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Autore Discussione: CINA -  (Letto 11462 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Ottobre 29, 2020, 07:16:27 pm »


Diario da una stanza di isolamento

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Rep: | Hotpot - Cosa bolle in Cina
mar 27 ott, 08:01 (2 giorni fa)
a me


Rep: Hotpot di Filippo Santelli

27 ottobre 2020

Ciao a tutti da Nanchino.


Come vi raccontavo nell'Hotpot della scorsa settimana, al rientro in Cina sono stato trovato positivo al coronavirus e trasferito in una struttura sanitaria “Covid” della città di Nanchino. Domenica 18, verso le 22, mi hanno chiuso a chiave dentro questa stanzetta d’ospedale tre metri per cinque, priva di luce naturale, dove starò finché non tornerò negativo. Ecco il mio diario.


Martedì 20, secondo giorno di isolamento: darsi una routine

Dopo un giorno di "ambientamento" ho deciso che mi devo dare una regola, scandire le giornate. Così alle 5.30, quando mi svegliano per raccogliere il campione di espettorato, mi metto i calzini da ginnastica e inizio a camminare avanti e indietro con la musica nelle orecchie. Da un angolo all’altro della stanza, circumnavigando i due letti, sono otto passi. Vado avanti per circa 45 minuti, dovrebbero essere circa 3 chilometri. Mi aiuta molto ad attivarmi e scaldarmi, visto che nella stanza fa freddissimo. Poi inizio la terapia che il medico mi ha prescritto: due pastiglie, tre volte al giorno, di un antivirale di produzione russa che si chiama Arbidol, che la comunità scientifica considera inefficace, e un aerosol di interferone. Dovrebbero impedire al virus di moltiplicarsi, ma si sa che per il coronavirus al momento non ci sono cure. Nel pomeriggio riesco a far capire a un'infermiera che dal termoconvettore esce solo aria fredda e lei mi aiuta a spostarlo sul caldo. Evviva! Funziona sì e no, va in blocco molto spesso. Ma è qualcosa. Sull’onda dell’entusiasmo provo a chiedere anche se mi danno una sedia al posto del mini sgabellino in dotazione, unica cosa a cui appoggiare il sedere a parte il letto. Questa volta la risposta delle infermiere in chat è secca: “No”.

 
Mercoledì 21: e luce fu

Mi è passato il mal di schiena, ma ora ho il naso tappato. Chssà se è un sintomo del virus o l'effetto dell'aria di questa stanza. Per la prima volta viene una persona a pulire per terra. Una passata di mocio, durante la porta resta aperta, così posso piazzarmi lì davanti e guardare fuori. C’è il corridoio del reparto Covid, con un orologio su cui si alternano le scritte "non fumare" e "auguri di pronta guarigione". Ma soprattutto ci sono le finestre, da cui entra la luce del sole. È la prima volta in tre giorni che la vedo, devo socchiudere gli occhi. La signora ci mette circa 20 secondi a pulire, poi esce e richiude la porta.

 
Govedì 22: rumori dalla stanza accanto

Dopo avermi tamponato ogni mattina per tre giorni consecutivi, oggi le infermiere non passano, quindi posso dormire un pochino di più. Alle 7 però qualcuno entra comunque in stanza, lascia la colazione sul tavolo e mi riempie il thermos gigante di acqua calda, irrinunciabile toccasana per i cinesi. La noia è tanta. Una delle infermiere ha una cartelletta, sbircio su un foglio: ci sono una trentina di nomi sopra, i miei compagni di sventura (una parte o tutti?), quasi tutti cinesi. Ogni tanto sento quello della stanza a fianco scatarrare. Il suono, tipico della Cina, non è dei più melodici. Ma in questo caso serve a ricordarmi che fuori dalla mia stanza c'è un mondo.


Venerdì 23, quinto giorno di isolamento: e se fosse un test?

Mi hanno scritto centinaia di persone, soprattutto su Instagram, un'ondata di affetto e di stima inattesa. Vorrei provare a rispondere a tutti, se non altro mettendo un “cuore” sui loro messaggi, ma sono davvero tanti e non posso passare tutta la giornata attaccato al telefono. Inizio a pensare cose strane, per esempo che questo in realtà sia un test del mio spirito di esplorazione, che la porta sia aperta e basti aprire la maniglia per uscire ed essere libero. Allora ci provo, provando a nascondermi dalla telecamera. Ma è chiusa.

 
Sabato 24: senza gusto

Perdo il senso gusto, uno dei sintomi comuni legati al coronavirus, o almeno così credo. Anche del cioccolato all’arancio che mi sono portato dall'Italia non percepisco quasi nulla, se non la consistenza. Forse è una benedizione, visto il cibo dell’ospedale: per la prima volta finisco quasi per intero una delle porzioni che mi portano. Mi scrive la dottoressa Chen per annunciarmi che hanno attivato un wifi, anche se lei lo chiama “wife”, moglie. Che lo abbiano installato apposta per me, il gornalista straniero? La linea si chiama “stazione reparto D2”. Password: 12345678. Ma non la uso, ho la mia saponetta di cui mi fido di più. Alla sera guardo X-Factor nel letto.

 
Domenica 25: il primario ride

Nel pomeriggo bussano. Entra una dottoressa, si presenta come Zhong, il “dottore capo”. È la prima volta che un medico mi viene a vedere di persona, finora avevo interagito con la dottoressa Chen via WeChat. Mi dice che parla poco inglese, come fanno quasi tutti i cinesi, ma in realtà lo mastica: proviamo a comunicare mischiandolo con il mandarino. Mi chiede se voglio sapere delle cose e io ne approfitto per chiederle quanto andrà avanti il mio isolamento. Mi spiega che potrò uscire quando i tre tamponi, naso, bocca e ano, saranno tutti negativi per due volte di fila. Le chiedo quanto tempo ci vuole di norma per un paziente per negativizzarsi e lei mi dice che non si può dire, alcuni pazienti ci hanno messo tre, quattro settimane, altri sono rimasti qui quattro mesi. Ride in maniera amichevole, ma a me non fa molto ridere. Le chiedo allora se possono darmi una vera sedia al posto del minuscolo sgabellino, devo lavorare, magari lei che è il capo me ne farà avere una. Mi risponde che non ci sono sedie qui, anche le "sue" infermiere usano gli sgabelli. Me lo mima pure, sedendosi su uno sgabellino e facendo finta di consultare dei fogli. Ultima domanda: le chiedo se possono aprire la porta e farmi vedere un po' di luce naturale per dieci minuti al giorno, questa artificiale non mi fa bene alla salute. Mi risponde di no: nel reparto ci sono malati con sintomi, ma che non sono stati ancora confermati positivi al virus. Se tengono aperta la mia porta rischio di contagiarli.


Lunedì 26: il bucato non si asciuga

Oltre alla passeggiata mattutina inizio a fare degli esercizi di ginnastica con la app della Nike. Ero in forma prima di entrare qui, vorrei provare a non perderla del tutto. Faccio anche un po' di bucato, ma il problema è stenderlo. L'unico luogo utile è l'asta della tenda della doccia, devo limitarmi a due mutande, un paio di calzini e una maglietta. Dopo parecchie ore sono ancora tutti bagnati, le sposto sulle ante aperte dell'armadietto in stanza, sotto al termoconvettore, lì con il passaggio dell'aria dovrebbero asciugarsi un po' più in fretta.

...

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Filippo


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« Risposta #16 inserito:: Novembre 19, 2020, 11:20:29 pm »

Rep: Hotpot di Filippo Santelli

17 novembre 2020

Ciao a tutti da Nanchino.
Domenica 18 ottobre, al ritorno in Cina dall’Italia, sono risultato positivo al coronavirus e trasportato in una struttura sanitaria “Covid” della città di Nanchino, dove sono stato chiuso in una stanza di isolamento tre metri per cinque e senza luce naturale. Questo è il mio diario.

