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Autore Discussione: Sondaggi taroccati oppure scontenti stupidi, ... la Sanità è da rivoluzionare.  (Letto 11011 volte)
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« inserito:: Gennaio 24, 2020, 09:16:41 pm »

Un italiano su quattro rinuncia alle cure per motivi economici

Ma gli utenti "promuovono" il Sistema sanitario nazionale.

E' quanto emerge dall'indagine "Prima edizione. Outlook Salute Italia 2021"

Di MAURIZIO PAGANELLI
23 gennaio 2020

LO SGUARDO dell'ennesimo sondaggio sulla sanità italiana, conferma il buono e ri-segnala il cattivo. Questa volta è un'indagine, "Prima edizione. Outlook Salute Italia 2021. Prospettive e sostenibilità del Sistema Sanitario", del network Deloitte, importante e storico insieme di aziende di servizi multidisciplinari. Si è chiesto ad un consistente numero rappresentativo di italiani maggiorenni (3960 afferma il sondaggio) un giudizio su vari fronti: frequenza di fruizione dei servizi negli ultimi 3 anni, valutazione della qualità dei servizi pubblici e privati rispetto all'anno precedente, diffusione e motivazione di cure e assistenza fuori dalla propria Regione (il cosiddetto "turismo sanitario"), rinuncia alle cure per motivi economici, conoscenza e attivazione di polizze sanitarie, percezione dell'innovazione in campo sanitario (digitalizzazione, telemedicina, utilizzo di tecnologie).

Lo studio
Oltre sei su dieci intervistati hanno fatto esami di laboratorio (per l'81% in strutture pubbliche o convenzionate) o utilizzato il medico o pediatra di famiglia. Il 44% che ha avuto bisogno di cure odontoiatriche ha utilizzato quasi 8 volte su 10 professionisti privati o servizi di libera professione in strutture pubbliche. Screening e prevenzione nell'80% lo fa il pubblico o strutture convenzionate. Il 21% degli intervistati ha utilizzato negli ultimi 3 anni il Pronto Soccorso, assai meno chi ha un reddito più alto. Chi è più abbiente fa anche più visite specialistiche, compresa odontoiatria, e diagnostica strumentale. Il 57% degli intervistati avrebbe sostenuto spese per servizi sanitari per la famiglia, uno su tre tra i 1000 e i 5000 euro. Il 29% (che diventa il 41% nelle Isole e il 36% nel Meridione) avrebbe rinunciato a qualche tipo di cura per "motivi economici". E tra questi c'è un 21% della fascia di reddito alta e il 27% di quella media. Troppo costose anche per loro?

Ssn promosso
Detto questo il Servizio Sanitario risulta promosso (voto 6,2 su 10) persino nelle Isole e nel Sud, e quello Privato ancor di più (7,2 su 10). I servizi erogati nell'ultimo anno sarebbero rimasti uguali per il 43% del campione, poco o molto peggiorati per il 38%: più negativo secondo gli anziani, chi ha un reddito basso e le donne. Se il 118 e il medico di famiglia risultano i servizi più apprezzati, le liste d'attesa per ricoveri, diagnostica e visite ambulatoriali sono il tallone d'Achille del sistema (ma quanto si è detto e scritto su questo tema!). Un terzo degli italiani si sarebbe spostato in altre Regioni (72%) o all'estero (28%) per cercare la miglior struttura o medico o, appunto, a causa delle liste d'attesa. Con ovvi problemi di spesa e di impatto sul bilancio familiare.

Un paese che invecchia
Facile intuire che l'obiettivo del sondaggio-ricerca abbia a che vedere con il bisogno di far quadrare i conti in un Paese che invecchia, meno persone attive, costi alti delle nuove cure, cronicità, autosufficienza. La domanda sulle polizze assicurative sanitarie va in quella direzione, e la presenza al dibattito successivo della manager di Allianz divisione Health ne è testimonianza. Il privato che integra e collabora con il pubblico è la ricetta sollecitata. In Italia l'assicurazione sulla salute non è molto apprezzata. Se lo fa l'azienda va bene, ma ben pochi (uno su 5) la sottoscrive. Eppure - dice il sondaggio - chi è assicurato in tre casi su 4 lo consiglia ad amici e parenti. Il costo e il non fidarsi delle assicurazioni sono le motivazioni di una diffidenza assai diffusa.

