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Autore Discussione: OSSERVATORIO GLOBALIZZAZIONE - PROGETTO ITALIA  (Letto 1784 volte)
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« inserito:: Luglio 26, 2020, 11:54:36 pm »

OSSERVATORIO GLOBALIZZAZIONE
PROGETTO ITALIA

 “Le potenze del capitalismo politico”: economia e sicurezza nazionale nella sfida Usa-Cina
Donald Trump Xi Jinping Cina Usa capitalismo politico

INTERVISTE, OSSERVATORIO GLOBALIZZAZIONE

“Le potenze del capitalismo politico”: economia e sicurezza nazionale nella sfida Usa-Cina

30 MAGGIO 2020 BY ANDREA MURATORE

L’Osservatorio Globalizzazione torna a conversare con Alessandro Aresu, analista di “Limes” e saggista, confrontandosi con lui sulla sua più recente pubblicazione, “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina”, edito da “La Nave di Teseo” e incentrato sullo studio delle dinamiche cruciali per la determinazione dei rapporti di forza nell’era contemporanea. Tra rivalità tecnologica, uso “geopolitico” del diritto, corsa agli investimenti e sfida commerciale Washington e Pechino sono ora le uniche potenze in grado di governare gli strumenti del “capitalismo politico”, che incardina le priorità dell’economia nell’agenda della sicurezza nazionale delle due grandi potenze.

Nel suo saggio lei definisce il capitalismo politico “la compenetrazione di economia e politica in un tutt’uno organico” in cui, inevitabilmente, sono le priorità e i ritmi della seconda a dettare i tempi. Stati Uniti e Cina sono i due attori che hanno la capacità di portare avanti un vero e proprio capitalismo politico: come si somigliano e come divergono, nei sommi capi, i loro approcci?
In Cina esiste il Partito Comunista, negli Stati Uniti c’è l’apparato militare e di sicurezza. Nel primo caso il “titolare” del capitalismo politico è un soggetto di 90 milioni di membri, che influenza in modo decisivo tutta la società. Nel secondo caso, non siamo in un sistema autoritario perché ci sono libertà politiche, ma alcune decisioni cruciali sono comunque prese dall’apparato militare, generando un allargamento del dominio della sicurezza nazionale rispetto al funzionamento dei mercati. Un’altra formula del “tutt’uno organico” si ha nelle modalità di controllo e nella pervasività di talune aziende digitali nelle nostre vite, di cui si potrebbe parlare a lungo. 

Sotto il profilo ideologico, come si sovrappone il “capitalismo politico” con le due ideologie guida dei sistemi economici delle due potenze, il socialismo con caratteristiche cinesi e il neoliberismo di stampo statunitense?
Beh, ho scritto il mio libro, raccogliendo una certa documentazione, anche perché secondo me parlare di due capitalismi politici è più utile che utilizzare quelle formule: socialismo con caratteristiche cinesi e neoliberismo sono formule meno utili per capire il mondo. Cerchiamo di andare più in profondità.   

Mike Pompeo dice: “Non esistono le aziende private in Cina”. Le aziende private invece esistono. Il Partito Comunista Cinese non sa fare tutto. Per la crescita cinese i privati sono essenziali, in termini quantitativi e qualitativi. Lo mostra Milanovic nel suo ultimo libro “Capitalism, Alone”, ma il tema era già ben spiegato in uno splendido articolo di Mark Wu sul commercio internazionale, che richiamo nel mio libro. Ci sono ovviamente migliaia di società dove siedono i manager nominati dal Partito, poi ci sono anche società private che, dati alla mano, contribuiscono maggiormente alla crescita del Celeste Impero. Attenzione, non è che il Partito si alza la mattina e inventa TikTok: quella geniale invenzione è di un privato, Zhang Yiming. Ora, cos’è che quelle società non possono fare? Primo: non possono andare mai politicamente contro le decisioni del Partito. Secondo: non possono mai dire di no alle richieste del Partito, che decide che cos’è la “sicurezza nazionale”. Su queste linee rosse, Pompeo di fatto ha ragione. Ma se riduciamo tutto a “non esistono i privati”, secondo me costruiamo una caricatura, non capiamo quel sistema.

