CARLO FORMENTI - L'equivoco della Rete buona
Nella seconda metà degli anni Novanta e nel primo decennio del Duemila, a mano a mano che il Web perdeva le caratteristiche di una “nuova frontiera”, aperta alla libera iniziativa di gruppi e persone, e veniva colonizzato dai giganti della Silicon Valley (Amazon, Apple, Facebook, Twitter e soci) si moltiplicavano gli scontri fra questi mostri della New Economy e i governi (a partire da quello americano), i quali chiedevano di poter accedere ai dati che le imprese venivano accumulando sui propri utenti.
Il braccio di ferro si è fatto incandescente dopo gli attentanti alle torri gemelle, ha vissuto fasi alterne e spesso si è svolto dietro le quinte (le imprese, mentre pubblicamente difendevano a la privacy dei loro clienti, spesso passavano sottobanco alle agenzie di sicurezza le informazioni richieste). Nei corsi che in quegli anni tenevo ai miei studenti di Teoria dei nuovi media, mi sforzavo di spiegare come, in realtà, dietro quel gioco delle parti, i contendenti avessero sostanziosi interessi comuni: per il potere politico i Big Data raccolti dalle Internet Company erano un prezioso strumento di controllo su comportamenti e opinioni dei cittadini, per le Internet Company erano la materia prima dei loro modelli di business, per cui entrambe le parti erano disposte a condividere – entro certi limiti – questo patrimonio.
In tempi più recenti, con il crescere del peso dei social network quali fonti di informazione a spese dei media tradizionali, si è aperto un nuovo fronte: i new media si sono rivelati canali assai meno controllabili e manipolabili, indebolendo i potenti effetti sinergici fra i flussi di comunicazione gestiti da governi, partiti, giornali e reti televisive e il loro impatto sui processi di formazione dell’opinione pubblica. Di qui l’emergere di inediti movimenti politici e i fulminei cambiamenti di orientamento dell’elettorato. Così, alla lotta fra difensori della privacy e paladini della sicurezza, si è affiancata quella fra campioni della libertà d’informazione e crociati della guerra alle “fake news” in nome della (presunta) maggiore correttezza e attendibilità dell’informazione professionale.
Le sinistre post comuniste, in coerenza con la loro conversione alle ideologie liberal-progressiste e con la loro composizione sociale – progressivamente slittata dai ceti subalterni alle classi medie “riflessive” – si sono perlopiù schierate con le ragioni della privacy e della liberta d’informazione contro quelle della sicurezza e contro il monopolio dei media tradizionali. Si è trattato di una posizione “di principio”, ispirata da valori genericamente libertari, laddove le destre hanno assunto posizioni altalenanti, a seconda che si trovassero al potere o all’opposizione.
Il paradosso è che, in questo modo, le sinistre, che si vorrebbero interpreti dei bisogni e degli interessi di chi non detiene il potere economico, politico e mediatico-culturale, si trovano a essere alleate di fatto con i monopoli privati che dominano sulla Rete e sui Big Data, calpestano non meno dei governi il diritto alla privacy (sia pure in nome del profitto invece che in nome della sicurezza), fanno libero commercio dei dati in loro possesso, si sostituiscono alla politica nell’esercitare la censura nei confronti di contenuti che considerano “sgraditi” o “politicamente scorretti” (decidendo a loro arbitrio se certe parole debbano essere considerate incitamento all’odio di classe, sessiste, omofobe, ecc.). Il paradosso in questione è il prodotto della decennale evoluzione in senso “antistatalista” e “antipolitico” delle sinistre, per cui tutto quanto emana dal potere – a prescindere dalle sue connotazioni ideologiche, che si parli cioè del regime cinese, di Maduro, Bolsonaro o Donald Trump – è per definizione malvagio, mentre tutto ciò che emana dalla “società civile” – come le comunità del Web, spesso confuse con le piattaforme tecnologiche che le gestiscono – è, se non buono, espressione di un agire libero e spontaneo.
Così quando Trump dà in escandescenze perché Twitter si permette di mettere la museruola alle sue farneticanti esternazioni, scrosciano gli applausi. Personalmente, qualsiasi cosa faccia infuriare Trump non può che farmi piacere, ma il riflesso condizionato di chi come il sottoscritto ha studiato per anni le dinamiche economiche, politiche e sociali del Web mi induce a ripetere quanto dicevo vent’anni fa ai miei studenti: gli scontri fra Internet Company e politica non sono mai questione di buoni contro cattivi, ma regolamenti di conti fra diverse fazioni delle élite che dominano il mondo contemporaneo. Trump è odiato dai magnati della Silicon Valley perché incarna gli interessi di settori sociali legati alla “vecchia” economia e una visione politica di un’America ripiegata su se stessa, laddove i Democratici sono legati a doppio filo ai colossi del Web in quanto strumenti del soft power americano e portavoce della loro visione globalista. Quando le belve lottano le prede possono gioire perché (e fino a che) si neutralizzano a vicenda, ma non c’è ragione di tifare per l’una o per l’altra.
Carlo Formenti
(1 giugno 2020)
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