Le nuove tecnologie
Sebbene con la presenza al dibattito della professoressa del Sant'Anna di Pisa ed ex ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca, Maria Chiara Carrozza si è voluto dare una spinta sul fronte dell'innovazione (insieme al presidente di Medtronic Italia, Michele Perrino, azienda all'avanguardia in campo dei dispositivi medici e chirurgici) la percezione dell'innovazione nella sanità italiana è deprimente. Sulla digitalizzazione del settore rispetto ad altri settori, il 38% del campione lo giudica inferiore, il 32% uguale e il 21% non si esprime. Operatori sanitari con competenze digitali? Per il 41% è sufficiente e per il 20% insufficiente. Il 41% degli intervistati non sa cosa sia il fascicolo elettronico sanitario (la storia clinica del paziente digitalizzata, personalizzata e unificata per consultazione). Solo il 37% ha ricevuto via email un referto e il 35% ha prenotato un servizio online. Il 23% utilizza anche una chat o un'app per comunicare con il medico. L'8% ha usufruito di servizi di telemedicina.

L'appello degli esperti per migliorare il sistema
Secondo Guido Borsani, senior partner Deloitte (che ha illustrato tutta l'indagine) non ci sono "ricette". Borsani ma sottolinea la complessità della questione e la validità del Sistema sanitario italiano, seppur con necessità di revisioni e innovazioni. La regionalizzazione, come tante volte si è notato, ha complicato il quadro invece che migliorarlo: ma la questione meridionale non è certo nata nel 1978 con la riforma sanitaria, dovremmo aggiungere. Se la sussidiarietà con controllo pubblico sembra l'orientamento dei più, un amministratore regionale (Vito Montanaro, Direttore Generale, Puglia) ha parlato di frustrazione per regole, vincoli, modalità organizzative che bloccano o frenano di molto le innovazioni e i progressi. Mentre Michele Perrino di Medtronic Italia e consigliere di American Chamber of Commerce in Italy (che ha patrocinato l'evento romano) ha fatto riferimento alle proposte di "The Value Agenda for Italy", frutto di un lavoro comune tra attori pubblici, privati e associazioni e società scientifiche ("cinquecento firmatari", racconta il manager) consegnato all'allora ministro della Salute Beatrice Lorenzin e ora riposto, di nuovo, nelle mani del ministro Roberto Speranza.

Un pamphlet di una trentina di pagina con analisi e proposte concrete condivise, paziente al centro, sostenibilità, efficienza, misurazione di efficacia, duplicazione dei servizi, piattaforma informatica integrata. Quando si legge in quel documento "quadro logico nazionale su cui organizzare i servizi regionali" e trasparenza con Public Reporting, si ha l'impressione, speriamo sbagliata, della difficoltà tutta italica di fronte alla sfida. La logica e la trasparenza di Regioni e amministrazione centrale vacilla da decenni.

Da - https://www.repubblica.it/salute/medicina-e-ricerca/2020/01/23/news/gli_italiani_promuovono_il_servizio_sanitario_nazionale-246476382/?ch_id=sfbk&src_id=8001&g_id=0&atier_id=00&ktgt=sfbk8001000&ref=fbbr
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 10, 2020, 10:58:56 am »

https://www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-ii/capo-i/art328.html

Articolo 328 Codice penale
(R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398)
[Aggiornato al 27/11/2019]
Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione

E’ applicabile alle mille omissioni e ritardi che la Sanità Regionale, impone ai Cittadini e alla Popolazione??

Segue …
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 09, 2020, 11:40:42 pm »


E molti Paesi truccano le cifre, a partire dalla Cina

Chiara Merico

35 bare di defunti immagazzinati in un magazzino a Ponte San Pietro, vicino a Bergamo, in Lombardia, il 26 marzo 2020 prima di essere trasportate in un'altra regione per essere cremati. Piero Cruciatti /AFP via Getty Images
Quante persone sono morte per la pandemia di coronavirus? Le cifre ufficiali, aggiornate di giorno in giorno dalle autorità sanitarie dei singoli Paesi, sono impressionanti: ma potrebbero addirittura essere sottostimate.