Negli Stati Uniti il commercio e la tecnologia vengono usati per obiettivi geopolitici, all’interno e nell’influenza con gli alleati. Gli investimenti esteri nel Paese, in una marea di settori, devono essere autorizzati dal governo, e per la decisione conta moltissimo il passaporto degli investitori (ora conta soprattutto se è cinese). Non siamo quindi in presenza di fatti tecnici o di mercato. Pensiamo ai controlli su importazioni ed esportazioni, alle sanzioni commerciali e alle sanzioni finanziarie, che sono lo strumento di una “guerra del Tesoro”, descritta da chi ci ha lavorato, come Juan Zarate. Si può sostenere con onestà intellettuale che queste cose, che io spiego nel dettaglio e che sono importantissime nel mondo in cui viviamo, siano “neoliberiste”? No, non mi pare proprio. Poi, certo, negli Stati Uniti ci sono molti altri fenomeni: anche se il sistema è pluralista, i poveri non stanno bene, gli ingenti soldi pubblici nella sanità non aiutano il popolo, molti ricchi (dai casinò ai big tecnologici) aumentano le loro ricchezze e agiscono per “comprare” la politica. Questo lo sanno tutti, ma io ho elaborato una teoria per mettere insieme in modo coerente alcune questioni meno note e molto importanti per capire il nostro tempo. E sono questioni per cui il termine “neoliberismo” serve a poco.   

La tecnologia è oggi il terreno di scontro più ambito tra le due grandi potenze del capitalismo politico. In che modo lo “Stato innovatore” si inserisce nel filone del capitalismo politico?
Il discorso sarebbe molto lungo, bisognerebbe analizzare nel concreto le dinamiche dell’innovazione negli Stati Uniti oppure, in riferimento al rapporto tra Stato e mercato in Italia, vedere quello che ha funzionato e quello che non ha funzionato, visto che – solo per fare un esempio – la storia di Fincantieri e Alitalia negli ultimi quindici anni è completamente diversa. Il rapporto tra Stato e mercato è un tema molto importante, io per esempio ho cercato di affrontarlo attraverso casi studi delle imprese che ho studiato di più (tra cui Telecom), mentre trovo improprio affrontarlo in modo generico, attraverso stereotipi. Anche se è scontato che ci siano sempre semplificazioni e caricature nella ricezione comunicativa, mica il mondo funziona con interviste lunghe come quella che sto facendo qui, dove scrivo quello che voglio prendendo una marea di battute.

Anche all’espressione “Stato innovatore” preferisco “capitalismo politico”, perché restituisce meglio quei fenomeni più ampi che ho descritto sopra. Magari lo Stato non ha veramente “innovato” in un certo campo o l’innovazione si è fermata a un certo punto, però la decisione della sicurezza nazionale sull’economia si applica lo stesso.

Mariana Mazzucato, che nel titolo originale del suo libro come sappiamo parla di entrepreneurial State, ha avuto il merito di portare la riflessione sul rapporto Stato/mercato in un dibattito ampio e diffuso, e considero il suo successo un dato positivo sia quando le sue proposte specifiche mi paiono intelligenti (la critica dell’outsourcing dei governi verso le società di consulenza) sia quando mi sembrano invece tutt’altro che praticabili (la bislacca idea di una “grande alleanza” tra attori industriali italiani e cinesi). Molti temi importanti sono espressi in un libro ricco di spunti che Mariana Mazzucato richiama più volte, “State of Innovation: The U.S. Government’s Role in Technology Development” del 2011. Per la mia teoria, vista la centralità di difesa e sicurezza, sono utili anche le vecchie opere di Galbraith su tecnocrazia industriale e apparato militare, tema su cui ha riflettuto anche il nostro Giuseppe Guarino, in un libro che ho recentemente recuperato, “I soldi della guerra”. Una delle più belle ironie della storia delle idee è che senza saperlo siamo sempre “schiavi” di qualche libro o dibattito precedente e dimenticato, e in questo caso anche di volumi e interviste di Guarino di vent’anni fa nei giornali diretti da Andreotti. 