Martedì 10, ventitreesimo giorno di isolamento: la rabbia
Un altro test dell’espettorato, un’altra positività. Questa volta ho un moto di rabbia. Avrei voglia di prendere a calci la porta, di iniziare a urlare, se non altro per capire che cosa mi farebbero. Non sopporto più questo letto con il materasso a sottiletta e il lenzuolo di un materiale che appiccica, non sopporto più il blocco di riso che mi servono due volte al giorno, non sopporto i silenzi dei dottori, a cui devo essere sempre io a chiedere i risultati dei test. Non sopporto l’ottuso estremismo di questo Paese nell’affrontare il virus: "Non lo sapete che dopo venti giorni non si è più contagosi?", avrei voglia di gridargli. Ma conosco la Cina, prendere a testate il sistema non serva a nulla.

Mercoledì 11: italiani
Mi scrive un amico, dicendo che c’è un altro italiano nella mia stessa situazione e girandomi il contatto. Enrico, nome di fantasia, è isolato in un ospedale di Xiamen, una città sulla costa nel Sud della Cina, da neppure una settimana. Forte dei miei 24 giorni mi tocca informarlo: non sarà breve. Enrico è uno di quegli italiani, non pochi, che vivono nella Cina profonda, in metropoli di cui la maggior parte di noi non ha mai sentito il nome, dove trovare una margherita bufala e alici o una buona scuola internazionale è molto più difficile che a Pechino o Shanghai (e già a Pechino non è che sia facilissimo…). Mi manda un video della sua stanza, poche differenze. Lui ha un compagno di isolamento, un ragazzo filippino “molto simpatico”. Ci credo, a Pechino giocavo a basket con un gruppo di filippini, ma preferisco stare da solo. In compenso invidio la sua porta con una parte centrale in vetro, da cui entra luce naturale e si può vedere l’esterno. “Ma tra quella e la camera c’è un’altra porta a scorrere", mi dice Enrico. "E le infermiere vogliono che la teniamo sempre chiusa”. Anche a Xiamen, quindi, niente luce.
Non è notte, è l'aspetto della mia stanza alle 11 di mattina, ma con la luce spenta

Giovedì 12: venticinquesimo giorno di isolamento: tutti pagheranno
Mi scrivono in tanti, soprattutto su Instagram, un fiume di affetto e di stima che non avrei mai immaginato di ricevere. Ci sono persone estranee che condividono con me i momenti difficili, a volte tragici che stanno vivendo, per il Covid e non solo: è così toccante da spiazzarmi. Poi arrivano anche dei messaggi bizzarri, il mondo è pur sempre un posto strano. Una signora mi consiglia “con il cuore” di affidarmi a Michele Arcangelo, “potente immagine del coraggio, che con la sua lucente spada di dispenserà la forza per resistere e mantenere la lucidità”. La cosa andrebbe pure bene, ma capisco meno la minacciosa chiusura: “Arriverà il giorno in cui tutti pagheranno!”. Tutti chi?

Venerdì 13: punzecchiato da uno stuzzicadenti
Raramente mi ricordo un sogno, ma quello che stamattina all'alba è vivido. Sono in una specie di labirintico centro benessere, piano di porte e di scalette, in cui mi aggiro con un asciugamano e delle ciabatte blu. Lo esploro, una serie di stanze spoglie, delle docce, mi perdo, ma poi chiedo indicazioni e riesco a trovare l’uscita seguendo un gruppo di ragazzi. Fuori però non è finita: mi dicono che devono testarmi, di aspettare in piedi in corrispondenza di un segno sul pavimento. Un ragazzo mi misura la febbre, poi inizia a punzecchiarmi sul petto con uno stuzzicadenti. La cosa non mi piace, ma non provo dolore. Alla fine della procedura, un po’ esitante, il ragazzo dice che sono positivo e alza subito il telefono per fare una chiamata. Vorrei dirgli: “Certo che sono positivo, sono già in isolamento”. Ma poi penso: e allora perché sono uscito? Perché sono venuto al centro benessere. Ora mi puniranno di sicuro! Per fortuna mi sveglio.
Le ciabatte blu erano anche nel sogno

Domenica 15, ventisettesimo giorno di isolamento: temperatura!
Vi dicevo che è arrivata una nuova squadra di infermiere. Il problema è che con le vecchie si era creato un buon equilibrio, per esempio sul controllo della temperatura, una delle incombenze previste dal protocollo. Me la chiedevano quando capitava, un paio di volte al giorno, io rispondevo con i miei tempi, tutto bene. Le nuove infermiere invece hanno cominciato con ben altro piglio: chiedono la temperatura quattro volte al giorno. E negli ultimi due giorni la cosa si è fatta ancora più pressante, visto che l’ultimo sollecito via chat arriva ben oltre la mezzanotte. L'ho ignorato e mi sono addormentato, solo che verso le 2 quelle hanno iniziato a chiamarmi a ripetizione. Non ho risposto, e l’unico risultato è stato che alle 3 un’infermiera ha spalancato la porta della stanza per ribadire il concetto: ti wen! Temperatura! L’ho mandata a quel paese, pensando di archiviare una volta per tutte il problema. Ma non avevo fatto i conti con l’ossessività con cui i cinesi, anche per paura di essere puniti, osservano le procedure. Questa notte infatti, verso le 3. Un’infermiera ha fatto di nuovo irruzione nella stanza. E per aggirare la mia resistenza si era portata dietro uno di quei termometri a forma di pistola che la Cina ha in dotazione. Immaginate di essere svegliati durante la notte di soprassalto e vedere una specie di astronauta dentro uno scafandro bianco marciarvi incontro con una pistola spianata. Ecco. Al mattino ho protestato con la dottoressa Zhou, chiedendo se la misurazione notturna potesse cessare. Ma neanche il suo “ok” ha potuto molto, perché qualche minuto dopo un’altra infermiera, credo la capa, ha bussato alla mia porta in assetto da negoziazione, con il traduttore simultaneo in mano. “Bisogna misurare quattro volte”, mi fa. E io, sapendo che con i cinesi l’aggressività premia: “E' trenta giorni che misuro, ora basta”. Dopo un lungo tira e molla di cifre e orari, che neanche al mercato della Seta di Pechino, ci siamo accordati su tre misurazioni: 10, 14 e 18. Non so chi abbia avuto la meglio, ma la notte dopo nessuno entra in camera.

Lunedì 16: passi sul tetto

L'inizio della settimana è sempre il momento più duro. Qu non c'è differenza tra martedì, venerdì o domeniche, ma la testa resta legata agli schemi di fuori, per fortuna.  Il nuovo test mi dà ancora positivo, cosa che non migliora l'umore. Mi faccio mandare il referto dal dottore, ma tanto so che è inutile, non dice nulla oltre a "positivo" e al tipo di gene che è stato trovato "ORF1ab". Sento dei passi sul tetto della mia stanza, forse dei lavori di riparazione. Il cielo in fondo è lì, tre metri sopra la mia testa. Dico al dottor Zhou che ormai sono qui da un mese, magari posso uscire per dieci minuti. Terrò la mascherina e le infermiere potranno controllare che non scappo :-). Risponde "ne parlo con il capo". Sempre meglio di un no.

Sto raccontando il mio isolamento anche su Twitter e Instagram.

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« Risposta #17 inserito:: Novembre 24, 2020, 09:17:31 pm »

Ciao a tutti da Nanchino.

Domenica 18 ottobre, al ritorno in Cina dall’Italia, sono risultato positivo al coronavirus e trasportato in una struttura sanitaria “Covid” della città di Nanchino, dove sono stato chiuso in una stanza di isolamento tre metri per cinque e senza luce naturale.

Questo è il mio diario.