A partire da quelle che ci riguardano da vicino: in Italia, come ha spiegato il presidente dell’Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro, “è verosimile che abbiamo una sottostima rispetto ai morti riportati”.


I dati ufficiali prendono infatti in considerazione i “decessi con tampone positivo, e sappiamo che questo ne intercetta una larga parte”, ma nel caso dei decessi in casa, ha precisato il presidente dell’Iss, non esistono referti clinici così come, in parte, per quelli avvenuti nelle case di riposo. Brusaferro ha assicurato che l’Iss è al lavoro con l’Istat per mettere a punto una stima più precisa del numero dei morti, ma il problema rimane.

Come hanno denunciato diversi sindaci lombardi, in particolare della bergamasca, una delle zone d’Italia più colpite dalla pandemia.

Secondo una ricerca condotta dall’Eco di Bergamo, nella provincia lombarda a marzo sarebbero morte 4.500 persone, più del doppio rispetto ai dati ufficiali. Uno dei casi più eclatanti in zona è quello del paese di Albino, dove lo scorso anno tra fine febbraio e fine marzo erano morte 24 persone. Quest’anno, come ha denunciato il sindaco Fabio Terzi, nello stesso periodo i morti sono stati 145, di cui solo 30 “certificati” come affetti da Covid-19.
Appare quindi abbastanza evidente che le cifre sui morti possano essere sottostimate, ma questo non significa che la mortalità del coronavirus in Italia sia ancora più elevata di quanto dicano i dati ufficiali: al 31 marzo la percentuale dei deceduti rispetto al totale dei casi era dell’11,1%, come riferisce l’Iss, a fronte di una media globale del 4,8% (fonte Oms).

Piuttosto, la presenza di migliaia di casi di morte non dichiarati va letta come un indizio del fatto che in Italia l’epidemia potrebbe verosimilmente essere molto più diffusa, e i contagiati molti di più rispetto ai casi ufficialmente censiti.

Ad ammetterlo, la scorsa settimana, era stato lo stesso capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, secondo cui il rapporto di un malato certificato ogni dieci non censiti “è credibile”.

E si sono spinti anche oltre i ricercatori del Centro per i modelli delle malattie infettive dell’Imperial College di Londra, che in uno studio pubblicato lo scorso 30 marzo hanno stimato che in Italia e in altri Paesi europei i contagiati dal nuovo coronavirus potrebbero essere milioni. Nel nostro Paese, in particolare, le persone che hanno finora contratto il virus SarsCoV2 potrebbero essere 5,9 milioni, il 9,8% della popolazione, mentre le misure di contenimento del contagio avrebbero salvato circa 38mila vite.

E mentre nei Paesi occidentali i numeri su morti e contagi continuano a crescere, l’ombra del dubbio si allunga sulle cifre della malattia in Cina, il Paese epicentro della pandemia. Secondo un rapporto dell’intelligence Usa, svelato da Bloomberg, Pechino avrebbe nascosto la reale portata dell’epidemia del coronavirus dichiarando “numeri falsi” sia sui contagi sia sulle vittime, e diffondendo dati “intenzionalmente incompleti “. Ad oggi le autorità cinesi hanno dichiarato solo 82mila casi accertati e 3.300 decessi, meno di Usa, Italia e Spagna, e ci sono dubbi anche sulle cifre ufficiali fornite da Paesi come Iran, Russia, Indonesia, Corea del Nord, Arabia Saudita ed Egitto.

Nella città di Wuhan, in particolare, nei giorni scorsi sempre Bloomberg ha rivelato di code chilometriche fuori dai crematori, dai quali i cittadini sono stati chiamati a prelevare le ceneri dei propri cari per poterle portare via, in occasione della ricorrenza del Qingming, dedicata ai defunti. Fuori da una casa funeraria fonti locali hanno riferito di aver contato 2.500 urne impilate in attesa di essere distribuite e altre fonti parlano di cifre anche maggiori: numeri che, secondo i calcoli, se fossero moltiplicati per le otto strutture del genere presenti in città darebbero un totale dei morti ben diverso dalla cifra ufficiale. A Wuhan, secondo le autorità cinesi, l’epidemia di coronavirus avrebbe infatti ucciso in tutto 2535 persone.

