e dei voli è un terribile macigno che faticheremo a rimuovere. Le dico però che a me le spigole non piacciono e che se a Orvieto è più conveniente andare in macchina che in elicottero, vado in macchina, perché me ne frego dell'immagine. Detto questo, il ministro Padoa Schioppa mi ha chiesto di verificare le procedure che regolano i voli assicurati alle autorità, per renderle più stringenti e sobrie. E' una cosa che farò immediatamente. Tengo anche a dire che, come deciso circa due anni fa, stiamo ammodernando la flotta aeronavale, il che ci consentirà di renderla più efficiente e meno costosa, tagliandola del 40 per cento".

Il viceministro Vincenzo Visco è stato crocifisso per essersi azzardato a denunciare in solitudine nel palazzo della politica "anomalie" nel funzionamento della Gdf. Dopo quel che lei ha detto e promette di fare, aveva poi così torto?
"Il ministro Visco non è un passante. Ha la legittimità e l'autorità di chi è stato eletto democraticamente. Ha delle prerogative politiche che esercita e dunque il diritto di indicare, come ogni ministro, di qualunque colore sia il governo, delle priorità e degli obiettivi cui un comandante generale è tenuto a dare corso. Io ho avuto l'incarico di colmare il gap, il vuoto, che si era aperto tra l'Autorità politica e il Corpo. E sto lavorando per questo".


(19 dicembre 2007)

da repubblica.it

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Se gli europei dicessero: Yes,we can


Un anno fa, di questi giorni, Barack Obama e Hillary Clinton si contendevano la candidatura alla Presidenza nel mezzo della più intensa e incerta campagna elettorale che si ricordi. Oggi l’America si presenta con volto, parole, atti, stile di governo, profondamente mutati: legalità costituzionale, risparmio energetico, apertura al mondo islamico, nuove relazioni con Cuba, bando alla tortura, avvio di riforme sociali. Futile arroganza, uso della paura, miopia hanno ceduto il passo a serietà, calma, ascolto, sguardo lungo. È scattato il meccanismo essenziale della democrazia: cambiare in modo pacifico una politica e un governo di cui il popolo è scontento.

Potrebbe accadere in Europa? Potremmo, tra un anno, riconoscere nell’elezione europea del 2009 una svolta nella storia del continente? Non lo impediscono nessuna maledizione divina e nessuna disposizione costituzionale.

Proviamo a immaginare. Appena insediatosi, in una mozione votata da tutti i suoi gruppi, il nuovo Parlamento dichiara che di fronte alla crisi, al disgregamento del mercato unico, al mutare degli equilibri mondiali, alla palese impotenza dei Paesi europei singolarmente presi, allo spreco di risorse insito nella frammentazione della spesa, un mutamento di rotta s’impone.

Il Parlamento decide due mosse. Primo, rivendica a se stesso la scelta del presidente della Commissione (e dei commissari). Poiché anche nell'Unione, come in ogni democrazia parlamentare, mai l'esecutivo potrebbe insediarsi senza un voto di fiducia, sappiano i primi ministri e il Consiglio europeo che — come per qualsiasi capo o re degli Stati membri — un annuncio non concordato con i rappresentanti eletti dal popolo verrà bocciato. Secondo, il Parlamento chiede un’immediata e radicale riforma del bilancio dell’Unione e quindi delle politiche comuni: spesa flessibile e discrezionale, nessuna rigida ripartizione per destinazioni nazionali, vere fonti di entrata europea, nuove risorse per attuare le politiche comuni previste dai Trattati e finora impedite dal Consiglio.

Le due mosse sconvolgono il modus operandi dell’Unione e ne bloccano il funzionamento: cessazione dei pagamenti e delle procedure, proteste dei destinatari della spesa, dimostrazioni di piazza. Il Parlamento non cede. Alla fine, dopo mesi di paralisi i governi, il Consiglio (il cartello dei non-volenti, l’immenso tavolo dove i ministri nazionali recitano le dichiarazioni preparate dai loro funzionari) capiscono che il gioco è cambiato, si rassegnano al costituirsi di un potere nuovo in Europa. Una paralisi totale di alcuni mesi è più intollerabile (ma meno dannosa) dell’emiparesi in cui l'Europa languiva da decenni. Qualche Paese che non ci sta decide di uscire dall’Unione, ottenendo di conservare i diritti acquisiti.

