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Autore Discussione: Maria Serena Palieri - Il romanzo ai tempi dell'Alzheimer  (Letto 2413 volte)
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« inserito:: Dicembre 18, 2007, 06:28:30 pm »

Il romanzo ai tempi dell'Alzheimer

Maria Serena Palieri


Patrimonio è il libro in cui Philip Roth racconta la malattia e la morte di suo padre: benché Einaudi, nella traduzione di Vincenzo Mantovani, lo mandi da noi in libreria adesso, risale al 1991, a pochi anni, cioè, dalla fine che colpì Herman Roth quasi novantenne per un tumore invasivo, ancorché benigno, al cervello. Patrimonio - sottotitolo «Una storia vera» - ci restituisce appunto «dal vero» quella famiglia, ebrea di Newark, sulla quale Roth ha lavorato narrativamente, in molti romanzi, per ricalco: riconsegnando, per esempio, Roth senior al suo lavoro reale, di funzionario di una compagnia di assicurazioni, nella finzione diventato quello di podologo, più filologicamente «pedestre» e più ironico. E, nella messe di opere con cui Philip Roth ci ha inondato, nella sua prolifica tarda maturità e incipiente vecchiaia - capolavori assoluti come Pastorale americana in fin troppo disinvolta compagnia con testi in cui gioca a fare il verso a se stesso - Patrimonio è un bel libro non gratuito. È un libro non pleonastico, ma «necessario», fondato com’è sulla metamorfosi ineludibile cui siamo soggetti quando ci muore un genitore.

Ora, Roth è quel tipo di scrittore in cui il «clic» narrativo s’accende già mentre vive la situazione: Patrimonio si conclude, appunto, con lui, orfano da un mese e mezzo, che sogna il padre che lo rimprovera d’averlo consegnato all’eternità con i panni sbagliati, cioè avvolto ortodossamente in un sudario, e che si sveglia urlando, poi annota «al mattino mi resi conto che aveva inteso alludere a questo libro, che, in carattere con l’indecenza della mia professione, avevo continuato a scrivere mentre lui era malato e moriva». Philip Roth è uno scrittore che sa, ed è portato, a fare romanzo di tutto, anche d’una distorsione al piede. Ma non è il solo a ritenere che la malattia di un anziano genitore, di questi tempi, sia diventata una cosa da raccontare: una materia «da romanzo». È sempre stato così? No. Malattia e morte, classicamente, hanno trovato il loro spazio se «innaturali», se «tragiche»: morte violenta, malattia in età infantile o giovane. Mentre la fine di chi è anziano entrava, anche in senso narrativo, nell’ordine delle cose. Prendiamo due romanzi tornati alla ribalta per motivi diversi in queste settimane: I vicerè (da cui il film di Roberto Faenza) si apre con la fine dell’anziana principessa Teresa, Il gattopardo (siamo alla vigilia del suo cinquantenario) si chiude con quella del vecchio principe di Salina; sia De Roberto che Lampedusa descrivono l’enfasi con cui le due morti vengono accolte, pianti, grida, gramaglie, prefiche, ma in entrambi quel sottinteso «non ci posso credere!» degli eredi fa parte del rituale, come i fiori intorno alle spoglie dell’anziano estinto e la terra che, al cimitero, ne coprirà la bara.

Ora ci viene in mente un libro in cui la morte di un uomo in là con gli anni è scandalo: La morte di Ivan Il’ic. Ma è perchè Tolstoj questa morte la racconta in soggettiva, con l’occhio di chi sente chiudersi il coperchio su una vita, la propria, che era stata, scrive Tolstoj, ed ecco tanto più il dramma, «la più semplice, la più comune e la più terribile». E, siccome si muore una volta sola, per chi se ne va, in effetti, la morte è una novità assoluta. Per chi la morte la vede da fuori, invece, (i colleghi magistrati del tribunale di San Pietroburgo) quella di Ivan Il’ic è, obiettivamente, faccenda naturale cui dedicare solo un frettoloso pensiero.

E allora, come mai Roth, e non lui solo, trova dentro di sé questa innocenza, questa capacità di stupirsi (e scandalizzarsi, e perciò fare romanzo) della naturale malattia e fine di un padre ultraottuagenario? Elisabetta Rasy ce lo spiega con scrittura cristallina nell’Estranea, pubblicato in questo autunno per Rizzoli. La madre si ammala ottantunenne, a maggio 1998, di un tumore ai polmoni, e muore a febbraio del 2000. Qui, la parabola narrativa si regge su due innocenze: «che la mia tempestosa e potentissima madre potesse morire non mi era mai venuto in mente» scrive la figlia Elisabetta, benché sia una donna grande; e «io non capivo niente» annota, quando fa i primi passi nel percorso medico tecnologico e crudele cui il cancro conduce. La forza del testo di Elisabetta Rasy è in questo grado zero: nell’ignoranza con cui l’io narrante, un’adulta, si avventura verso malattia e morte della genitrice.

In un bel testo, Dove si nasconde la salute, Hans Georg Gadamer, novantaquattrenne, scriveva che tra i motivi per cui malattia e morte nell’Occidente di oggi ci sembrano importune estranee, anziché logiche presenze, c’è il fatto che i cimiteri sono fuori le mura e non ci sono più i sonagli dei cavalli bardati a lutto a ricordarci ogni dì - percorrendo le nostre strade con un feretro - che prima o poi tocca a ognuno. Essendo un genio, Gadamer amava la semplicità. Ecco descritta la «rimozione» sulla quale altri alambiccano.

Però, nel suo spietato e bel libro, Rasy parla anche d’altro, oltre che della sua personale rimozione: di quel sacerdotale atteggiamento con cui, quando arriva il cancro, i medici sottomettono il malato e i suoi congiunti. «Io non capivo niente»: chi, mentre ci passava, ha avuto la sensazione di capire se una chemio o una radio fossero utili davvero, oltre che dolorose e «d’obbligo»? L’innocenza, così come ce la consegna Rasy, quindi ha due facce: è quella di un infantilismo che condanna l’adulto a non immaginare che il genitore possa morire, ed è quella della soggezione infantile cui ci costringe la scienza medica.

Ma altre sindromi vanno consegnando valore narrativo alla vecchiaia. Quelle, degenerative, che colpiscono età fino a ieri considerate «estreme». Alice Sebold, nella Quasi luna, uscito per e/o, racconta d’una donna che ammazza la madre affetta da demenza senile. Tahar Ben Jelloun, in Mia madre, la mia bambina (Einaudi), tratta, con altra compassione, in senso autobiografico e senza esiti violenti, la stessa situazione. Jonathan Franzen, nel paese dove tutto avviene prima, con Le correzioni (Einaudi) già nel 2001 ci aveva consegnato il grande romanzo americano sull’età del Parkinson. Alzheimer, demenza e Parkinson, insomma le malattie degenerative della senescenza, cominciano a manifestare in potenza la carica narrativa che, per decenni, ebbe la tbc: sono mali che, per frequenza, fanno parte del paesaggio in cui ci muoviamo e, per irrimediabilità, hanno qualcosa del fato. È così che la vecchiaia, col suo scandalo di malattia e morte, respinta dalla porta, si ripresenta a noi «innocenti» - noi adulti bambini - dalla finestra. È diventata una vicenda singolare, spaventosa o commovente: una storia che è giusto che i romanzieri ci raccontino.

Pubblicato il: 18.12.07
Modificato il: 18.12.07 alle ore 8.58   
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