Martedì 3, sedicesimo giorno di isolamento: fragili

Mattina presto, appena apro gli occhi sento un pianto. Viene dalla stanza accanto, passa attraverso queste paretine di plastica, o almeno così mi sembra. Una donna parla al telefono e piange, un singhiozzare disperato che dura mezz’ora. Forse di più. Anche a me succedeva all’inizio, soprattutto quando parlavo con la mia famiglia, oppure sotto la doccia. Poi dopo un paio di giorni mi sono indurito, mi sono costruito una corazza, ho ricacciato i brutti pensieri dentro e in fondo. Ma sentire la mia vicina di stanza piangere mi ricorda che quei pensieri sono sempre lì. Che qui dentro siamo tutti fragili. Quando ero in quarantena in hotel, quella per i viaggiatori in arrivo, distribuivano dei questionari psicologici e c'era un numero di telefono da chiamare in caso di problemi, la cosa mi aveva stupito in positivo. Qui tutta l'attenzione per il benessere psicologico è sparita, è evidente che le priorità sono altre. La vicina piange ancora. Metto gli auricolari e accendo la musica.

 

Mercoledì 4: una prova dell'esistenza del mondo

E invece stamattina il suono è diverso. Forse sto ancora sognando? O saranno allucinazioni? Mi sembra di sentire un uccello. No, è proprio un uccello. Sembra che il cinguettio arrivi dall’impianto di aerazione: è probabile che sia entrato dalle bocche esterne e che ora non riesca più a uscire. Non posso dire che mi dispiaccia: il suo canto è il primo suono naturale che mi arriva da oltre due settimane, una prova che il mondo esiste ancora. Nel corso della giornata sento che si sposta, poi a sera sparisce. Spero abbia trovato la via per uscire. Qualcuno mi chiede qual è la prima cosa che farò quando mi lasceranno andare. Mi piacerebbe rispondere una passeggiata in un bosco, ma Pechino è quello che è, mi accontenterò di un parco. Oggi per la prima volta, oltre alla signora che pulisce il pavimento, ne entra una per pulire il wc. Non riesco a spiegarmi perché abbiano iniziato oggi. Si erano dimenticati? Intanto dall'Italia mi avvertono che gli uffici visti cinesi hanno annullato tutti gli appuntamenti: la Cina sta di nuovo bloccando l’accesso agli stranieri provenienti da una serie di Paesi, tra cui il nostro. Se possibile, le persone a cui voglio bene sono ancora più distanti. Mi fanno un altro test dell'espettorato, ma è ancora positivo.

 

Sotto: la signora addetta alla distribuzione dell'acqua calda

 

Image
 

Giovedì 5, diciottesimo giorno di isolamento: il mandarino

Apro Facebook, non lo faccio spesso. Il primo post che l'algoritmo mi propone è quello di un amico, tragico. Suo padre è morto di Covid-19, da solo, senza che nessuno della famiglia potesse stargli vicino. L’ho sentita tante volte ormai questa storia crudele, ma è la prima volta che arriva così vicino a me. Il post del mio amico è una pugnalata al cuore: racconta che quando gli è arrivata la chiamata dell’ospedale, quella in cui lo avvertivano che suo papà era in rianimazione, di prepararsi al peggio, stava mangiando un mandarino. La metà non finita del mandarino è rimasta sul tavolo per giorni, mentre aspettava una nuova chiamata dell'ospedale. Metà mandarino è il confine tra la vita di prima, intera, e quella dopo, spezzata. Ho una paura atroce che possa succedere qualcosa ai miei cari mentre sono chiuso qui dentro, dall’altra parte del mondo. Ma in fondo, anche se fossi in Italia, cosa cambierebbe? Ogni malato di Covid-19 vive o muore da solo, isolato, irraggiungibile. 

 

Venerdì 6: buona nuova

Non è ancora LA buona notizia, ma è una buona notizia. Il risultato del mio espettorato oggi è passato da “positivo” a “sospetto”. Chiedo alla dottoressa Chen che cosa significhi da un punto di vista scientifico. Lei mi risponde in modo non troppo scientifico: “Che sta migliorando”. Capisco che non otterrò molti più dettagli, mi accontento. Probabile che questo test dal risultato non chiaro, intermedio, sia l'effetto di una riduzione della carica virale. Sull’onda dell’entusiasmo la dottoressa torna a offrirmi il farmaco “gratuito” che mi aveva proposto la scorsa settimana, la timopentina. Dice che una signora inglese entrata con me lo ha preso e dopo quattro giorni era negativa. Mi sento un po’ preso in giro, ho il dubbio che l’ospedale insista perché ha in corso una sperimentazione, ma poi penso che potrebbe anche essere reale sollecitudine, qui sono convinti che anche un positivo senza sintomi sia malato e vada curato. Declino con gentilezza.

 

Sotto, un baozi, il panino soffice ripieno tipico delle colazioni cinesi, il cibo più buono che mi danno qui

 

Testo alternativo
 

Sabato 7, ventesimo giorno di isolamento: saltelli

Ho un autonomia di lavoro limitata: tra la luce artificiale, la difficoltà a concentrarmi e la scomodità dello sgabellino riesco a scrivere al massimo per un’oretta e mezza, poi ho bisogno di una pausa. Ma nelle giornate in cui non lavoro, come oggi, non so bene come passare il tempo. Mi convinco a fare esercizio, la ginnastica accelera il metabolismo e mi mette appetito, anche se non ne posso più di quel monoblocco di riso a pranzo e a cena. Quando facco i saltelli la camera trema tutta, chissà cosa penseranno i vicini. Chissà se le infermiere stanno guardando dalla telecamera di sorveglianza e se la ridono. Chissà che pensano dello straniero del letto 35.

 

Domenica 8: non ce la farò

Dopo quel tampone “sospetto” ci spero, oggi arriverà quello nagativo. Il risultato invece mi gela: di nuovo positivo. Chiedo a dottoressa Chen come sia possibile, lei mi risponde che nella fase di miglioramento possono arrivare dei risultati diversi. Non vuol dire che le cose vadano peggio. Ma nella mia testa è un passo indietro, e mi abbatte. L'orizzonte del mio isolamento si allunga, probabilmente non riuscirò a salutare due cari amici che lasciano la Cina. Se ne stavano già andando in molti, in questi mesi di pandemia ancora di più. Vivere in Cina era difficile, ora per chi ha parte della famiglia in Italia è impossibile. Un’amica si trasferisce sabato a Hong Kong, un amico lunedì torna in Italia per sempre. Se il mio espettorato oggi fosse stato "pulito" avrei avuto una speranza di avere i due test negativi in settimana e uscire venerdì. Ora diventa quasi impossibile. Mi finisco anche tutti i taralli, della dispensa che mi ero portato in valigia ormai non resta che una confezione di salmone e qualche prugna. 

 

Lunedì 9: il cambio della guardia

Inizia la quarta settimana qui dentro. "Vedrete che ci starò un mese", avevo detto all’inizio. Ora penso che un mese sarebbe un lusso, rischia di essere di più. La dottoressa Chen mi saluta e mi annuncia che torna al suo vecchio incarico, senza specificare. Mi spiega che d’ora in avanti passerò sotto le cure, sempre via WeChat, del dottor Zhou. O forse della dottoressa Zhou, con i nomi cinesi non si sa mai, ma a giudicare dalla sua foto profilo, un campo di girasoli, potrebbe trattarsi di un’altra donna. Faccio mente locale, da quando sono qui dentro non ho mai interagito con un uomo: per le singore delle pulizie e le infermiere è abbastanza normale, in Cina restano lavori prettamente femminili, ma i medici dove sono? Comunque sotto gli scafandri, dalle voci, mi sembra di capire che anche le infermiere siano cambiate. Negli ospedali Covid funziona così: i lavoratori vengono assegnati per un certo periodo, durante il quale devono restare anche loro in isolamento quando staccano e non possono vedere la famiglia. Non è facile neanche per loro.

 
Potete seguire il mio racconto quotdiano su Twitter e Instagram.

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« Risposta #18 inserito:: Novembre 25, 2020, 07:05:20 pm »

Perché il santuario della fauna selvatica di Sakteng in Bhutan è contestato dalla Cina - BBC News

Posta in arrivo

ggiannig <ggianni41@gmail.com>
08:18 (10 ore fa)
a me

https://www.bbc.com/news/world-asia-55004196
 
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« Risposta #19 inserito:: Novembre 25, 2020, 09:23:07 pm »

Rep: Hotpot di Filippo Santelli


24 novembre 2020

Ciao a tutti da Nanchino.