Non ci vorrebbe più di un anno. Non sarebbe una svolta storica più grande dell’unificazione politica dell’Italia o della Germania nel 19˚ secolo, o, nel 20˚, della rivoluzione d’Ottobre, dell’emancipazione coloniale e del crollo dell’impero sovietico. Se non accadrà, sarà solo per la pigrizia e l’indifferenza degli europei stessi.

Pochissimi ritengono che accadrà. Neanche io lo penso. Ma penso che questa eventualità sia auspicabile, che potrebbe accadere e forse un giorno accadrà, che i cittadini europei dovrebbero convincersene. E spero che persone con vocazione alla politica costruiscano le proprie fortune su di essa, così come in passato altri l’hanno costruita sulla conquista dell’unità d’Italia, o del suffragio universale, o dell’abolizione della schiavitù. Yes, we can.

Tommaso Padoa-Schioppa
06 giugno 2009

da corriere.it

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L'editoriale

Le occasioni finora mancate


Nella nostra storia nazionale il 2009 vede la vera fondazione di due grandi partiti animati da una stessa e concorrente ambizione: governare l'Italia nei decenni a venire. Solo il tempo dirà se sono inizi fecondi o occasioni mancate, ma è adesso che l’importanza del fatto deve essere colta, dal politico di professione come da ogni cittadino responsabile. I partiti storici, cui i due neonati del 2009 subentrano, erano segnati da circostanze ormai scomparse da tempo: dominio di grandi ideologie, suffragio ristretto, ascesa del proletariato, italiani largamente analfabeti, senza scarpe ai piedi né acqua corrente in casa, emigranti a milioni.

Alcuni (il liberale, il repubblicano) avevano fatto il Risorgimento; uno (il socialista) le lotte sociali; uno, la riconciliazione dei cattolici con lo stato unitario; due (il fascista, il comunista) erano figli malati della democrazia, fautori tenaci di regimi totalitari, divenuti membri legittimi della famiglia democratica solo dopo decenni perduti, non prima del 1945 e del 1989, grazie all’opera educatrice dell'Unione europea. Il contesto storico è nuovo, i mali dell'Italia antichi: occorrono forze nuove per affrontarli. Guai a fare dell’anagrafe una discriminante, novità e giovane età sono cose diverse: Giovanni XXIII divenne Papa alla soglia degli 80 anni e il doge veneziano che conquistò Costantinopoli aveva superato i 90.

E tuttavia colpisce che, diversamente da quelli di oggi, i fondatori di ieri — i Turati, i Gramsci, gli Sturzo, i Mussolini — ponessero fondamenta all’alba e non al tramonto della loro esperienza politica. L'osservazione, si badi, dice di più dell'accidia dei giovani che della pervicacia dei vecchi. Occasioni mancate o inizi fecondi? A sinistra, fu di certo occasione mancata l'avvio del Pd nel 2007, quando invece di applicarsi alla costruzione del nuovo partito la sua guida abbatté il governo Prodi, disciolse la coalizione vincitrice del 2006 e restituì il potere all’opposizione. A destra, tarda la costruzione di un partito vero, di cui il capo del governo diventi il prodotto piuttosto che il produttore. Fa difetto a entrambi la chiarezza su punti fondamentali come il finanziamento, l'accesso, le regole interne.

L'opera da svolgere è enorme. Essa abbraccia quattro materie, bisognose di analisi distinte, ma ugualmente indispensabili a una formazione politica duratura. Ideologia: non ritratti di padri e nonni alle pareti, bensì principi resistenti al mutare delle circostanze, per istituzioni, democrazia, giustizia, laicità, economia, socialità, Europa, relazioni col mondo. Organizzazione: tesseramento, militanza, democrazia interna, finanziamenti. Linea politica: alleanze, programma, proposte per affrontare, oggi e nella prossima legislatura, questioni quali l'illegalità e la crisi finanziaria. Leadership: chi deve guidare il partito, con che criterio fare la scelta, che relazioni tra partito e capo del governo.

Partiti che aspirino a governare l'Italia in modo non effimero devono plasmare quelle quattro materie in modo nuovo, chiaro, convincente, che guardi, sì, all'oggi, ma ancor più al dopodomani. Seppero farlo i migliori tra i partiti di ieri. Solo questo aspetta una generazione nuova di italiani nati e cresciuti nella repubblica o in essa giunti da paesi e culture diverse, spesso ostili alla politica e ai partiti, educati nell’epoca della scuola e della televisione di massa, assetati di legalità e di riconoscimento del merito.

