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« inserito:: Dicembre 16, 2007, 10:44:00 am » |
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15/12/2007 (7:28) - L'INTERVISTA
"Banche e imprese fuori dai giornali"
Profumo: «Sentir parlare di soluzioni nazionali per Alitalia mi preoccupa»
FRANCESCO MANACORDA MILANO
«Sì, succede tutto oggi, ma è solo un caso». Nel giorno in cui Unicredit riporta la sua quota in Mediobanca ai livelli pre-fusione con Capitalia e annuncia la «disponibilità» a uscire da Rcs, cedendo ai pattisti quel 2% eredità sempre dalla banca romana, Alessandro Profumo rivendica la doppia mossa come «la dimostrazione che cerchiamo di fare le cose in modo coerente».
Il calo in Mediobanca era un impegno con l’Antitrust. Da cosa dipende, invece, la disponibilità a cedere le azioni del gruppo che edita il Corriere della Sera? «Al fatto che, in linea con il comportamento che abbiamo già avuto qualche anno fa, non è il caso che Unicredit faccia - anche se con una piccola quota - l’editore».
Dunque è meglio tagliare i rapporti tra banche ed editoria? «Secondo me andrebbero tagliati i rapporti tra chiunque svolge un’attività economica e l’editoria. E noi siamo un soggetto economico. L’azionariato ideale di una società di media è composto da soggetti che fanno solo quel mestiere».
La sua visione rischia di passare un po’ per naif in un paese dove gli editori puri scarseggiano... «E’ inutile anche che me lo dica, me ne rendo perfettamente conto. Ma penso che sarebbe opportuno andare in questa direzione. Noi come banca siamo in Germania e là ci sono tanti editori puri».
Per Rcs il presidente di Intesa-Sanpaolo Giovanni Bazoli propone di affidare il controllo a una Fondazione. Concorda? «Non sono un tecnico e immagino che ci sia tanta gente competente che ragiona sul tema. Quel che penso è che un giornale debba avere il massimo dell’indipendenza ed essere fatto per i lettori, così da avere il massimo successo economico».
La cessione del 9,39% di Mediobanca cosa cambia? «Chi pensava che non avremmo venduto, che non saremmo stati conseguenti all’impegno che abbiamo preso quando abbiamo annunciato la fusione, viene smentito. Siamo fondamentalmente noiosi: diciamo quello che facciamo e facciamo quello che diciamo».
Lettura in chiaro: Intesa-Sanpaolo stia tranquilla per quell’asse che da voi porta a Mediobanca e da lì al Leone, socio proprio della banca... «Poteva stare tranquilla prima e può stare tranquilla oggi. Per essere chiari noi non controlliamo Mediobanca nè abbiamo alcuna voglia di farlo».
Al comitato nomine di Mediobanca, che dava il via libera ai vertici di Telecom, il vostro presidente si è astenuto. Perché non votare semplicemente no? «Ci siamo astenuti perché pensiamo che il metodo utilizzato non sia quello ideale. Un voto contrario avrebbe dato l’impressione che ci opponessimo alle persone».
Ma così non sembrate azionisti forti che rifiutano di decidere? «Intanto non siamo i decisori in Mediobanca. E poi mi sembra abbastanza corretto dire che i processi attraverso i quali vengono assunte le decisioni debbono funzionare in un certo modo e non in un altro».
L’impressione è che lei e il presidente di Mediobanca Cesare Geronzi abbiate agende diverse... «Le rispondo di no. Su alcune cose abbiamo punti di vista in comune, su altri no e ci confrontiamo in modo abbastanza diretto, cosa che forse non è molto usuale. Tra di noi non esiste un problema di qualità dei rapporti».
Anche per lei, come per Geronzi, «coerenza è una parola complessa»? «E’ vero che è una parola complessa. Il mondo è fatto fondamentalmente di tonalità di grigio e bisogna capire quali sono i princìpi sui quali non si fanno compromessi e le cose sulle quali i compromessi si possono invece fare. Quando uno è coerente è perché dichiara delle cose e poi le fa».
Unicredit sta in Mediobanca - lei ha spiegato - anche per presidiare le Generali... «Io non ho intenzione di gestire alcunché. Ma penso che se Generali ha la capacità di essere un’azienda pienamente di mercato, questo crea benefici per il paese e per gli operatori. Ed essendo Mediobanca un azionista molto rilevante di Generali suppongo che se qualcosa succederà bisognerà passare anche da lì».
Lei concorda con quanto detto giovedì dal consiglio Generali, che la governance del Leone va bene così com’è? «Se il cda l’ha detto sarà così. Io non lo so, non sono in Generali e quindi non parlo della questione. Ma anche questa - a suo modo - è una notizia, visto che in Mediobanca e fuori c’è chi parla di tutto». Vede l’iniziativa del fondo Algebris come un attacco al Leone? «Non credo che Generali possano essere scalate in modo ostile. Quindi non penso che Algebris avesse intenzione di fare un attacco».
Allora, al contrario, la ritiene uno stimolo salutare? «L’impressione che ne ho è che il fondo volesse appunto sollecitare attenzione su alcuni elementi di governance».
Usciamo dai «salotti» e parliamo di Alitalia. Serve una soluzione nazionale come chiedono molti politici e qualche banchiere? «Quando sento parlare di soluzione nazionale mi preoccupo sempre. Preferisco soluzioni che facciano funzionare le aziende e ci trasportino in giro per il mondo. Poi, se abbiamo delle grandi aziende basate in Italia sono molto contento».
Dopo la crisi dei subprime avete annunciato di recente il cambio di modello di business: meno crediti «impacchettati» e ceduti sui mercati e più rischi tenuti sui bilanci della banca. Scelta virtuosa o necessità? «Vendere rischi non è di per sè una cosa negativa, anche se negli Usa ci sono state delle patologie: consentire alle banche di cedere il 100% del credito, usare strumenti molto avanzati che le agenzie di rating non riuscivano a capire a fondo. In Europa questo non è successo. Noi l’anno scorso su 100 miliardi di nuovi crediti ne abbiamo cartolarizzati solo 14,7».
E quest’anno saranno ancora meno? «Oggi il mercato della distribuzione del credito di fatto non esiste quasi più. Quindi passare a un altro modello, in cui ti tieni sui libri i crediti che concedi, diventa una necessità. Ma allora per far fruttare il capitale, la banca deve vendere altri servizi ai clienti, specie quelli corporate. Oltre all’osso della linea di credito devi avere anche la polpa di servizi: dal leasing, alla gestione della liquidità, ai finanziamenti commerciali».
Nelle scorse settimane Unicredit è finita sulla graticola anche per la vicenda dei derivati venduti alle imprese... «I derivati non sono il prodotto del demonio. Noi abbiamo venduto soprattutto prodotti di hedging, di copertura dai rischi. E io mi preoccupo più per quelle imprese nostre clienti che non si sono coperte dai rischi che non di quelle che lo hanno fatto. Ma detto questo noi non siamo “la” banca dei derivati: da dati ufficiali appare che abbiamo il 24% delle perdite potenziali, il cosiddetto “mark to market” per il settore delle imprese, che scende addirittura all’11% per le istituzioni pubbliche. Quel che resta, la maggioranza, lo ha qualcun altro».
da lastampa.it
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