Da - https://it.businessinsider.com/in-italia-il-conto-dei-morti-per-covid-19-e-ampiamente-sottostimato-e-molti-paesi-truccano-le-cifre-a-partire-dalla-cina/
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« Risposta #3 inserito:: Aprile 09, 2020, 11:45:17 pm »

«Quale Karl Polanyi?

Democrazia e crisi capitalistiche.

Intervista ad Adam Przeworski

Di NICOLA MELLONI

Adam Przeworski, già autore dell'importante “Capitalism and Social Democracy” (1985), è tornato a riflettere più sistematicamente sui temi di quel libro nel suo recente “Crises of Democracy” (2019). In questa intervista se ne ricapitolano i tratti più caratterizzanti.

Adam Przeworski, professore di scienze politiche a NYU, è uno dei più importanti teorici della democrazia. Il suo Capitalism and Social Democracy è uno dei grandi classici della scienza politica ed economica contemporanea. Ha lavorato sul rapporto tra sviluppo economico e democrazia, sul passaggio da regime autoritari a sistemi democratici e sul complesso rapporto tra mercato e democrazia. Il suo ultimo libro, Crises of Democracy, edito da Cambridge University Press, analizza i sintomi dell’attuale crisi politica del mondo occidentale.

Iniziamo parlando del tuo nuovo libro, “Crises of Democracy”, nel quale parli dei problemi della politica contemporanea. Per capire esattamente di cosa si tratta, identifichi inizialmente cosa si intende per “democrazia” per poi, sulla base di questa definizione, spiegare cosa c’è che non funziona.

Per me la democrazia è soprattutto un metodo per risolvere i conflitti che sono inerenti ad ogni società. Nello specifico, è un meccanismo attraverso il quale il popolo decide chi governa e, in qualche maniera, come vuole essere governato. Qualcuno vince e qualcuno perde. E in una democrazia in salute, coloro che perdono aspettano per una chance di competere e vincere in futuro, il che è un tratto indispensabile per mantenere la pace sociale senza far ricorso alla repressione. Ci sono due condizioni fondamentali che permettono a questo meccanismo di funzionare: 1) perdere non deve essere troppo “costoso”, cioè le elezioni non devono essere un momento in cui c’è troppo in gioco. Per questo motivo, un grado di polarizzazione troppo alto rende difficile risolvere i conflitti; 2) è indispensabile la presenza di una serie di istituzioni che permettano alla volontà popolare di essere tradotta nel “mondo politico”; in particolare c’è bisogno di istituzioni rappresentative come partiti, sindacati, associazioni. Il loro ruolo è di veicolare le domande popolari in rappresentanza politica. In caso contrario, la protesta di strada diventa la norma.

Lavorando sul mio libro ho potuto constatare che 1) la società moderna è sempre più polarizzata e, 2) il sistema tradizionale di rappresentanza si sta disintegrando. Ecco perché siamo in crisi.

Potresti spiegare cosa intendi per polarizzazione?

Generalmente per capire cosa si intende con polarizzazione, tendiamo a guardare ad una distribuzione lineare delle preferenze dei cittadini: sinistra/destra in Europa, liberal/conservatore in America. Se la distribuzione ha due “gobbe” separate e distanti, allora ci troviamo davanti ad una società polarizzata. In realtà una definizione del genere non è completa. Se abbiamo gruppi con preferenze diverse, la domanda da porsi non è soltanto quanto queste siano distanti, ma anche, come accennavo in precedenza, “quanto è costoso perdere?”; e “come giudichiamo coloro coi quali non siamo d’accordo?”. Nel mio lavoro ho trovato che, specialmente in Europa, le preferenze non sono cambiate eccessivamente – quindi la distanza tra i due gruppi è simile a quella che si aveva in precedenza – ma il grado di ostilità tra le persone di idee diverse è aumentato tremendamente.