Con la mia ricerca, tento di ragionare sugli aspetti politici della tecnologia, come del resto ho fatto su Limes, su Repubblica e altrove, sulle singole aziende digitali e sugli oggetti, dalle fabbriche di semiconduttori ai cavi sottomarini, insomma sulla dimensione propriamente “fisica” della tecnologia, su cui prima o poi scriverò un libro.

Per andare più in profondità, è importante capire anche che gli investimenti “innovativi” non sono neutri né nello scenario internazionale né per la comprensione e la definizione della sicurezza nazionale.

Prendiamo le trasformazioni della “sostenibilità”, “l’economia verde”. In sintesi: si possono investire decine di miliardi in “energie verdi” ma se poi i pannelli solari li fa solo qualcun altro, se gli standard sono stabiliti dagli altri, se la capacità dei salti tecnologici è esercitata solo degli altri, tu sei tecnicamente un cliente, non un soggetto. Poi pure io voglio vivere dove l’aria è pulita e non voglio che si inabissino le spiagge della Sardegna, ma non parlo di “sostenibilità” senza considerare i rapporti di potere, l’influenza, la sovranità tecnologica, temi su cui mi pare che il ritardo della sensibilità pubblica e nelle aziende sia colossale.       

 Dai microchip ai cavi sottomarini, per usare una licenza poetica, l’essenziale, cioè l’oggetto del contendere, è invisibile agli occhi. Come vede oggi le prospettive della partita strategica per la tecnologia tra Washington e Pechino?
Nei microchip gli Stati Uniti sono per ora in netto vantaggio. L’errore cinese, che ha compreso bene l’ex ministro Lou Jiwei, come ho ricordato nel mio libro, è stato paradossalmente il tanto celebrato Piano Made in China 2025. Un’operazione che, al di là dei suoi contenuti concreti, ha fatto troppo rumore e ha fatto “svegliare” gli Stati Uniti.

Un errore grossolano, per il Paese di Deng Xiaoping che ora ha visto emergere anche un’élite della politica estera e della comunicazione che ha maggiore violenza verbale, i cosiddetti “lupi guerrieri”. È un altro tema che introduco in “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina”. 

La continuità degli apparati di sicurezza nazionale e di intelligence custodisce gli interessi del capitalismo politico? Qual è il grado di pervasività dell’intervento in Cina e negli Usa?
Devono promuovere, presidiare e difendere le cose giuste, nel momento giusto. Ognuno con le sue diverse responsabilità. Poi anche questi apparati possono commettere errori. Mica sono perfetti. Anche ad essi, come a tutti noi, si applicano le leggi della stupidità di Carlo Cipolla!

Nel suo saggio lei spiega con approfondito dettaglio i motivi per cui l’Europa, dalla retrocessione in secondo piano nel dopoguerra, è retrocessa da soggetto a oggetto della partita per l’egemonia globale. La “sfida americana” di cui parlava il giornalista francese Jean-Jacques Servan-Schreiber e la marginalizzazione economica dell’Europa per la debolezza tecnologica, è oggi sfida americana e cinese. L’Europa ha margine per riprendere terreno?
In termini di potenza, non mi pare proprio. In termini industriali, dipende dai settori. La possibilità che i Paesi europei creino aziende come Google o Amazon è vicina a zero. La possibilità che le aziende automobilistiche europee siano protagoniste dell’elettrico è scarsa. È diverso, per esempio, il discorso delle scienze della vita, dove ci sono importanti capacità europee e su cui la crisi in atto può essere un acceleratore, anche attraverso operazioni su scala continentale dei vari fondi sull’innovazione. Come scrivo alla fine del mio libro, resta sempre la possibilità di un’integrazione tra mercati statunitensi ed europei, che ha un significato geopolitico, con gli Stati Uniti in un ruolo più forte, anche perché sono un’entità politica più definita rispetto a “l’Europa”. Una prospettiva vista dallo stesso Servan-Schreiber più di cinquant’anni fa. 

