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Autore Discussione: Vincenzo Vasile - Napolitano dice basta  (Letto 2412 volte)
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« inserito:: Dicembre 15, 2007, 05:58:11 pm »

Napolitano dice basta

Vincenzo Vasile


Giorgio Napolitano torna in Italia dopo una tre giorni statunitense «positiva senza se e senza ma» sul piano dei rapporti con l’alleato di Oltreoceano che ha ascoltato con rispetto le tesi di politica internazionale del nostro presidente e di D’Alema. E intanto lascia agli atti un’esternazione sulla politica interna e sullo stato del Paese tra le più esplicite e urticanti, per l’elenco netto e stringente che stila dei suoi motivi di aspra contrarietà e dei propositi istituzionali. Contro l’antipolitica di un «noto comico italiano» (l’Italia, dice, non è quella raccontata da Beppe Grillo). Contro l’esasperazione del duello tra politica e magistratura (bisognerebbe che certa politica - par di capire: Berlusconi - «pesi per bene le parole» che sappiano di «delegittimazione» delle toghe). E per tornare ad affermare la «necessità» inderogabile delle riforme elettorale e costituzionali.

Ce ne è per la maggioranza: sulla ventilata raffica di maxi-emendamenti e di voti di fiducia sulla Finanziaria, Napolitano annuncia di volere esprimere un suo «commento», non velatamente polemico, il prossimo 20 dicembre. Ce ne è per la stampa, che viola atti coperti dal segreto investigativo, e che per tanti versi stravolge la realtà italiana, come il presidente tornerà a insistere in conferenza stampa con i quirinalisti.

Lo scopo delle parole di Napolitano è un forte recupero della nostra immagine internazionale, perché si possa tornare - così il presidente invita i politologi americani - a «scommettere» sull’Italia e - citando Keynes - sui nostri «spiriti animali», cioè sulle nostre doti di temperamento e di carattere nazionale. L’occasione è un dibattito mattutino organizzato a New York dal Council on foreign relations, per molti versi occupato dalla spulciatura della copia fresca di stampa del New York Times che in prima pagina titolava ieri un reportage sull’«Italia in stato di crisi, che canta una romanza di infelicità». Vi si leggono - commenta - anche perle di «pura stupidità», come la balla di tutti i parlamentari dotati di auto blu, o di decine di persone condannate sugli scranni di Montecitorio. E ne esce un’immagine falsata che il Nyt condivide anche con alcuni giornali italiani, che prendono a «modello» legittimamente, ma in maniera - diciamo - un po’ «esagerata» quel certo comico e blogger italiano.

Il presidente vuol chiamare, invece, le cose con il proprio nome: sappiamo bene che sono diffusi «stati d’animo di sfiducia e di preoccupazione» che derivano dalle «incertezze» del nostro sistema politico e istituzionale. E Napolitano, che ne parlò all’atto del giuramento davanti alla Camere, è ovviamente «il primo» a essere convinto della necessità delle riforme. In particolare, del bisogno di superare l’eccessiva «eterogeneità delle coalizioni che competono per la guida del governo». Ma è anche vero che non bisogna innamorarsi di sistemi copiati oltre confine: «Non dobbiamo essere provinciali». Accuratamente, il capo dello Stato evita di citare i sistemi elettorali tedesco o spagnolo di cui si parla in questi giorni, e preferisce invitare all’attenzione per il semipresidenzialismo francese o al presidenzialismo americano. Ma il presidente rileva che basta venire da queste parti o leggere qualche libro per scoprire le magagne del «divided government» (governo diviso tra presidente Usa e Congresso) e capire che non esistono all’estero panacee, né rose e fiori.

Torniamo, dunque, all’Italia: non è un male soltanto nostro, e negli Usa ci sono problemi in qualche modo simili; ma bisogna dire che a Roma il momento politico è caratterizzato da una «hyper-partisanship». Cioè da una eccessiva polarizzazione tra gli schieramenti, che impedisce la riforma elettorale. Napolitano registra il nuovo empasse di queste ore: l’attuale sistema elettorale è «decisamente negativo» perché obbliga coalizioni eterogenee a stare insieme per ottenere il premio di maggioranza, ma la situazione è «non facile» perché «quando i due principali partiti di ciascuno degli schieramenti, il Partito Democratico e Forza Italia, discutono la possibilità di condividere la legge elettorale, c’è sempre qualcuno che trova ragioni per essere contrario».

Eppure cambiare la legge elettorale è necessario per evitare «indecisione, litigi e poca trasparenza». È urgente «cambiare il clima politico». L’ex ambasciatore Richard Gardner si complimenta e sorride. Ha pescato negli archivi della Princeton University un suo rapporto al dipartimento di Stato, datato 1978. Quando - ricorda - fu proprio lui a promuovere una serie di conferenze dell’allora ministro degli esteri del Pci, che stupiva l’uditorio americano per la sua ostinata fissazione di trasformare il partito in una moderna forza socialdemocratica europeista. Oggi il suo ruolo di alto garante al vertice delle istituzioni italiane gli consente di pronunciare un’energica reprimenda super partes sull’annoso problema dei problemi in conferenza stampa al Consolato. Come la mettiamo, gli chiedono, con il solito duello tra giudici e politica? «Duello o non duello - è la risposta - l’essenziale è che ci sia rispetto reciproco. Quindi bisogna ben pesare le parole che si dicono e che possano comportare delegittimazione di singoli magistrati o di tendenze interne alle toghe. Anche i giudici devono coltivare il senso del limite, che è frutto di regole volte a garantire proprio l’autorevolezza dei magistrati».

Pubblicato il: 14.12.07
Modificato il: 15.12.07 alle ore 8.59   
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