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Autore Discussione: FRANCESCO MANACORDA.  (Letto 1203 volte)
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« inserito:: Agosto 02, 2020, 05:37:50 pm »

Intervista

Bazoli: "Tra Intesa Sanpaolo e Ubi non ha vinto una banca, ma un'idea comune di banca"

01 AGOSTO 2020

"Abbiamo bisogno di una banca italiana forte, fortissima, e questa operazione consente all’Italia di giocare una partita nel credito in posizione di primo piano, anche con prospettive europee"

DI FRANCESCO MANACORDA


<Tra Intesa Sanpaolo e Ubi non ha vinto una banca, ma un’idea di banca: un’idea comune a entrambe le banche».Giovanni Bazoli è presidente emerito di Intesa Sanpaolo, ma è anche l’uomo che ha avuto un ruolo determinante nella creazione di Ubi, scaturita dalla fusione tra la Banca Lombarda e Piemontese e la Popolare di Bergamo. Ora che Intesa Sanpaolo ha conquistato Ubi con oltre il 90% del capitale, l’avvocato-banchiere parla per la prima volta di una vicenda sulla quale in tutti questi mesi ha mantenuto un rigoroso silenzio. E confessa di aver sofferto per lo scontro tra i due gruppi, ma dichiara di sentirsi pacificato perché l’operazione conclusa rafforza una banca di cui l’Italia ha assoluto bisogno e perché ritiene che sia rispettata al meglio l’idea di banca che era propria di Ubi.

Le sue due “creature” bancarie si sono scontrate aspramente. Una vince, l’altra perde e scompare. Questo non la rattrista?
«Non posso nascondere che mi risulterà difficile abituarmi a un panorama bancario in cui manchi la presenza di Ubi. Dico questo perché Ubi è la sintesi di storie bancarie nobilissime (penso al mondo bresciano e bergamasco, ma non solo) costruite da generazioni di grandi amministratori. Nello stesso tempo, tuttavia, comprendo che Ubi, rimanendo da sola, non sarebbe stata in grado di affrontare la competizione durissima che attende il mondo bancario».

Questo nuovo polo bancario nasce anche sotto la sua regia, come molti hanno sospettato?
<Su questo voglio fare chiarezza subito: non ho partecipato assolutamente allo studio e all’elaborazione di questa operazione. Il consigliere delegato di Intesa Carlo Messina mi annunciò il lancio dell’Offerta la notte del 17 febbraio con una telefonata, dopo aver fatto lo stesso con il suo omologo di Ubi, Victor Massiah. Io ero a casa, a Brescia, quando ricevetti la telefonata di Messina. Rimasi molto colpito dalla notizia, ma condivisi subito la scelta dei vertici della banca di tenermi fuori dall’operazione».

La prima offerta ostile nel panorama bancario italiano, il cda di Ubi che per due volte la boccia, la guerriglia legale, il rilancio di Intesa Sanpaolo e poi la scelta dei soci Ubi che aderiscono all’offerta. Come giudica quanto è avvenuto?
«Proporrei una chiave di lettura meno condizionata dagli echi di una cronaca che ha enfatizzato certe prese di posizione secondo una prospettiva da duello rusticano, che non consente di capire in modo compiuto l’importanza di questa operazione. L’offerta, nella definizione che ne ha dato Messina, non era ostile, ma “non concordata”».

Beh, poco cambia. Per lei, uomo di tante integrazioni bancarie, ma anche di mediazione per eccellenza, dev’essere stato comunque uno strappo.
«È vero, tutte le operazioni di integrazione da me promosse sono avvenute in modo consensuale. Ma questa volta, come hanno spiegato anche esponenti di Intesa nei loro incontri con gli azionisti di Ubi, l’offerta non poteva essere negoziata prima di essere lanciata».

E perché mai?
«Per quanto accaduto, circa un anno fa, nell’azionariato di Ubi. Un azionariato, sino a quel momento coeso, si era diviso. Dal patto di sindacato che aveva riunito i maggiori azionisti di Ubi, piccoli e grandi e di diverse provenienze territoriali, uscirono alcuni soci per dare vita a un nuovo patto di consultazione, il cosiddetto Car, in cui confluì il 18% del capitale».

Ma perché quella rottura ha cambiato le cose?
«Perché il Patto precedente – che continuò a esistere, ma con solo l’8% del capitale – rappresentava, come ho detto, una pluralità di soci in dialogo con le molteplici aggregazioni di azionisti storici, mentre il nuovo accordo aveva una natura diversa, essendo composto da pochi grandi azionisti con una soglia minima dell’1% del capitale. Per effetto di questa frattura che Intesa ha comprensibilmente sostenuto di non avere un interlocutore con cui trattare, che indiscutibilmente rappresentasse l’azionariato di Ubi. Da qui la scelta di lanciare un’operazione non concordata. E a me viene quasi da pensare che quello strappo possa aver propiziato l’offerta di Intesa».