Domenica 18 ottobre, al ritorno in Cina dall’Italia, sono risultato positivo al coronavirus e trasportato in una struttura sanitaria “Covid” della città di Nanchino, dove sono stato chiuso in una stanza di isolamento tre metri per cinque e senza luce naturale. Questo è il mio diario.

 

Martedì 17 novembre, trentesimo giorno di isolamento: il carcere

“Ma è più un carcere o un ospedale?”, mi chiede qualcuno. Forse una via di mezzo. O meglio, una somma dei due. In questa stanza d'ospedale chiusa dall'esterno due obiettivi si sovrappongono, curarmi e isolarmi. Solo che ormai è evidente che di cure non ne ho più bisogno, ammesso che mai l’abbia mai avuto. Ora è rimasta solo la necessità per la Cina di proteggere quelli che stanno fuori dal pericolo che rappresento. Di tenermi qui finché non sarò tornato un membro sano della società. Ora è rimasto solo il carcere, anche se i secondini che mi chiudono la porta alle spalle sono medici e infermieri.

 

Mercoledì 18 novembre: la telefonata

Mi chiama un funzionario del ministero degli Esteri cinese, è il responsabile dell’ufficio che segue i corrispondenti italiani. È molto gentile, dice che stanno seguendo la mia situazione, di fargli sapere se ho bisogno di qualcosa. Intuisco però che quella telefonata non è solo di cortesia, infatti a un certo punto il funzionario dice di aver letto i miei "commenti sui vaccini cinesi”. Ecco il punto: mi è capitato di raccontare che la Cina sta inoculando i suoi vaccini a centinaia di migliaia di persone senza aver ancora completato i test. “Hai detto che il vaccino è pericoloso”, attacca il funzionario. No, non l’ho detto: ho detto che la sperimentazione è completa quindi sicurezza ed efficacia non sono ancora pienamente dimostrati. Lui alla fine prova una mediazione, qualcosa del tipo "ci eravamo fraintesi". Ma non sono in vena: questa telefonata mi sembra un tentativo di far leva sulla mia condizione per farmi pressione. No: gli ribadisco che ha capito male lui e lo ringrazio per la chiamata.

     

Giovedì 19 novembre: pizza

Da giorni mi sveglio con in bocca una voglia matta di pizza. La prenderei wurstel e patatine fritte, come quando avevo 14 anni.


Venerdì 20 novembre, trentatreesimo giorno di isolamento: il primo negativo

Per la prima volta non sono io a dover chiedere il risultato dell’espettorato alla dottoressa Zhou. Stavolta è lei a scrivermi, e c’è un motivo. Il messaggio che aspettavo da giorni: negativo! Ho una scarica di adrenalina, è dfficile non esaltarsi. Ma non devo, questo è solo il primo passo. Come mi spiega subito la dottoressa, da domani inizia la “verifica continua”. Ogni giorno verrò sottoposto a tre esami, il solito espettorato, un tampone in bocca e uno nell’ano (diversi, ci tengo a precisarlo). Solo se tutti e tre risulteranno negativi per due giorni di fila potrò uscire.

 

Sabato 21 novembre: la botta

E infatti arriva subito la delusione. La dottoressa Zhou non mi scrive, così sono di nuovo io a farmi vivo per chiedere i risultati, con un brutto presentimento. “Positivo”. A tutti e tre i test? “No, i due tamponi sono negativi, l’espettorato positivo”. A richiesta, la dottoressa offre anche una spiegazione: il test dell'espettorato ha una maggiore probabilità di trovare il virus rispetto agli altri due. Una veloce ricerca su Internet sembra confermare. Gli articoli che trovo spiegano che in fase di guarigione l'espettorato può "accendersi" o "spegnersi" varie volte, anche se la carica virale è molto bassa. Ma quest'ultima parte alla Cina non interessa, per la Cina esiste solo positivo o negativo. Cioè isolato oppure libero. Chiedo alla dottoressa di riprovare con i test subito, il giorno dopo. Ci dò dentro con i gargarismi, provo persino degli sciaqui al naso sotto la doccia, finchè non mi lacrimano gli occhi: tutto pur di lavare via ogni frammento di Dna di Sars-Cov-2.

 
Domenica 22 novembre, trentacinquesimo giorno di isolamento: oltre lo specchio

Il problema è che durante la notte la temperatura crolla a picco. È arrivata quella che i cinesi chiamano xiao xue, piccola neve, la prima ondata di freddo invernale. E si sente anche qui a Nanchino, fin dentro la mia stanza. La pompa di calore non può nulla, va in blocco ogni cinque minuti. Provo a resistere mettendomi due calzini, due pantaloni, due maglioni, il cappotto e il cappello, ma solo camminando sto un po’ meglio e non posso certo passare la giornata a fare avanti e indietro nella stanzetta. Dopo aver provato senza troppa convinzione a far partire il condizionatore (sopra), le infermiere si convincono a farmi cambiare stanza. Butto i vestiti dentro la valigia e le altre cose sul letto, che mi segue come un portapacchi nella stanza a fianco. La gita è un bel diversivo, per la prima volta da un mese varco la soglia che mi separa dalla libertà. Ma dura pochi secondi, il tempo di entrare nell’altra stanza. È perfettamente speculare alla prima, solo molto più sporca, come mi accorgerò dopo.

Per ora sono solo contento che sia calda, qui la pompa di calore funziona. L’altra grande novità è che la stanza di fronte è occupata, due ragazzi si sbracciano dalla finestra e due minuti dopo stiamo già parlando al telefono. Sono una coppia russa, insegnano in Mongolia Interna, sono qui da 25 giorni. Dopo dieci minuti non so più cosa dirgli, in testa ho solo un pensiero: andarmene da quel posto. E alle 22, tardissimo, arriva una bella notizia, oggi i tre tamponi sono tutti negativi. Sono a un passo dall’uscita.

Lunedì 23 novembre: gridare

La giornata si riduce a un’unica grande attesa, nuda, snervante, di quelle che accorciano il respiro. Man mano che le ore passano e che la dottoressa non mi scrive i presagi negativi aumentano. Non osa farle la domanda, perché ho paura della risposta. Provo a distrarmi lavorando, non ce la faccio. Alla fine decido di liberarmi  e il risultato è quello che temevo: due tamponi negativi, espettorato positivo. Si azzera il conto, bisogna ripartire da zero, significa che passerò almeno altri tre giorni qui dentro. La batosta è direttamente proporzionale alle aspettative, sento la rabbia salire, le pareti della stanza restringersi. Me la prendo con la dottoressa, a cui dico che un isolamento di 40 giorni non ha senso, si legga cosa dice l'Oms. Me la prendo con le infermiere per i mozziconi di sigaretta (sotto) e lo schifo che ho trovato in stanza. Poi mi cade l’occhio sulla telecamera di sorveglianza.

Non mi aveva mai disturbato sapere di essere guardato, ma stavolta ho un istinto: stacco il filo del collegamento. E’ un futile, perfino ridicolo gesto di ribellione. Ma dopo giorni in cui sono ridotto a un corpo da contenere, testare, misurare, mi fa sentire umano, mi fa stare un po’ meglio.

Il racconto del mio isolamento è anche su Twitter e Instagram.


