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Autore Discussione: Negli ultimi 10 anni hanno lasciato l’Italia circa 250mila giovani. Un problema  (Letto 5064 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Luglio 18, 2020, 09:23:30 pm »

L’Italia delle culle vuote e dei giovani in fuga: numeri e storie di chi ha scelto di andare via

18 LUGLIO 2020 - 07:19
Di Marco Assab

Negli ultimi 10 anni hanno lasciato l’Italia circa 250mila giovani. Un problema sociale, demografico ma anche economico

Duecentomila italiani in meno nel 2020 rispetto all’anno precedente. I numeri del Bilancio demografico nazionale 2019 dell’Istat certificano una emorragia che non accenna né a diminuire né a rallentare. Negli ultimi cinque anni i residenti nel nostro Paese sono diminuiti di 551mila unità. Un dato che preoccupa e che scaturisce da diversi fattori. In primo luogo c’è l’annoso problema della denatalità, con un -4,5% delle nascite e un lieve aumento dei decessi. Ma poi c’è un altro elemento che contribuisce a questo scenario, sempre presente nella storia del nostro Paese e, per certi versi, caratteristico: l’emigrazione. L’Istat certifica un fenomeno in aumento, rispetto all’anno precedente, del +8,1%.

Gli italiani all’estero, una panoramica
Ma quanti sono gli italiani all’estero? E soprattutto: dove sono? Per disegnare un quadro della situazione ci viene incontro l’ultimo rapporto della Fondazione Migrantes. Secondo il documento nel 2019 erano circa 5,3 milioni gli iscritti all’Aire (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero), coloro cioè che hanno segnalato di vivere fuori dall’Italia. Sono l’8,8% della popolazione residente totale che, segnala l’Istat, a fine dicembre 2019 ammontava a 60.244.639 unità, quasi 189mila in meno rispetto all’inizio dell’anno. L’attuale mobilità italiana, segnala la Fondazione, continua a interessare prevalentemente i giovani (18-34 anni, 40,6%).

Sull’origine degli emigrati il report indica che 950mila provengono dal Nord Ovest del Paese, 928mila dal Nord Est, 828mila dal Centro, circa 1 milione e 700mila dal Sud, 888mila dalle isole. La top ten delle comunità all’estero vede in testa l’Argentina (842.615), seguita dalla Germania (764.183), poi la Svizzera (623.003), al quarto posto il Brasile (447.067), seguito da Francia (422.087), Regno Unito (327.315), Stati Uniti d’America (272.246), Belgio (271.919), Spagna (179.546), Australia (148.510).

Negli ultimi 10 anni via 250mila giovani: le ricadute economiche
Le mete preferite dai giovani che negli ultimi anni hanno scelto di andare via dall’Italia sono il Regno Unito, la Germania, la Svizzera, la Francia, gli Stati Uniti. Il nono Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa, presentato nell’ottobre scorso, segnala che negli ultimi 10 anni circa 250mila giovani, tra i 15 e i 34 anni, hanno deciso di lasciare l’Italia. Il che non rappresenta un problema solo demografico o sociale, ma anche economico. Perché questa “fuga” all’estero, alla ricerca di opportunità che l’Italia non offre, si stima sia costata circa 16 miliardi di euro, quasi un punto di Pil. Si tratta del valore aggiunto che questi ragazzi avrebbero potuto offrire al nostro Paese, se questo si fosse dimostrato attrattivo e capace di valorizzarli.


Storie di chi ha scelto la Germania
Tra le migliaia di storie di emigrazione c’è quella di Andrea, 31 anni, siciliano, che ha scelto Monaco, in Germania, insieme alla moglie Aurora (29). «Vivo qui da più di cinque anni – racconta -, mia moglie da otto. Lei si era trasferita per frequentare la specialistica in fisica, mentre io sono ingegnere meccanico. Sono venuto qui per cercare lavoro, l’ho trovato da quasi quattro anni».