L’altro aspetto della crisi è riconducibile al collasso del sistema politico e all’indebolimento dei sindacati. Anche se in maniera diversa, mi pare si possa dire che sono entrambi fenomeni di lunga durata, iniziati una trentina di anni fa. Vi sono dunque radici storiche che ci aiutano a spiegare la crisi attuale?

Guardando alla maggioranza dei principali trend politico-economici possiamo senza dubbio sostenere che il mondo è cominciato a cambiare dopo il 1978 con la rivoluzione neo-liberista: Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli USA; l’ascesa del Washington Consensus e dunque l’imposizione ad altri paesi di politiche economiche decise dal Tesoro americano attraverso l’operato della World Bank e del Fondo Monetario Internazionale e attraverso gli accordi commerciali; e la smisurata crescita delle diseguaglianze – ben rappresentata da quel famoso grafico che mostra la divaricazione tra produttività e salari che invece, fino ad allora, crescevano di pari passo. Non è una coincidenza che proprio quel periodo sia stato segnato da una forte offensiva contro i sindacati: dopo il 1978 il numero di lavoratori sindacalizzati è calato molto rapidamente, tanto in USA quanto in Europa.

Per quel che riguarda, invece, l’impatto sul sistema politico tradizionale, il discorso è più complicato: l’aspetto più saliente è che i socialdemocratici sono diventati social-liberali. Il loro messaggio politico è cambiato, si è cominciato a parlare di trade-off tra efficienza e diseguaglianza, tra crescita ed eguaglianza, mentre tradizionalmente i socialdemocratici avevano sempre sostenuto che la redistribuzione del reddito fosse un fattore importante per la crescita, per esempio attraverso l’aumento del capitale umano.

Il risultato è stato che i socialdemocratici sono diventati delle copie dei partiti liberali. L’eminente sociologo spagnolo Jose Maria Maraval ha rappresentato graficamente gli spostamenti dei programmi dei partiti: quelli di destra si sono spostati ulteriormente a destra, mentre i partiti di sinistra li hanno inseguiti sullo stesso terreno. E questo è un dato importante di delegittimazione della democrazia: i problemi non ci sono solo quando alle elezioni c’è troppo in gioco, ma anche quando c’è troppo poco: a cosa serve competere alle elezioni se le stesse elezioni, a prescindere dal risultato, non cambiano nulla?

Questo mi porta alla mia domanda successiva che riguarda la crisi di legittimità del vecchio sistema politico e i cambi a cui stiamo assistendo. Possiamo leggere la nascita di nuovi partiti, più attenti alle domande popolari, come un rinnovamento della democrazia? O, nel caso di sistemi bipartitici come gli USA, quello a cui stiamo assistendo è una inversione della tendenza a muoversi verso il centro (o quantomeno verso destra da parte della sinistra): da una parte Trump e il Tea Party ma dall’altra l’emergere di candidati come Sanders.

La situazione che descrivi è quello che in gergo tecnico viene chiamato “partisan realignment”: emerge un nuovo gruppo sociale con nuovi bisogni e, per vincere le elezioni, i partiti devono aggiustare le proprie politiche per tenere in conto queste richieste. E’ certamente possibile che stia accadendo questo ma se questo è il caso, una delle possibili conseguenze è l’inevitabile crescita elettorale di alcuni partiti di destra estrema: il rischio è ritrovarsi ovunque dei Salvini.

Un aspetto di questa nuova politica che trovo interessante è il nuovo modello comunicativo: abbiamo diversi esempi a destra – Trump, l’AfD in Germania, i conservatori giapponesi – in cui i leader politici hanno cominciato ad usare un linguaggio che è quello che si è sempre usato in privato ma che non era consentito in pubblico. Non ci sono più tabù. L’effetto “perverso” di questo sdoganamento è stato però che ora anche la sinistra può usare un vocabolario nuovo, ed ecco che in USA una parola come “socialismo”, di fatto in precedenza bandita dal dibattito pubblico, non solo è entrata a farne parte ma ha anche molto successo. Questo direi che sì, c’è una certa ristrutturazione del sistema politico in atto, ma il problema rimane che i partiti tradizionalmente di sinistra sono disastrosi: quinti in Francia, forse quarti in Germania. La relazione tra i lavoratori e questi partiti è ormai definitivamente rotta.