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Filippo


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« Risposta #20 inserito:: Dicembre 19, 2020, 11:51:02 am »

Diario del mio isolamento - 6 (Fine)

Rep: | Hotpot - Cosa bolle in Cina
Mar. 1 dic, 08:06

A me

Hotpot di Filippo Santelli
1° dicembre 2020

Ciao a tutti da Nanchino.
Domenica 18 ottobre, al ritorno in Cina dall’Italia, sono risultato positivo al coronavirus e trasportato in una struttura sanitaria “Covid” della città di Nanchino, dove sono stato chiuso in una stanza di isolamento tre metri per cinque e senza luce naturale. Venerdì scorso, 27 novembre, ne sono uscito, dopo quaranta giorni di isolamento. Questo è il mio diario.
Martedì 24 novembre, trentasettesimo giorno di isolamento: l'attesa
Da quando ho ricevuto il primo espettorato negativo non esiste nient’altro, solo il pensiero delle due triplette di esami negativi che mi servono, solo il pensiero dell’uscita. Una nuda, asfissiante attesa. Ho mollato quasi tutto il resto, lavoro a fatica, perfino avere contatti con i dirimpettai russi, pure simpatici e cordiali, mi disturba. Devono averlo capito anche loro, infatti per un intero giorno tengono il telo davanti alla finestra e non si palesano. È come se nell’equilibrio fragilissimo che mi sono creato qui dentro non ci fosse spazio più per nulla o per nessuno.
Mercoledì 25 novembre: la maglietta
Non sono mai stato scaramantico, ma in queste circostanze ci si attacca a tutto. Del resto il 2020 è l’anno del topo, il mio segno nello zodiaco cinese, e mi avevano avvertito che quello può essere un periodo molto sfortunato. Io ovviamente avevo snobbato, così quando mi sono deciso a indossare un braccialetto rosso scaccia malocchio ormai era troppo tardi: l’anno era iniziato sfigato e sarebbe continuato anche peggio. Dunque, per scaramanzia, tiro fuori dalla valigia la maglietta con un tonno rosso, la mia preferita. E com’è, come non è, la tripletta di test è negativa: ne manca solo una per uscire, di nuovo. Decido anche di saltare la ginnastica, non si sa mai che il fiatone metta in circolo i frammenti del virus. In compenso faccio doppi gargarismi e lavaggi delle narici.
Giovedì 26 novembre, trentanovesimo giorno di isolamento: il messaggio 
Ovviamente indosso di nuovo la maglietta con il tonno. Ma arrivano le 12, e la dottoressa Zhou non mi scrive. Poi arrivano le 13. Poi le 13.30. So cosa vuol dire, tutte le volte che il risultato era negativo, una buona notizia, era lei ad avvertirmi. Non quando era positivo. Mi rassegno a farle per l’ennesima volta la stessa domanda, aspettandomi la stessa cattiva notizia. E invece quando vedo i due ideogrammi, yin xing, ho un sobbalzo: sembrano proprio quelli di "negativo". Tremo mentre premo il tasto “traduci” nel timore di essermi confuso tra yin e yang, cioè "positivo", maledetto mandarino. Ma il traduttore conferma: negativo! Faccio un sospiro che dura dieci secondi, in cui butto fuori settimane di acido, tensioni, paure. Chiedo alla dottoressa se posso uscire, lei risponde che un comitato di esperti deve dare l’autorizzazione finale e, se arriverà, domani potrò uscire. Credo che gli esperti siano quelli del Centro per il controllo delle malattie, l’autorità che si occupa della gestione dell’epidemia. Non capisco se si tratta di una formalità oppure se sono ancora possibili sorprese: in Cina le regole possono cambiare all’improvviso, per motivi imperscrutabili. Nel corso della giornata contatto la dottoressa due volte per avere aggiornamenti; la prima mi risponde che Internet non funziona, stanno cercando di farlo ripartire, la seconda, a sera, non dà segno di vita. Vado a dormire di nuovo teso.

Venerdì 27 novembre, quarantesimo giorno di isolamento: Fuori!
Al mattino successivo non ho ancora informazioni e, forse per la prima volta da quando sono qui dentro, perdo davvero il controllo. Quando il primario Zhong entra in stanza e mi dice, ancora una volta, che mi faranno uscire “se non ci sono problemi” vado su tutte le furie. Le dico di non chiudere la porta a chiave, perché altrimenti questa diventa una detenzione, io sono negativo. Lei risponde che deve chiuderla, sono le regole. So benissimo che non le ha scritte lei, che le subisce quanto me, ma non sopporto più la rigidità del sistema e l’assenza di informazioni. Minaccio di chiamare l’ambasciata, dico che tirerò giù la porta a calci. Lei esce e la chiude, io ovviamente i calci non li tiro. Un paio di ore dopo però entra un’infermiera con un foglio di carta: è la lettera di dimissioni, o il suo equivalente cinese. Ora è ufficiale, uscirò. L’ultimo passaggio è disinfettare le mie cose. Si portano via valigia e zaini, degli oggetti più piccoli mi devo occupare io con la lampada a raggi UV che ho in stanza. Alle 15 bussano, posso andare. Lancio un ultimo sguardo alla stanza, breve: la conosco a memoria. Percorro al contrario i corridoi della prima notte, passo davanti allo sgabelletto dove, quaranta giorni fa, l’infermiera mi aveva fatto sedere per misurarmi la pressione. A fianco alla porta c’è un bottone "exit". Lo premo, ringrazio e saluto l’infermiera, esco. Un cielo grigio non mi è mai sembrato così bello.
Sabato 28 novembre, primo giorno di osservazione: la finestra
Non è che sia proprio finita. Nella sua prudenza al limite dell’ossessione la Cina prevede altre due settimane di osservazione in albergo. Eccomi qui al Vienna dunque, hotel di Nanchino che prova a imitare i fasti della capitale austriaca, con moquette ocra, improbabili quadri sulla vita di corte e ancora più improbabili violini disegnati sulle pareti. In sostanza, dopo una lunga deviazione, sono tornato al punto di partenza, alla quarantena in hotel che mi aspettava all’arrivo. Eppure dopo l’ospedale questa camera, la 212, mi sembra un lusso: c’è un vero letto a due piazze, un asciugacapelli, invece che sullo sgabellino alto 50 centimetri posso sedermi su una sedia. Soprattutto, c’è un'ampia finestra da cui entra il sole e da cui io posso guardare fuori. La vista è sul cortile di un complesso residenziale cinese. Ci sono anziani che passeggiano sui vialetti, famiglie che portano i bambini ai giochi, fattorini delle consegne, alberi, uccelli. Due settimane e uscirò anche io: il mio isolamento ha di nuovo un orizzonte.

Fine

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« Risposta #21 inserito:: Gennaio 15, 2021, 09:51:31 pm »

Codice rosso

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Rep: | Hotpot - Cosa bolle in Cina Annulla iscrizione
mar 29 dic 2020, 08:01
a me


Rep: Hotpot di Filippo Santelli
 
29 dicembre 2020

Ciao a tutti da Pechino e Buone Feste!

Mi scuso per l'assenza non giustificata della newsletter, ma dopo i 55 giorni di isolamento Covid che vi ho raccontato avevo bisogno di staccare per un paio di settimane.

Rieccomi qui però. E purtroppo mi tocca ripartire sempre dallo stesso punto: credevo che con il ritorno a Pechino la mia Odissea epidemica fosse finita, ma non è così. Anzi, si è trasformata in una vicenda kafkiana, che racconto molto della Cina. Oltre un mese dopo essere risultato "negativo" e uscito dall'ospedale di Nanchino, 17 giorni dopo essere tornato a casa nella capitale, per errore la mia app sanitaria segna ancora codice rosso, raccomandando ulteriore "isolamento".

Non è solo un dettaglio burocratico: le app, una per ogni provincia del Dragone, sono il "passaporto" che permette di muoversi liberamente e avere accesso a uffici e locali pubblici, centri commerciali, negozi, ristoranti, perfino complessi residenziali. All'ingresso di ognuno di questi luoghi c'è una guardia o un addetto che controlla il colore del certificato sanitario digitale e solo chi è verde può entrare. Con il mio codice rosso io sono un paria, un fuori casta, mi lasciano fuori.

Perché la app non torna verde? Nessuno me lo sa spiegare ed è qui che la storia diventa kafkiana. Quando sono tornato a Pechino ho trasmesso i miei documenti sanitari, l'ultimo tampone negativo e il certificato di quarantena eseguita, alle autorità del  quartiere. Dopo una settimana ulteriore di osservazione in cui ho dovuto inviare la temperatura due volte al giorno, i controlli sono ufficialmente finiti, ma la app è rimasta rossa.