Ma come si fa ad inserirsi, da zero, in un Paese con cultura, valori e lingua diversi? «Se non conosci il tedesco è difficile trovare lavoro – spiega Andrea a Open -. Come prima cosa ho deciso di imparare questa lingua da zero, e poi iniziare a cercare un impiego. La cosa molto bella è che per questo ci sono dei corsi tenuti dallo Stato della Baviera. Ti insegnano a scrivere un Cv e una lettera di presentazione come vogliono loro. Tra l’altro già nelle scuole superiori organizzano dei corsi in questo senso». Ma non solo, le autorità bavaresi sono molto attente all’inserimento culturale dell’immigrato, come Andrea spiega: «Per introdurmi nella società tedesca, attraverso un programma, ogni due settimane mi chiamavano per invitarmi a degli eventi culturali qui a Monaco. Davano sempre un biglietto gratuito per me e Aurora, e ho visto eventi musicali e teatrali».

E sembra proprio che il sistema dell’invio del Cv, routine quasi inutile e frustrante in Italia, in Germania funzioni meglio: «Ho trovato lavoro inviando curriculum e lettere di presentazione, come mi hanno insegnato. E sul lavoro qui la mentalità è diversa. Prima di tutto non c’è lo “scusa puoi fare lavorare mio figlio?”. Poi qui non conta quanto tempo lavori, conta il risultato. Non fa più carriera quello che lavora di più, ma quello che dà più risultati. Non gliene importa qui a che ora inizi e a che ora finisci, l’importante è che finisci ciò che devi fare».

Anche Marco, 29 anni, originario di Verona e a Monaco da quattro anni, ha raccontato a Open di quanto sia importante imparare rapidamente la lingua: «Sono un educatore, lavoro dal 2017 in asili integrati, strutture all’interno delle quali sono presenti sia gruppi di età del nido che gruppi della scuola dell’infanzia». «Al mio arrivo il mio tedesco era nullo – racconta -, mentre scrivevo la tesi (Marco si è comunque laureato in Italia, all’università di Verona ndr) ho fatto corsi di lingua per incrementarlo. La sera invece lavoravo come cameriere».

«La Baviera è una regione molto ricca. Ci sono molte opportunità è c’è tantissima richiesta di educatori – spiega -. Per quanto ho potuto appurare dalla mia esperienza, la Germania ha più fiducia nei giovani. Il tirocinio, ad esempio, è concepito come preparazione al successivo incarico di lavoro». E aggiunge: «Non ho ancora conosciuto nessuno qui che abbia fatto un tirocinio in azienda e al quale non sia stato proposto, successivamente, un posto di lavoro. La formazione è considerata molto importante. Le aziende incentivano i dipendenti a frequentare dei corsi alla fine dei quali si riceve un attestato. E questi attestati sono richiesti e altamente valutati nel processo di selezione del personale». Insomma quello che sembra emergere è un quadro dove c’è poco spazio per gli stage da fotocopie.

Denatalità e genitorialità, due facce della stessa medaglia
Ma com’è, per dei giovani, essere genitori e lavoratori in Germania? Il tema è molto attuale in Italia, visto proprio il problema della denatalità. Torniamo ad Andrea, che insieme ad Aurora ha una bimba di pochi mesi, nata in Germania. Ci spiega: «Madre e padre hanno, in totale, 14 mesi di maternità/paternità, con il 67% dello stipendio. Noi abbiamo deciso di prendere 11 mesi per Aurora e 3 per me. Essere genitori qui è molto ben visto. Lo stato paga 205 euro al mese per ogni figlio fino ai 18 anni, fino ai 25 qualora tuo figlio/a andasse all’università. Ma non solo. Lo Stato della Baviera dà, dal secondo al terzo anno, ulteriori 300 euro al mese».

Londra, la nuova “El dorado”. Ma con la Brexit?
Germania ma, come detto, non solo. Altra grande meta negli ultimi anni per i giovani italiani in “fuga” è stato il Regno Unito, particolarmente l’Inghilterra e la sua Londra. Una sorta di “El dorado” che, nonostante la Brexit in vista, continua a essere attrattiva, tanto che dopo il referendum del 2016 sull’uscita dall’Ue il flusso di giovani oltremanica non sembra essere diminuito. In effetti nei prossimi mesi non cambierà molto per gli italiani attualmente in Gran Bretagna (e per quelli che ci vogliono ancora andare).