Tommaso Padoa Schioppa

19 luglio 2009
da corriere.it

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L’USCITA DALLA CRISI E LA SUA EREDITÀ

Si crescerà a basso regime


Il vocabolario dell’eco­nomia torna a parole gradite: finisce la re­cessione, inizia la ri­presa, il peggio è passato. Dal dicembre 2006, quan­do, quasi inosservato, si ar­restò un principale motore dell’espansione economi­ca mondiale (la bolla im­mobiliare, ossia l’ascesa ir­ragionevole dei prezzi del­le case in America), non è la prima volta che si parla di «uscita dalla crisi». Ma che significato dare a una tale espressione?

Affermare che si è pros­simi al punto in cui l’eco­nomia riprende a crescere è nello stesso tempo azzar­dato e fuori luogo. Azzar­dato perché i cosiddetti punti di svolta sono sem­pre difficili da individuare, e lo sono soprattutto quan­do il convalescente organi­smo economico è talmen­te debole da poter ricadere in catalessi anche per fatti irrilevanti in circostanze normali: le perdite di una banca, la chiusura di un’im­presa, un nuovo scandalo finanziario. Fuori luogo perché interpretando gli at­tuali movimenti dell’eco­nomia come fasi di un ci­clo economico, parlando perciò di recessione e di ri­presa, si fraintende il signi­ficato di ciò che sta avve­nendo. La crisi riguarda la crescita, il debito e la strut­tura dell’economia, non il suo andamento ondoso.

Non possiamo capire il dopo- crisi se non capiamo il prima , che conviene dun­que ricapitolare. La bolla immobiliare aveva spinto l’intero mondo in una cor­sa che pareva senza fine. I proprietari di case credeva­no, soprattutto in Ameri­ca, che i prezzi sarebbero saliti sempre e, credendosi in possesso di una vena au­rifera, s’indebitavano e spendevano. Spendevano per beni fabbricati da ope­rai istruiti e poco pagati di Paesi asiatici, i quali accu­mulavano — in cambio — titoli in dollari emessi in abbondanza dal governo Usa. La finanza si arricchi­va in un giro di denaro in cui i Paesi poveri prestava­no ai ricchi. La percezione del pericolo era offuscata dall’insensata credenza che potesse continuare co­sì, dal mito della razionali­tà del mercato e da inge­gneri finanziari che inven­tavano prodotti e circuiti nei quali il rischio sembra­va scomparire dal sistema come la donna dall’arma­dio del prestigiatore.

Più di una volta, nei pas­sati vent’anni, simili bolle speculative si erano forma­te ed erano poi scoppiate: prima delle case, i titoli hi­gh tech ; prima ancora, il debito dei Paesi emergen­ti. Ma il buio creato dallo spegnersi di un botto veni­va illuminato poco dopo dall’accendersi del succes­sivo e ogni volta si ripren­deva l’andazzo, passando da una bolla a un’altra.

Sarà così anche ora? Commetterebbe un errore chi lo ritenesse possibile o l’auspicasse: sia esso gover­no, banca centrale, impre­sa o famiglia. Uscire dalla crisi significa arrestare la caduta, non però tornare sulla strada che ha portato al baratro.

Quello immobiliare è, dovrebbe essere, il gran bengala, il botto finale. La crisi pone al centro delle preoccupazioni la riduzio­ne del debito, non più la ri­presa del consumo. Certo, la produzione dei Paesi ric­chi cesserà di precipitare e per ciò stesso riprenderà a crescere. Certo, l’econo­mia mondiale dispone di altri motori, dei quali pure converrà parlare. Ma sarà crescita lenta, frenata dalla riluttanza a fare nuovi debi­ti e dalla necessità di ridur­re quelli vecchi. Ci vorran­no anni per smaltire il pas­sato. E tutta l’economia mondiale risentirà del bas­so regime a cui girerà il motore dei Paesi ricchi.

Per la politica economi­ca la vera sfida inizia nel momento della ripresa. Il difficile viene adesso.

Tommaso Padoa Schioppa
02 agosto 2009
da corriere.it

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