Proprio alla luce della nascita del Car, contrapposto al precedente patto, c’è chi vede nell’operazione Intesa su Ubi una sua rivincita, professore, contro chi era uscito da quell’accordo. Del resto lei, come Massiah e alcuni esponenti dell’azionariato Ubi, è anche a processo a Bergamo, accusato di un “patto occulto” tra grandi soci di Bergamo e Brescia.
«Nessuna rivincita: come le ho già detto, sono stato informato dell’operazione a cose fatte e non ho avuto alcuna informazione, né sono stato coinvolto nelle fasi di svolgimento dell’offerta. Per quanto riguarda il processo, che è tuttora in corso, preferisco non fare alcun commento, limitandomi a ribadire di aver sempre agito nel pieno rispetto delle disposizioni della vigilanza di Banca d’Italia, come lo stesso governatore Carlo Azeglio Ciampi ebbe a riconoscermi».

I soci di Ubi, vendendo a Intesa il 90% delle azioni, hanno smentito sonoramente il doppio rifiuto dell’offerta espresso dal cda della loro banca. Come giudica il comportamento combattivo di Massiah in questa vicenda?
«Conosco la posizione psicologica in cui si è trovato, quella di chi viene colpito da una mossa che ritiene aggressiva e mentre legittimamente persegue progetti diversi. È accaduto anche a me. Ma credo che chi si trova in tale posizione debba sempre chiedersi se la sua reazione sia una difesa di tutti gli azionisti e non diventi, magari senza accorgersene, una semplice difesa dello status quo, compresa la governance in vigore in quel momento».

Quando lei parla di “un’idea vincente di banca”, è quella che possiamo ancora definire di finanza bianca o cattolica, che in fondo è il solco nel quale sono cresciuti entrambi i gruppi?
«No, tutto questo è superato, nel senso che molte delle istanze della finanza cattolica – a cominciare da quella per cui l’interesse della banca non si identificava solo con quello dei suoi azionisti e quindi tradizionalmente una parte degli utili veniva redistribuita in beneficenza – sono ormai state accettate in senso più generale. Esse contribuiscono infatti a definire il ruolo che una banca può e deve avere non solo per i propri stakeholders, ma per le comunità e i territori in cui opera. Lo chiedono ad esempio grandi investitori internazionali, come Blackrock, che riconoscono a Intesa Sanpaolo di essere uno dei campioni mondiali in questo senso, con una grande sensibilità e attenzione ai temi sociali e culturali».

Non per essere blasfemo, ma Blackrock può davvero sostituire il Vangelo?
«Penso che una parte del capitalismo internazionale e americano abbia capito che lo sviluppo sostenibile e di lungo termine, anche nella finanza, può essere legato solo a delle precise condizioni di responsabilità sociale. E spero che uno degli effetti benefici della tragedia del Covid-19 sia la scoperta che anche i Paesi ricchi sono esposti agli stessi rischi di quelli poveri di fronte a questa pandemia. Cioè, la rivelazione di una fragilità estrema e comune, che impone di correre ai ripari».

Perché alla fine promuove l’operazione di Intesa Sanpaolo?
«Non spetta a me approvare o “benedire” questa operazione cui non ho partecipato. Mi limito a osservare che essa è nell’interesse dell’Italia. Ho sempre sostenuto che la banca è un’impresa speciale, non solo perché deve tutelare il risparmio, come prescritto dalla Costituzione, ma perché deve contribuire allo sviluppo economico, sociale e civile delle comunità in cui opera. Intesa Sanpaolo è nelle condizioni migliori per continuare a svolgere questa missione. È importante sottolineare che la stessa Banca centrale europea vede in questa integrazione in ambito nazionale il primo passo verso un ruolo di Intesa Sanpaolo a livello continentale. Abbiamo bisogno di una banca italiana forte, fortissima, e questo riconoscimento da parte della vigilanza europea consente all’Italia di giocare una partita nel credito in posizione di primo piano; posizione che purtroppo in altri settori al nostro Paese non viene riconosciuta».

Una banca fortissima, in Italia è anche un rischio per la concorrenza. Non a caso l’Antitrust ha espresso dubbi e prescritto rimedi per l’operazione, ordinando a Intesa di vendere oltre 500 sportelli proprio per non essere troppo forte. Non vede anche lei questo rischio?
«Questa è una valutazione che il provvedimento finale dell’Antitrust disciplina in modo chiaro e incontrovertibile. E comunque le quote finali detenute da Intesa Sanpaolo sono simili a quelle detenute dalle grandi banche spagnole, francesi e inglesi. Molto si giocherà comunque sulla capacità della banca offerente di tenere presenti i valori fondanti di Ubi e mantenere gli impegni presi nei confronti delle persone e delle istituzioni».

Ma Ubi stava lavorando per un terzo polo bancario.
«A mio avviso, Ubi ha perso la sua occasione d’oro nel 2015, quando per prima si è adeguata alla legge di riforma delle Popolari, trasformandosi in Spa. Allora avrebbe potuto essere il perno di un terzo polo bancario, mettendo a frutto i suoi vantaggi: l’area di insediamento, un azionariato coeso, un’ampia e fedele base di clientela. Invece rimanendo stand-alone, è diventata un ibrido: inutilmente grande in Italia, troppo piccola in Europa. Con un forte rischio di diventare presto preda di istituti stranieri. Per questo la proposta che Intesa Sanpaolo ha rivolto ai soci Ubi, e che questi alla fine hanno plebiscitariamente accettato, risulta la soluzione migliore».

da repubblica
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