Dalla Francia in settori come la Difesa e l’aerospazio o la finanza alla Turchia in aree come il Mediterraneo orientale, passando per l’industria israeliana della sicurezza nazionale, vi sono governi che in singoli settori sembrano esser capaci di applicare, in parte, le dottrine del capitalismo politico. La corsa globale alla protezione delle economie nazionali in atto incentiverà questa tendenza?
Sì. Ancor più nella pandemia, ognuno rafforza il proprio capitalismo politico, in modo più o meno consapevole, vedremo con quali risultati. C’è anche una “isteria” della sicurezza nazionale e della politicizzazione. Il capitalismo politico francese nel mio libro ha un certo spazio, perché nell’ambito europeo la Francia ha sempre presidiato quest’idea, perché c’è la consapevolezza della guerra economica. Sono cose che loro hanno sempre studiato e fatto e che tendono a ripetere, con qualche adattamento retorico ma di certo non sempre con efficacia.   

Come deve vedere l’Italia la partita globale del capitalismo politico? Consci della nostra ridotta soggettività geopolitica e strategica, come possiamo massimizzare il nostro potere negoziale?
Noi non dominiamo il mondo né lo domineremo. Anche definirci arena “decisiva” della lotta tra Stati Uniti e Cina non mi convince troppo, almeno come premessa per l’azione. È chiaro che siamo una delle arene, ma non dobbiamo esagerare. Possiamo darci compiti più limitati e intanto pensare ad essi. Per esempio, dobbiamo pensare a investire di più in istruzione e ricerca, a pagare di più i nostri ricercatori. A salvaguardare parti importanti del nostro tessuto industriale, connettendo risparmio e investimento. E a mantenere nel nostro Paese la libertà di espressione, una cosa che non c’entra nulla col capitalismo politico e con la sua logica di potenza ma per cui, almeno secondo me, vale la pena vivere.

Tutte le interviste dell’Osservatorio Globalizzazione.
Da - http://osservatorioglobalizzazione.it/interviste/aresu-capitalismo-politico/
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 09, 2020, 12:29:35 am »

  4 Agosto, 2020 @ 12:45
Come l’European Investment Fund sta sostenendo la ripartenza delle Pmi italiane

di Forbes.it
Staff

La redazione di Forbes.
recovery fund shutterstock
Articolo apparso sul numero di Forbes di agosto 2020

Il rilancio dell’economia nell’Unione europea passa anche dalla salute della piccola e media impresa. Secondo fonti ufficiali dell’Ue, infatti, le Pmi costituiscono il 99% delle imprese comunitarie (sono 23 milioni in tutto), fornendo circa i due terzi dei posti lavoro nel settore privato (90 milioni di persone) e contribuendo a più della metà del valore aggiunto totale creato dalle imprese dell’Unione (3.900 miliardi di euro).

Dalla meccanica all’edilizia, dai servizi in ambito tecnologico e informatico fino alla moda e al turismo, sono innumerevoli i settori della vita economica europea il cui nerbo vitale è costituito proprio da una rete di Pmi. Come in Italia, del resto, dove la piccola e media imprenditoria conta oltre 5 milioni di aziende, più di 15 milioni di occupati per un fatturato complessivo generato di circa 2 mila miliardi di euro l’anno, secondo quanto rilevato dal centro studi Prometeia. Senza dimenticare che realtà così duramente colpite dal lockdown conseguente la pandemia del Covid-19 sono a loro volta elemento vitale per la catena di approvvigionamento della grande impresa e della pubblica amministrazione.


Alessandro Tappi
In un simile quadro, saper usare bene le risorse che l’Unione europea sta mettendo a disposizione dei Paesi membri è senza dubbio fondamentale per chiunque voglia agganciare la ripresa e limitare i danni di un conto economico che a fine anno sarà impietoso: l’economia dell’Ue si contrarrà dell’8,3% secondo le ultime previsioni, per poi tornare a crescere del 5,8% nel 2021. L’Italia ha già subito una contrazione del 5,3% nel primo trimestre, ma il Pil reale potrebbe calare di ben oltre il 10% a fine anno. Un’onda minacciosa destinata a investire in pieno anche le Pmi.

Chi tra le istituzioni europee si è subito attivato per offrire un aiuto concreto nel far fronte all’emergenza coronavirus è il Fondo europeo per gli investimenti (Fei), attivo dal 1994 e che al cuore del suo business model ha proprio il supporto alla piccola e media imprenditoria. Partecipato al 59,1% dalla Banca europea degli investimenti Bei, per circa un terzo dall’Unione europea (29,7%) e per il resto da altre istituzioni finanziarie (11,2%), ha in Alessandro Tappi, il suo chief investment officer, il responsabile degli investimenti, che ammontano a circa 10 miliardi di euro l’anno, attraverso due principali linee di intervento: strumenti di equity e venture capital, da un lato, garanzie sui finanziamenti, dall’altro.