Il problema, però, non riguarda soltanto la qualità dell’offerta politica, ma anche la struttura di questi partiti che ormai sono più che altro comitati elettorali. Ho recentemente visto dei dati dell’Istituto Nazionale di Statistica della Francia: solo l’1% degli intervistati è attivo in un partito politico. I partiti non hanno più la capacità di mobilitare la popolazione – e, nel caso, di smobilitarla, che è un altro aspetto fondamentale dell’organizzazione politica. E se non hanno questa capacità, non controllano davvero nulla.

Quindi, mi pare di capire, con la de-istituzionalizzazione della democrazia è fortemente decresciuta la capacità di risolvere i conflitti – come ad esempio nel caso dei gilets jaunes francesi.

Esattamente, ci troviamo in una situazione nella quale le persone non trovano nessuno in grado davvero di rappresentarli. E quindi c’è un ritorno della “piazza”: basti guardare ai recenti casi come appunto quello francese, ma anche in Bolivia, Perù, Cile, Colombia, Equador, India, Iran, Iraq, Libano. A mio parere questo è il risultato della debolezza del vincolo tra società e rappresentazione politica.

Per il momento abbiamo parlato dei sintomi della crisi, ma non delle sue cause. In un tuo famoso lavoro del passato su capitalismo e socialdemocrazia, pubblicato negli anni ’80, si spiegava come il maggior conflitto che la democrazia si occupava di risolvere fosse quello economico e distributivo tra lavoro e capitale. In questi quarant’anni di cui abbiamo parlato, la polarizzazione economica è aumentata, eppure nel tuo nuovo libro sei molto cauto sulle motivazioni economiche a monte di questa crisi.

I fattori economici non sono sufficienti a spiegare quello che sta succedendo. Certo, contano e lo possiamo vedere a qualsiasi livello di analisi: a livello nazionale sappiamo che i paesi più colpiti dalla crisi finanziaria tendono ad avere partiti di destra e xenofobi più forti che altrove; a livello locale, nelle regioni e nei distretti che, a causa della globalizzazione, hanno perso il maggior numero di industrie, notiamo una presenza maggiore di movimenti di destra; ed anche a livello individuale, quelle persone che hanno esperienza di difficoltà economiche – che lavorano in comparti industriali dove maggiore è l’automazione o la concorrenza dall’estero – è più probabile che abbiano visioni o di sinistra radicale o di destra estrema. Eppure, quando proviamo a misurare l’impatto di questi fattori economici sui comportamenti di voto, troviamo sì una rilevanza statistica ma molto debole. In termini tecnici: uno studio che ha comparato regioni diverse – quelle che hanno perso maggiori posti di lavoro e quelle che ne hanno persi meno – ha stimato che queste differenze economiche spiegano poco più di mezzo punto percentuale (0.6%) dei voti per i partiti di destra. In parole povere, se l’AfD (il partito di destra tedesco) è al 12.6%, le cause economiche spiegano solo lo 0.6%, ma da dove arriva il restante 12%? Ci devono essere altre spiegazioni, ma al momento le ignoriamo.

Nel tuo libro per spiegare la crisi attuale usi la definizione di Gramsci “il vecchio muore e il nuovo non può nascere” ed in effetti questa sembra descrivere perfettamente questo periodo transitorio in cui vediamo i sintomi della crisi ma ci è difficile comprenderne le cause e dove andremo a finire. Il che, ovviamente, significa che è difficile avanzare soluzioni

I cittadini sono disorientati. Ho letto da poco uno studio che chiede alla popolazione di identificare le linee di divisione presenti nel loro paese: ricchi/poveri, padroni/lavoratori, vecchi/giovani, o divisioni etniche. Ebbene, coloro che hanno difficoltà finanziarie sono quelli che in effetti insistono di più sulla presenza di queste divisioni, senza però precisare quale. Ai tempi in cui il marxismo aveva una certa importanza politica, la linea di divisione sarebbe stata chiaramente identificata tra lavoro e capitale; se la popolazione fosse invece semplicemente razzista punterebbe sulle divisioni etniche. Invece la gente non sa quale sia la radice del problema. In un altro sondaggio francese che ho letto da poco, si chiedeva agli intervistati di spiegare quali sono le ragioni per aver successo nella vita: lo studio, una famiglia ricca, e così via. Ed una volta di più la risposta più comune è stata “non so”.