Dal quartiere hanno assicurato di avermi "sbloccato", consigliandomi di rivolgermi al Centro per il controllo delle malattie (Cdc) di Pechino, l'autorità che si occupa dell'epidemia. Dal Cdc mi dicono che è una questione tecnica, ne devo parlare con la società che gestisce la app. Dalla società che gestisce la app mi dicono che sui "rossi" come me loro non sono autorizzati a intervenire, solo il Cdc può. Così il giro ricomincia, il più classico dei rimpalli tra compartimenti stagni della burocrazia cinese, e la app resta sempre rossa. Ovviamente neanche una telefonata all'12345, il centralino amico della città di Pechino, ha aiutato. Del resto la mia assistente mi aveva avvertito: "Lo chiama solo chi ha tempo da perdere". Certo, in teoria avrei sempre le carte della città di Nanchino che certificano, stampato nero su bianco, che sono negativo, ma quasi nessuna delle guardie è disposta a leggere il documento e prendersi la responsabilità di farmi passare, anche perché ormai quel test è vecchio di venti giorni.

In attesa di capire come fare, la mia vita da uomo (non ancora) libero dipende quindi da due fattori: la casualità e gli stratagemmi. Per entrare in un qualunque posto devo sperare che non facciano controlli (a volte succede), che la guardia all'ingresso sia semi addormentata (succede pure quello, in Cina l'abbiocco sul posto di lavoro è un classico) oppure arrangiarmi mostrando da lontano una vecchia foto di quando la mia app era verde, sperando che gli addetti non si accorgano che la data non corrisponde.

Il problema è che a Pechino il livello di allerta si sta di nuovo alzando. Negli ultimi giorni in città è stata rilevata una dozzina di casi di coronavirus, proprio mentre si avvicina la migrazione di massa del Capodanno lunare. Le autorità hanno raccomandato di limitare gli spostamenti fuori città e di rafforzare i controlli all'interno. In pratica rischio di non poter più entrare da nessuna parte, neanche al supermercato.

Al di là delle mie vicissitudini personali, tutto questo conferma una volta in più quanto sia poco intelligente il sistema delle app sanitarie introdotte dalla Cina. Le applicazioni non comunicano tra diversi telefoni, quindi non servono per il tracciamento dei casi, e si basano in gran parte su informazioni inserite manualmente dagli operatori. Non è certo attraverso la tecnologia, il tanto temuto Grande Fratello hi-tech, che la Cina è riuscita ad azzerare la circolazione il virus, bensì attraverso una mobilitazione di massa di personale in carne ed ossa e una moltiplicazione dei punti di controllo. Il codice sanitario è uno di questi cancelli e io non riesco più a passare.

 
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Buon Hot Pot a tutti e buona fine di questo tragico 2020. Qualsiasi cosa verrà dopo sarà meglio.

Filippo

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« Risposta #22 inserito:: Ottobre 31, 2021, 05:52:25 pm »

Xi Jinping continua a disertare i vertici internazionali: non lascia la Cina da 21 mesi

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ggiannig <ggianni41@gmail.com>
16:17 (1 ora fa)
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https://www.lastampa.it/esteri/2021/10/31/news/xi_jinping_continua_a_disertare_i_vertici_internazionali_non_lascia_la_cina_da_21_mesi-363177/
 
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« Risposta #23 inserito:: Aprile 04, 2022, 02:32:44 pm »

La Cina secondo l'Ue

Alla fine, l’atteso summit tra Unione europea e Cina c’è stato. Breve, e molto poco operativo, a giudicare dalla durata delle riunioni – prima col premier cinese Li Keqiang poi con il presidente cinese Xi Jinping, con cui Ursula von der Leyen e Charles Michel, rispettivamente presidente della commissione europea e presidente del Consiglio europeo, hanno parlato circa un’ora. Nessun comunicato congiunto, e una conferenza stampa con domande dai giornalisti alla presenza solo della parte europea.
 
Il punto è che Pechino voleva arrivare al Summit, dopo mesi di relazioni molto complicate con l’Ue, per parlare di business.
L’Ue invece voleva parlare di Ucraina, di quello che von der Leyen ha definito “una guerra, e non un conflitto”, riguardo alla quale “non ci può essere neutralità”. Come ha scritto Stuart Lau su Politico, Bruxelles e Pechino restano su posizioni “opposte” sulla guerra, e il dialogo è stato “difficile”, ha detto una fonte diplomatica europea a Lau. 
 
Esattamente come hanno fatto già i funzionari americani, i vertici dell’Ue hanno avvertito la leadership cinese che ogni tentativo di minimizzare l’impatto delle sanzioni internazionali contro la Russia avrà delle conseguenze. Non si tratta quindi di far passare la Cina “dalla nostra parte”, come qualcuno dice, ma semplicemente di avvertire (implorare?) la Cina: non sostenere una guerra che potrebbe crearti molti casini. Non a caso von der Leyen durante la conferenza stampa di ieri ha sottolineato che tra Ue e Cina passano merci e servizi per il valore di due miliardi di euro, ogni giorno. Il volume degli scambi della Cina con la Russia non supera i trecento milioni di euro. Qui c'è l'articolo di David Carretta da Bruxelles.
 
Dopo un primo momento di sospetto spaesamento relativo alla guerra russa – come abbiamo scritto più volte, forse Pechino si aspettava qualcosa di molto più contenuto, un’offensiva sui territori del Donbas e basta – adesso si comincia a intravedere in che modo la Cina ha intenzione di capitalizzare la crisi internazionale: mostrandosi la potenza responsabile che non si intromette e spinge al dialogo e alla pace. Praticamente Xi sembra il Papa.
 
Una cosa interessante successa ieri è che Pechino ha pubblicato quello che in gergo si chiama readout, cioè il sunto della conversazione, ancor prima che la videochiamata tra Xi Jinping e l’Ue fosse terminata. Era già successo con il vertice tra il presidente americano Joe Biden e Xi, ha ricordato qui Francesca Ghiretti del Merics. Secondo diversi analisti, in questo modo la Cina vuole arrivare prima sulle breaking news internazionali, insomma fare i titoli dei giornali (un po’ come quando Giuseppe Conte parlava subito prima dei tg delle 20).
 
E cosa ha detto Xi Jinping? Che tutta la colpa è della Nato e dell’America, che l’Europa deve essere più indipendente nella sua politica estera: “La crisi ucraina deve essere gestita adeguatamente”, ha detto secondo quanto riportato dal Quotidiano del popolo, “e non può vincolare il mondo intero alla questione, per non parlare di far pagare un prezzo pesante ai cittadini di tutti i paesi a causa di questo” – tradotto: è un conflitto regionale che devono risolvere loro due, e non bisogna per forza prendere una posizione, ma occhio perché non soffre solo la popolazione ucraina, dice Xi, con le vostre sanzioni illegali soffrono anche i russi.
CINA
Una serie di attacchi hacker che avrebbero subìto istituzioni ucraine come il ministero della Difesa nei giorni tra la fine delle Olimpiadi di Pechino e l’inizio dell’invasione russa sono riconducibili al governo di Pechino. E’ uno scoop del Times, che riferiscono fonti dell’agenzia di spionaggio ucraina e confermato anche da alcune fonti d’intelligence americana. Gli hacker cinesi avrebbero tentato di rubare dati ed esplorato modi per fermare o interrompere alcune linee di difesa vitali e infrastrutture civili. Potrebbe essere un’impronta digitale, un segno di complicità di Pechino.

Del resto, come ricorda Ghiretti nell’intervista a Formiche citata prima, per la Cina il fattore economico potrebbe essere molto importante, ma lo è anche quello politico – e la superamicizia con la Russia sancita il 4 febbraio scorso tra Xi e Putin.
 
L’economia è fondamentale perché attualmente le cose stanno andando parecchio male, nonostante l’annunciato target di crescita al 5 per cento. Non c’è solo la guerra e le sue variabili (sanzioni, inflazione) ma c’è pure il Covid, ancora il Covid. E tutto a pochissimi mesi dal Congresso del Partito comunista cinese che dovrebbe lanciare Xi Jinping per un terzo, inedito mandato.
 