Tra le ultime misure messe in campo dall’Ue, ad aprile, la Commissione europea ha sbloccato 1 miliardo di euro da fondi comunitari a titolo di garanzia per il Fei, che così potrà fornire a sua volta garanzie per incentivare le banche e altri finanziatori a fornire liquidità, per un importo disponibile stimabile in 8 miliardi di euro, ad almeno centomila Pmi colpite dalle conseguenze economiche della pandemia. Il Fei sarà inoltre protagonista per quanto concerne il finanziamento alle Pmi anche nel piano recentemente varato dal Gruppo Bei e che prevede la creazione di un fondo di garanzia pan-europeo da 25 miliardi per sostenere prestiti e investimenti in capitale di rischio per complessivi 200 miliardi di euro.

Per capire quali possibilità simili importi possono schiudere alle Pmi è utile guardare cosa hanno permesso di fare i 9,3 miliardi di euro complessivamente impegnati finora in Italia, che peraltro hanno contribuito a mobilitare 54 miliardi di euro complessivi, grazie a più di 300 operazioni con intermediari finanziari di cui hanno beneficiato 291mila Pmi italiane. Il Fei ha infatti sostenuto una vasta gamma di iniziative: si va dalla piattaforma AlpGip, lanciata in collaborazione con cinque Regioni (Lombardia, Valle d’Aosta, Trention Alto Adige, Piemonte, Liguria), per il supporto allo sviluppo nella macroregione dell’arco alpino fino al progetto ITatech con Cassa depositi e prestiti a supporto del mercato del trasferimento tecnologico. Oppure ancora: Social Impact, a sostegno dell’imprenditoria sociale; finanziamenti a condizioni favorevoli alle pmi innovative grazie al programma comunitario InnovFin e a Cosme, il programma Ue creato per promuovere la competitività ricorrendo alla leva dell’accesso al credito; e tante altre soluzioni ad hoc dedicate, per esempio, agli studenti che cercano un prestito per l’Erasmus (progetto Erasmus+) o a chi è in cerca di un business angel che possa aiutare un’idea imprenditoriale (progetto European Angels Fund).  Tra i progetti più recenti ci sono anche quelli con la Banca Agricola Popolare di Ragusa, che mette a disposizione 200 milioni per le Pmi in Sicilia, e con la sgr Finint Investments per ulteriori 110 milioni di euro.

L’elenco degli interventi mirati predisposti dal Fei è ricco e articolato e potrebbe proseguire ancora, così come anche quello degli autorevoli partner con cui opera a livello locale nel nostro Paese, ma una cosa è certa: il suo operato dimostra l’importanza della vicinanza al territorio da parte delle istituzioni e del saper fare squadra per far fronte alla crisi. Lo ha spiegato bene Tappi quando di recente ha ricordato come “fortunatamente il supporto alle Pmi non è mai mancato in questo periodo; lo confermano le molteplici iniziative messe in atto finora dai governi”. Il punto però, secondo il responsabile degli investimenti del Fei, è che questi interventi “non sempre sono stati ben coordinati, contribuendo di fatto a rafforzare la frammentazione all’interno dell’Europa”. Fino ad aprile, almeno, quando “la Commissione europea ha iniziato a predisporre misure per aiutare le pmi a far fronte all’emergenza”. E il Fei si è fatto trovare pronto.

Tutti i numeri del Fei in Italia

291mila: le Pmi italiane che hanno beneficiato finora delle operazioni del Fei
9,3 miliardi di euro i capitali totali impegnati finora in Italia finalizzati a mobilitare 54 miliardi di euro
7,5 miliardi  di euro la parte impegnata in garanzie, cartolarizzazioni e strumenti finanziati che ha mobilitato 44,2 miliardi di euro
1,7 miliardi  di euro  la somma in capitale azionario che ha mobilito risorse per 9,1 miliardi
303 il numero complessivo delle operazioni
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