In una situazione del genere, è davvero difficile per i partiti capire in che dimensione muoversi. La sinistra, per ovvie ragioni, non può permettersi di essere xenofoba, eppure allo stesso momento non può nemmeno alzare un muro contro gli elettori con tali sentimenti perché lascerebbe troppo campo libero alla destra. Siamo in un periodo di grande instabilità.

Che tipi di rischi vedi in questa situazione di incertezza? Al momento abbiamo visto la crescita di partiti populisti di destra ma non sembrano interessati a rovesciare l’ordinamento democratico, anzi sembrano cercare legittimità politica attraverso il passaggio elettorale. Nadia Urbinati parla di democrazia trasfigurata ma pur sempre democrazia

Io penso che ci siano due tipi di populismo – quello partecipativo e quello delegato. Nel primo caso abbiamo un numero sempre maggiore di persone che sono insoddisfatte delle istituzioni che abbiamo – perché non sono rappresentative, non lavorano per il popolo e lasciano gli elettori senza voce. E’, in qualche maniera, un ritorno a Rousseau: la rappresentanza è considerata un perpetuarsi della schiavitù Un esempio di tal genere di populisti sono i 5 stelle. Per rispondere a questo tipo di populismo, si possono intraprendere alcune riforme istituzionali: referendum, assemblee di cittadini – che però a mio parere avrebbero un impatto modesto. L’altro tipo di populismo, invece, lo definisco “schumpeteriano”: è delegato nel senso che i cittadini vogliono semplicemente essere governati bene, e questo permette a chi è al governo di usare a proprio vantaggio le leve del potere per proteggersi da sconfitte elettorali. Nella mia opinione questo è un arretramento democratico che presenta molti rischi – un tipo di populismo che ci conduce diritti al modello russo.

Giacché hai citato la Russia e la democrazia delegata, vorrei sapere la tua opinione su quello che sta succedendo in Europa orientale, un classico esempio di regressione della democrazia. Pensi ci sia qualche collegamento tra questa situazione e il fallimento della transizione post-comunista? Ricordo che nei giorni della caduta del Muro, i popoli di “oltre cortina” guardavano con speranza alle democrazie occidentali, ma erano favorevoli a un’economia mista di tipo socialdemocratico – ed invece si ritrovarono con la shock therapy.

Iniziamo dicendo che ci sono forti differenze tra i paesi guidati da partiti populisti in Europa Orientale: la Polonia, per esempio, è molto diversa dall’Ungheria. Il governo polacco è quello che si può definire un tradizionale governo di destra autoritaria, simile a quelli che vi erano in Europa negli anni ’50 e ’60 – una destra nazionalista, religiosa, “statalista” che indubbiamente rappresenta una reazione alla shock therapy. Il PiS – il partito di governo – è l’esempio classico di una forza politica capace di rimanere al potere senza ricorrere a forme evidenti di repressione – non c’è bisogno di mettere le persone in galera quando si controllano i media, il sistema giudiziario e, soprattutto, il denaro con cui comprare i voti. In effetti la mancanza di repressione è l’unica differenza notevole con i regimi autoritari della seconda metà del Novecento. L’Ungheria è diversa: Orbán e il suo sistema di potere oligarchico sono molto più corrotti del regime polacco: il controllo sui mezzi di informazione è molto maggiore ed anche il grado di repressione. In entrambi i casi, però, si tratta di una reazione di destra alla transizione neoliberale che è stato un disastro ovunque: in Polonia il PNL calò dl 20% in due anni, e la disoccupazione raggiunse il 20%. Ovviamente questo si tradusse in instabilità politica: prima tornarono al potere gli ex-comunisti, una forza più statalista, per poi essere rimpiazzati dalla destra liberale – arrogante e tecnocratica – che fu tanto detestata da aprire le porte alla vittoria della destra tradizionalista, che usa una retorica nazionalista e redistribuisce il reddito verso la sua base agricola e contadina – una operazione di grande successo. La situazione attuale è che la Polonia è divisa tra una destra liberale e una statalista, senza davvero alcuno spazio per la sinistra.