Pechino non ha mai cambiato la sua politica Zero Covid, Shanghai è ancora in lockdown e sebbene le autorità non abbiano dichiarato nuovi morti a causa del coronavirus, diversi media tra cui la Bbc parlano di situazioni drammatiche negli ospedali.  Un po’ ovunque nel mondo, nelle ultime settimane, c’è stato un aumento di casi di Covid eppure, se pensate all’Italia, grazie alla campagna vaccinale ricoveri e forme gravi sono drasticamente diminuiti. La situazione in Cina – di cui sappiamo molto poco, ovviamente, sempre per quel fatto del tutto trascurabile che non c’è trasparenza nei paesi autoritari – è molto grave. Mentre i paesi occidentali hanno adattato la politica da attuare a seconda dei dati e dell’analisi della fattibilità, costi economici, umani, andamento della campagna vaccinale, a Pechino invece la politica “Zero Covid” è stata politicizzata. “Non è più solo un dibattito su quale approccio funziona meglio”, ha detto a SupChina Yanzhong Huang, “Si tratta più di una competizione tra due ideologie, due insiemi di sistemi politici e persino, a giudicare da un recente articolo pubblicato su un quotidiano di Shenzhen, una competizione tra due civiltà”.
 
Ma torniamo ai rapporti tra Cina e Ucraina. Vi ricordate la storia dei cittadini cinesi che non erano stati evacuati dall’Ucraina per tempo, cioè prima del 24 febbraio? Prima l’ambasciata cinese a Kyiv diceva: tranquilli, fate un po’ di scorte e rimanente in casa, se uscite fatelo con una bandiera cinese esposta. Subito dopo, per settimane, i funzionari cinesi hanno cercato un modo per portarli via, e c’era stata addirittura una telefonata tra il ministro degli Esteri Wang Yi e il suo omologo ucraino Dmytro Kuleba. Per il Partito comunista cinese una delle priorità da sempre è quella di proteggere i cittadini cinesi all’estero e questo sembrava proprio un fallimento tremendo. Più o meno tutti i seimila sono adesso tornati in Cina dopo un lunghissimo viaggio, e ora devono sottoporsi alla quarantena. Il South China Morning Post è andato a raccontare le loro storie: non sembrano molto felici.
 
Ma torniamo alla politica, che è sempre la priorità a Pechino. Dicevamo: uno dei modi con cui Pechino vuole capitalizzare la crisi ucraina è cercare di mostrarsi al mondo come modello alternativo di risoluzione delle crisi. Lo ha esplicitato in modo molto evidente qualche giorno fa, quando ha organizzato nel distretto di Tunxi un dialogo tra i paesi confinanti con l’Afghanistan, ed è il primo di questo genere a cui partecipano anche i vertici dei talebani (vi ricordate? Wang Yi è stato a Kabul una settimana fa). Primo giorno summit con Cina, Russia, Pakistan, Iran, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. Ospiti? Qatar e Indonesia – in quanto paesi a maggioranza musulmana che si sono impegnati a aiutare economicamente Kabul. Secondo giorno: una “troika allargata” pure con Tom West, inviato speciale sull’Afghanistan della Casa Bianca, ma sono uscite pochissime notizie su questa parte del summit.
 
Questo modello di dialogo con la Cina al centro piace parecchio ai paesi autoritari e a quelli in via di sviluppo, perché il messaggio è chiaro: Pechino vi sostiene politicamente e non vi chiede niente in cambio su democrazia e diritti umani. Non vi giudica. Vuole solo la vostra anima – più o meno.
 
Prima di ottenere il riconoscimento formale, ha detto Wang Yi, il governo ad interim dei talebani deve dimostrare qualcosa in più “nella sua lotta al terrorismo”. 

Durante il vertice sull'Afghanistan c'è stato pure un bilaterale molto chiacchierato tra Wang Yi e il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, il primo sin dall'inizio dell'invasione russa in Ucraina. E' stata la pietra tombale su chiunque si aspettasse, prima o poi, una presa di distanza o una mezza condanna da parte di Pechino. Ne ho scritto qui.

Una notizia che abbiamo anticipato la scorsa settimana qui, quella di un prof a contratto del Politecnico di Milano che dice a un suo alunno che non può dirsi taiwanese, ci ha dato modo di tornare su un argomento che ci sta molto a cuore. E cioè la presenza della Cina, e dei finanziamenti cinesi, nelle università italiane. Non parliamo soltanto degli Istituti Confucio, di cui abbiamo scritto moltissimo. Secondo i dati ufficiali del ministero dell’Università e della Ricerca e della Farnesina, il Politecnico di Milano, dal 2010 a oggi, ha firmato 65 accordi con università della Repubblica popolare cinese.  Per fare un paragone, il Polimi ne ha soltanto 16 con università degli Stati Uniti. Un lungo articolo, qui.
 
DA LEGGERE
Si parla ormai da tempo, a volte perfino a sproposito, del nuovo scontro tra America e Cina - che supera addirittura quello attuale con la Russia. Sarebbe molto interessante, quindi, se qualche editore italiano traducesse questo libro, scritto da Rush Doshi che è, oltre che il fondatore della Brookings China Strategy Initiative, l'autore della politica sulla Cina di Joe Biden. Sono riuscita a finirlo solo ora, e oltre a dare dei dettagli che già conoscevamo, porta avanti quest'idea di fondo di una potenza da contenere - è probabilmente proprio questo quello a cui si riferiscono i funzionari cinesi quando parlano di "mentalità di Guerra fredda". Tra gli americani si parla spesso di questa teoria e il suo "adattamento", diciamo così, alle circostanze di oggi. Che potrebbe non voler dire un totale annullamento della potenza americana di formare delle catene di sicurezza per arrivare alla coesistenza. E' un dibattito tutto interno all'America, e se volete qui c'è una puntuale critica di Ethan Paul.
GIAPPONE
Il ministro degli Esteri giapponese Hayashi Yoshimasa è volato in Polonia come inviato speciale del primo ministro Kishida per la questione Ucraina. Da lì coordinerà le evacuazioni in Giappone.

Nel 2003 il governo di Tokyo, per cercare una soluzione diplomatica e pacifica con la Russia, aveva smesso di definire i cosiddetti Territori del nord “illegalmente occupati” dalla Russia. Ecco, l’espressione sarà molto probabilmente reintrodotta.
 
A proposito di rapporti tra Giappone e Corea del sud. Ha riaperto la mostra chiamata “Non Freedom of Expression” a Tokyo, dopo le polemiche che aveva suscitato qualche anno fa a Nagoya. Perché tra le opere c’è una statua che simboleggia le “comfort women” sudcoreane.

Nel frattempo, il Covid. Il Giappone sta cercando di alzare la quota di cittadini stranieri che possono entrare nel paese a 10 mila al giorno, ma nel frattempo i casi sono di nuovo in aumento. Le Abenomask, le mascherine riutilizzabili che Shinzo Abe voleva mandare nelle case dei cittadini giapponesi, sono quasi tutte in magazzino.

DA VEDERE
 
Divertente e incredibilmente interessante per temi e realizzazione. C'è su Netflix "Zero to Hero" del regista Jimmy Wan. Ci sono voluti dieci anni per farlo, ha detto Wan. La storia è ispirata alla vera vita di So Wa-wai, atleta paraolimpico e leggendario di Hong Kong. E' interessante notare che la diagnosi terribile che fanno al giovane protagonista avviene nella Cina continentale degli anni Ottanta (magnificamente descritta) e poi la famiglia si ritrova qualche anno dopo nella colonia inglese, dove il padre era andato a lavorare. E' una storia universale sulla tenacia e l'accettazione, magnificamente descritta - anche per chi ha nostalgia di Hong Kong.
PENISOLA COREANA

Il governatore della provincia di Mykolaïv, in Ucraina si chiama Vitaliy Aleksandrovich Kim. E il suo cognome non mente: come ha scritto Micol Flammini, ha origini coreane. E siccome volevo saperne di più di queste origini coreane di uno dei volti della resistenza a Putin, ho fatto un po' di ricerche. C'è un solo articolo sulla stampa sudcoreana che parla di lui. Vitaliy dice di parlare un po' di coreano, che gli è stato insegnato dai genitori, che a loro volta lo avevano imparato dai loro genitori. La famiglia è infatti originaria di Primorsky Krai, cioè il confine con la Corea del nord, a pochi chilometri dalla città nordcoreana di Rason. Negli anni Trenta, durante le migrazioni forzate dell'Unione sovietica, la famiglia fu ricollocata in Ucraina. Oggi lui difende il suo paese contro l'invasione russa, negli anni Cinquanta furono i sudcoreani a difendersi dall'invasione nordcoreana formalmente nota come "guerra per la riunificazione". 