Fino al 31 dicembre 2020 chi risiede nel Regno Unito da almeno cinque anni potrà registrarsi e ottenere il “settled status”, ovvero il diritto di residenza. Chi invece arriverà prima di quella data potrà richiedere il “pre-settled status”, cioè il diritto a restare nel Regno Unito fino a quando avrà maturato i cinque anni necessari a ottenere lo status definitivo.

Discorso diverso, invece, per chi vorrà emigrare dopo il 2020, perché sarà più complicato. Il governo inglese ha infatti annunciato un sistema a punteggio simile a quello australiano, per farla breve: sarà molto difficile il «vado a Londra a fare il cameriere e imparo la lingua». Per emigrare nel Regno Unito ci vorranno qualifiche, titoli di studio. Più lavoratori qualificati quindi e meno manodopera straniera.

Non solo titoli, ma anche esperienza…
Ma, oltre ai titoli, gli inglesi cercano esperienza, come racconta Cristiana a Open, 28 anni, originaria di Roma e a Londra da cinque anni: «Ai datori di lavoro importava poco dei miei “pezzi di carta” quali laurea, certificati, corsi, attestati, voti massimi. Ricordo ancora che la professoressa che mi dava una mano con le prime applications continuava a chiedermi: “Right, but what did you do, practically?».

Cristiana, che lavora per un’agenzia internazionale di pubbliche relazioni, racconta del perché abbia deciso di lasciare l’Italia: «Durante il terzo anno della triennale in Scienze umanistiche mi sono resa conto che la carriera giornalistica non sarebbe stata molto accessibile, e avrebbe richiesto un percorso molto lungo, di cui vagamente riuscivo a vederne la fine. L’alternativa sarebbe stato l’insegnamento, ma allora stava cominciando il vortice amministrativo di regolamentazioni e bandi che praticamente cambiavano i requisiti e le aspettative. Avrei dovuto ripiegare su una laurea magistrale – prosegue – con interesse tangente, fuori Roma, nella speranza che sarei riuscita ad aprirmi qualche spiraglio per un posto in uno dei master in giro per l’Italia anni dopo. Oppure provare uno dei master in Inghilterra. Fino ad allora non avevo fatto alcuna esperienza vera all’estero. La formazione umana e scolastica acquisita fuori casa mi avrebbe sicuramente rianimato al ritorno in Italia. O comunque chiarito sulla mia carriera futura e dato un titolo di studio “con una marcia in più”, qualunque percorso professionale avessi voluto fare tornata in patria».

Ma finora, in patria, Cristiana non è tornata ed ha anche fatto domanda per il “settled status”, senza avere particolari problemi, anche se ammette che subito dopo il voto per la Brexit la situazione era all’inizio molto strana: «Non tutti sembravano più così sorridenti appena identificavano l’inflessione italiana. E qualche mese dopo mi son trovata a dover cambiare lavoro, ed ho trovato qualche (pochi, per fortuna) annuncio che specificava: UK residents/British nationality holders only». Insomma, tutto il mondo è Paese.

Da - https://www.open.online/2020/07/18/italia-culle-vuote-giovani-fuga-numeri-storie-chi-ha-scelto-andare-via/
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 16, 2020, 02:32:33 pm »

Un premio per le aziende familiari più sostenibili e innovative

Di Mara Cella

Mi occupo di moda, lifestyle e imprenditorialità.
Migliori vini italiani: Dievole tra le 100 Eccellenze Italiane per Forbes

Tutto nasce da Primum Familiae Vini, organizzazione fondata nel 1992 che riunisce le prime famiglie vinicole, 12 produttori di vino fra i più storici e apprezzati al mondo.

Per l’Italia ne fanno parte Tenuta San Guido che prende il nome da San Guido della Gherardesca. La storica azienda di Bolgheri è nota produttrice di vino “Super Tuscan”. Basta dire che Mario Incisa della Rocchetta è stato l’ideatore del Sassicaia ispirandosi al prozio Leopoldo, mentre suo figlio Nicolò Incisa ha dato vita al vino Guidalberto ispirandosi al quadrisnonno Guidalberto della Gherardesca.