Vorrei concludere parlando della relazione tra capitalismo e democrazia. Nel tuo libro spieghi il perché siamo di fronte ad una crisi della democrazia ma sei molto netto nello spiegare che invece non c’è nessuna crisi del capitalismo – quantomeno non nei termini gramsciani di cui parlavamo prima, in quanto il capitalismo è sempre capace di rigenerarsi.

C’è una distinzione da tenere a mente tra crisi nel capitalismo e crisi del capitalismo. Ovviamente abbiamo crisi economiche, anche di portata globale come quella del 2008. Eppure per capire la differenza, basta guardare a Kalecki che già negli anni ’30 spiegava che il capitalismo ha un sistema di auto-regolamentazione, che è incredibilmente oneroso – e che comporta milioni e milioni di persone senza lavoro, senza casa, migrazioni di massa – ma che infine, attraverso l’aggiustamento dei prezzi e dei salari, ristabilisce una sorta di status quo. Abbiamo quindi crisi nel capitalismo ma non del capitalismo, mentre al momento assistiamo una crisi della democrazia.

Mi pare che però ci sia un punto nuovo che discuti nel tuo libro tra i sintomi della crisi – la stagnazione economica. Mi pare qualcosa di particolarmente importante in quanto influenza non solo l’economia e la condizione materiale, ma anche la percezione che i cittadini hanno di sé stessi. Se questa stagnazione divenisse una situazione permanente, pensi che possa mettere in discussione il processo di crescita continua che è alla base del sistema capitalistico e dunque la sua legittimità?

In effetti questo periodo di stagnazione non ha precedenti. Abbiamo dati economici affidabili solo dal 1950 ma mentre guardavo a quanto abbiamo di disponibile per il periodo tra le due guerre – ed in particolare cosa è successo al 50% più povero della distribuzione di reddito – ho raggiunto la conclusione che questo periodo di stagnazione è il più lungo che abbiamo conosciuto. Non solo: dobbiamo aggiungere il dato sulla mobilità intergenerazionale: al momento il 64% degli europei ed il 60% degli americani non crede che i propri i figli staranno meglio di loro. E’ la prima volta dai tempi della Rivoluzione industriale in cui abbiamo una generazione che non crede più nel progresso materiale. Dove ci può condurre tutto questo? La sinistra socialista tradizionale suggerirebbe una maggiore redistribuzione e ci sarebbe sicuramente spazio per un aumento delle tasse sui più ricchi o una tassa sulla ricchezza. Il problema è che una maggiore redistribuzione non cambia le capacità produttive e non modifica la distribuzione dei redditi di mercato (prima della tassazione) che rimane dunque estremamente ineguale. E questo crea una situazione complicata perché usare solo la leva fiscale crea dei conflitti distributivi e ostilità popolare alle tasse alte. Io penso che la soluzione sia nel riformare la struttura proprietaria – come con le riforme Meidner in Svezia negli anni 70 per la creazione di fondi dei salariati, o la co-proprietà delle aziende da parte dei lavoratori. E questa sì sarebbe una rimessa in discussione della struttura economica.

(19 marzo 2020)

Da - http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/03/19/democrazia-e-crisi-capitalistiche-intervista-ad-adam-przeworski/
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 10, 2020, 11:02:36 am »

Le differenze dal passato, in molti settori della società e in politica, ci salveranno.

Dovrà essere non più come prima "meglio" di prima, soprattutto negli Umani.
La società Italiana resa inumana dalla partitocrazia, è stata costretta ad uccidere una generazione, per fare posto nei luoghi della salute.

I politici di oggi vogliono ignorare i fatti e i colpevoli per far dimenticare la tragedia, tentando di mantenere lo statu quo nella sanità ormai inadeguata.

Morti per insufficienze organizzative, di mezzi e di personale, la Sanità ne ha sempre avuti ma una simile moltitudine in pochissimo tempo ha cancellato ogni ipocrisia complice e colpevole.

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