Da giorni circolano voci sulla possibilità che la Corea del nord si stia preparando a testare una bomba nucleare. Sarebbe il primo test atomico da quattro anni e mezzo. Le immagini satellitari mostrano che sono ripresi i lavori del tunnel numero 3 dell'impianto nucleare di Punggye-ri, scrive 38th North.

Ma c'è un altro mistero, forse ancora più strano, che riguarda la Corea del nord in questi giorni. Il 24 marzo scorso la Corea del nord ha eseguito un test missilistico intercontinentale, il primo di questo tipo sin dal 2017. Ne abbiamo scritto qui. Il giorno dopo l'agenzia di stampa governativa, la Kcna, ha scritto che il leader Kim Jong Un aveva dato il via al test di uno Hwasong-17, il missile più potente mai posseduto da Pyongyang - e lo ha fatto con un video particolarmente hollywoodiano che ha fatto il giro del mondo.

Qualche giorno dopo, però, il ministero della Difesa sudcoreano ha detto che quello che il Nord aveva testato il 24 marzo non era uno Hwasong-17, ma lo Hwasong-15, che già conosciamo perché Pyongyang l'ha già testato nel 2017. Perché mentire sulla tecnologia? Probabilmente per strategia di deterrenza ed enfatizzare la capacità missilistica.

Nel frattempo, il capo del Joint Chiefs of Staff sudcoreano, il generale Won In-choul, e il suo omologo americano, il generale Mark Milley, hanno firmato ieri alle Hawaii la Direttiva sulla pianificazione strategica, cioè un aggiornamento dei piani congiunti d'emergenza in caso di guerra.

Tornando alla politica sudcoreana. L'attuale presidente in carica, Moon Jae-in, e il presidente eletto Yoon Suk-yeol hanno avuto il loro primo incontro operativo per la transizione. Non deve essere stato facile, dato che i due continuano a litigare un po' su tutto (è personale). Una delle prime cose per cui è finito sulle cronache internazionali da presidente eletto riguarda il trasferimento degli uffici presidenziali dalla Casa Blu ad altra sede - probabilmente perché la Casa Blu è considerata "maledetta". In realtà, Yoon non è il primo a dire di voler essere il "presidente del popolo" e di voler abbandonare la Casa Blu, che è un compound particolarmente sicuro su una specie di collinetta. Anche Moon l'aveva promesso durante la sua campagna elettorale, poi non se n'era fatto niente perché i costi stimati del trasloco si aggirano attorno ai 40 milioni di dollari.

In settimana Yoon ha parlato al telefono con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, e anche questa è una notizia importante perché mostra come il presidente eletto sudcoreano voglia essere molto più presente sulla politica internazionale in supporto all'America.

C'è però un problema in questa roadmap di cambio radicale della postura internazionale di Seul. Anche se il presidente eletto vuole ricucire i legami con il Giappone, le relazioni tra i due paesi non torneranno alla normalità dall'oggi al domani "a causa di irritazioni storiche di lunga data, secondo gli osservatori".

Il governo sudcoreano sta valutando la possibilità di revocare tutte le norme sul distanziamento sociale ad eccezione dell'uso della mascherina, ma solo se venisse confermato il calo dei casi giornalieri di Covid nelle prossime due settimane.
ALTRE COSE

"Al buio anche per 13 ore al giorno, con imprese e servizi che vanno bloccandosi per la mancanza di combustibile e fondi insufficienti ad acquistare quello necessario. Lo Sri Lanka sta sperimentando la peggiore crisi economica dall’indipendenza". Così racconta Stefano Vecchia su Avvenire la situazione che sta vivendo lo Sri Lanka, da giorni piegato da una crisi energetica e un'inflazione record al 17,5 per cento, con una classe politica guidata dalla famiglia Rajapaksa che è sempre più simile a un regime e accusata da chi sta protestando.

Negli ultimi anni lo Sri Lanka, sotto la guida dei Rajapaksa, ha abbracciato il modello di aiuto infrastrutturale della Cina per rilanciare la sua economia, ma è andato tutto male.  Anche per questo adesso l'India accusa Pechino di aver fatto cadere Colombo nella sua "trappola del debito" e vorrebbe intervenire.

Allo stesso tempo l'India non si trova in una buona posizione con gli alleati tradizionali, l'America e l'alleanza "del mondo libero", perché non ha ancora condannato l'azione militare russa e probabilmente non lo farà mai. Daleep Singh, viceconsigliere per la Sicurezza nazionale americana per l'economia internazionale, durante una visita a Delhi ha detto che "gli amici non stabiliscono linee rosse", aggiungendo però che i suoi partner in Europa e in Asia erano stati esortati a ridurre la loro dipendenza da "un fornitore di energia inaffidabile" e che Washington non vuole che l'India acceleri le sue importazioni energetiche dalla Russia.

Febbraio 1986. Centinaia di migliaia di filippini scendono in strada per la prima volta, per quattro lunghi giorni, contro il regime autoritario del presidente Ferdinand Marcos. E' una novità assoluta per l'Asia, e dopo elezioni democratiche ma con risultato dubbio, costringe Marcos a scappare alle Hawaii con la famiglia. Al suo posto arriva Cory Aquino, vedova di Benigno Aquino Jr., assassinato nel 1983 dai militari di Marcos in quanto dissidente.

Più di trent'anni dopo, nell'ottobre 2021, il figlio del defunto dittatore, Ferdinand "Bongbong" Marcos Jr., 64 anni, ha annunciato la sua intenzione di diventare il prossimo presidente delle Filippine. Ha lavorato con la figlia del presidente uscente, Sara Duterte, che si candida a vicepresidente. Insieme sono una squadra formidabile, molto più avanti degli altri candidati nei sondaggi d'opinione. Parte da qui un lungo ritratto pubblicato dal Time firmato da Chad de Guzman.

Manca poco più di un mese alle elezioni nelle Filippine e questo ritorno al passato - autoritario, pieno di ferite aperte, per giunta dopo sei anni di governo dal pugno di ferro di Rodrigo Duterte - è qualcosa di molto poco comprensibile qui da noi. Per capirci qualcosa di più bisogna seguire Rappler, il giornale del premio Nobel Maria Ressa.

E a proposito di messaggi e segnali da mandare alla Cina, qualche giorno fa sono iniziate le Balikatan, le più grandi esercitazioni militari congiunte tra Filippine e America degli ultimi anni. E' un segnale per niente scontato, perché dal 2016, quando Duterte è arrivato a governare il paese, sembrava che Manila stesse prendendo una posizione molto più mediana tra Washington e Pechino, addirittura Duterte aveva detto che era "solo carta" la sentenza del tribunale arbitrale che dava ragione alle Filippine sulle rivendicazioni cinesi nel Mar cinese meridionale. Ma recentemente l'assertività di Pechino ha fatto alzare sempre di più la guardia anche alle Filippine.

Gli Stati Uniti e l'Australia rafforzeranno la cooperazione per la sicurezza nello spazio e nel dominio informatico per contrastare la Cina. L'hanno annunciato durante un incontro a Pine gap, base segretissima in Australia.

Da - https://mailchi.mp/ilfoglio/la-cina-secondo-lue?e=fbfc868b87
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