L’altra famiglia che rappresenta l’Italia è quella dei Marchesi Antinori, che si dedica al vino dal 1385 – e con ben 26 generazioni è la famiglia vinicola più antica. In più di 600 anni gli Antinori hanno sempre gestito direttamente la propria azienda attraverso scelte innovative e coraggiose. Come quella che, negli anni ‘70, ha portato il Marchese Piero Antinori alla produzione del Tignanello, considerato precursore del Rinascimento del vino italiano. L’azienda, per la prima volta dopo 25 generazioni, oggi è tutta al femminile. È guidata da tre sorelle: Albiera, Allegra e Alessia Antinori.

Nel 2020 l’associazione ha dato il via al The PFV Prize ‘Family is Sustainability’ il premio di 100.000 euro che sarà assegnato nel 2021 a un’azienda familiare operante in una qualsiasi area d’impresa che dimostri la sua eccellenza nell’ambito della sostenibilità, dell’innovazione, dell’artigianalità e nel passaggio virtuoso di responsabilità e dedizione da una generazione a quella seguente. Il vincitore avrà l’opportunità di confrontarsi con le dodici famiglie del PFV, ognuna delle quali con una lunga esperienza nel superare numerose sfide, non solamente legate all’azienda, affrontate durante la loro storia. Proprio in merito al nuovo premio PVF Alessia Antinori spiega:

“Noi famiglie del PFV crediamo che le imprese familiari siano il fondamento delle economie nazionali e internazionali. Le migliori aziende familiari dimostrano sempre un profondo impegno verso lo sviluppo sostenibile e l’ambiente. Le imprese familiari dovrebbero sempre interpretare i migliori valori di responsabilità sociale nonché il volto più umano della libera impresa, specialmente in un momento in cui globalizzazione e un’uniformità alquanto deprimente sono diventati sempre più prevalenti. L’annuncio di questo premio in un momento di difficoltà internazionale a seguito del Codiv-19, vuole enfatizzare la capacità di pensare a lungo termine tipica delle aziende familiari e il nostro intrinseco ottimismo verso il futuro, purché sia volto a difendere i giusti valori.”

I 12 membri del PFV rappresentano la voce e le profonde radici artigiane di aziende familiari votate all’assoluta qualità dei loro vini, tutte con una lunga storia di passione e dedizione verso le rispettive terre di origine. L’obiettivo? Incoraggiare altre aziende familiari a continuare la loro crescita individuale indipendente e di dimostrare che un’impresa familiare può essere un potente strumento per rispondere alle sfide sociali e ambientali dei nostri tempi.

Per candidarsi c’è di tempo fino al 30 ottobre 2020, le iscrizioni devono avvenire attraverso il sito www.thepfvprize.com
Una Short List delle prime cinque aziende familiari in lizza sarà rivelata a gennaio 2021 mentre il vincitore finale sarà̀ annunciato a marzo 2021.

Ecco – in foto – la blasonata giuria che decreterà la PFV Short List e poi il “The PFV Prize” formata da un membro di ciascuna delle 12 famiglie del vino:
I membri della giuria del “The PFV Prize” (courtesy PFV)

• Priscilla Incisa Della Rochetta – Tenuta San Guido, Italia – Fondata nel 1840
• Alessia Antinori – Marchesi Antinori, Italia – Fondata nel 1385
• Egon Müller – Egon Müller Scharzhof, Germania – Fondata nel 1797
• Prince Robert of Luxembourg – Domaine Clarence Dillon, Francia – Fondata nel 1935
• Marc Perrin – Famille Perrin, Francia – Fondata nel 1909
• Paul Symington – Symington Family Estates, Portogallo – Fondata nel 1882
• Frédéric Drouhin – Maison Joseph Drouhin, Francia – Fondata nel 1880
• Miguel Torres Maczassek – Familia Torres, Spagna – Fondata nel 1870
• Jean-Frédéric Hugel – Famille Hugel, Francia – Fondata nel 1639
• Pablo Alvarez – Vega Sicilia, Spagna – Fondata nel 1864
• Philippe Sereys de Rothschild – Baron Philippe de Rothschild, Francia – Fondata nel 1853
• Hubert de Billy – Champagne Pol Roger, Francia – Fondata nel 1849

da - https://forbes.it/2020/08/07/economia-circolare-soseaty-brand-beachwear-rivoluziona-fashion-system/
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