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Autore Discussione: Oltre il revisionismo. Emilio Gentile e il fascismo preso sul serio ...  (Letto 4621 volte)
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« inserito:: Febbraio 20, 2020, 06:43:31 pm »

Oltre il revisionismo. Emilio Gentile e il fascismo preso sul serio

Di Marco Gervasoni
Martedì 01 Aprile 2003 02:00 Stampa

A scorrere le novità nella saggistica storiografica, ci si accorge che da tempo il fascismo costituisce uno degli argomenti più presenti, con dovizia e costanza, negli scaffali delle librerie. I documentari storici trasmessi in televisione, spesso anche in prima serata, mostrano sempre uno share più elevato quando sono diffuse immagini di Mussolini e di Hitler. Infine, tutti coloro che insegnano storia, nelle scuole superiori come nelle università, possono testimoniare di come l’attenzione degli studenti sia molto superiore allorché s’inizi a parlare del ventennio. Il «fascino dei totalitarismi», si potrebbe dire parafrasando un articolo del prestigioso «Journal of Contemporary History», che si interroga sulle ragioni del proliferare della produzione storiografica attorno a fascismo e nazismo, e anche sul relativo successo di pubblico riservato a volumi a questi temi dedicati.

Emilio Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza 2002, 322 pp.

A scorrere le novità nella saggistica storiografica, ci si accorge che da tempo il fascismo costituisce uno degli argomenti più presenti, con dovizia e costanza, negli scaffali delle librerie. I documentari storici trasmessi in televisione, spesso anche in prima serata, mostrano sempre uno share più elevato quando sono diffuse immagini di Mussolini e di Hitler. Infine, tutti coloro che insegnano storia, nelle scuole superiori come nelle università, possono testimoniare di come l’attenzione degli studenti sia molto superiore allorché s’inizi a parlare del ventennio. Il «fascino dei totalitarismi», si potrebbe dire parafrasando un articolo del prestigioso «Journal of Contemporary History», che si interroga sulle ragioni del proliferare della produzione storiografica attorno a fascismo e nazismo, e anche sul relativo successo di pubblico riservato a volumi a questi temi dedicati.1 Come spiegare questo fenomeno con quello, altrettanto contemporaneo, denunciato da Emilio Gentile nelle parti introduttive e conclusive del suo volume, vale a dire una «defascistizzazione» del fascismo? Per Gentile, nella storiografia come nel dibattito pubblico italiani, si è assistito negli ultimi anni alla diffusione di un’immagine edulcorata del fascismo, privato dei suoi elementi caratteristici, prima di tutto il nascondimento dei caratteri totalitari del regime, accomunato ad una dittatura, certo, ma non così rigorosa come sarebbero state quelle tedesche e sovietiche, queste sì, davvero totalitarie. Fascino del totalitarismo e «defascistizzazione» del fascismo potrebbero andare ben in coppia, e del resto l’idea di un fascismo in fondo bonario e tollerante rappresenta proprio la lingua franca di tanti commenti che accompagnano buona parte dei documentari televisivi.

Gentile è il primo a riconoscere che, sia pure non in forme così schematiche e approssimative, una parte di quest’interpretazione è stata sostenuta, e con quale solerzia di prove storiografiche, dal suo maestro, Renzo De Felice. Dalla cui scuola sono in parte derivate tutte quelle interpretazioni che si sono ribattezzate revisionistiche. Ma che è anche la prima scuola, se così si può dire, ad avere studiato sul serio il fascismo e il cui luogo d’incontro principale, la rivista «Storia contemporanea», ha ospitato, fin quando è esistita, studi tra i più rilevanti e innovativi, sul fascismo italiano ma non solo. De Felice, come si sa, è stato poi soggetto ed oggetto di polemiche, dall’Intervista sul fascismo del 1975 fino al libro intervista Rosso e Nero, pubblicato poco prima della morte.2 Polemiche che lo hanno visto contrapposto soprattutto ad una certa parte della cosiddetta storiografia di sinistra, e di cui ha fatto le spese lo stesso Gentile, non trattato con guanti bianchi sul quotidiano dell’allora partito comunista. Si può ben affermare che tutto questo appartenga al passato. Non appartiene al passato solo la polemica, tipica degli anni Settanta, sul consenso del fascismo, ma anche, a nostro avviso, quella sull’uso politico del dibattito sul revisionismo. Come tutti i dibattiti storiografici che contano, questi partivano dalle sollecitazioni della sfera pubblica e rimandavano ai conflitti d’egemonie interni alle sfere della politica e della società. Ma essi vanno collocati, in un periodo, gli anni Ottanta e Novanta, in cui la crisi dei partiti fondatori del patto costituente andava di pari passo con la messa in discussione delle interpretazioni storiografiche che, in qualche modo, ne avevano legittimato l’esistenza. Infine, fenomeno molto apprezzabile, è venuta meno la partizione della storiografia per aree partitiche. Non è questa certo la sede per ripercorrere i caratteri di questi dibattiti, che pure un giorno andrebbero studiati. Si è solo voluto accennare a quest’argomento per mostrare come il libro di Gentile, che qui andiamo discutendo, appartenga già ad una stagione nuova, frutto della profonda ricomposizione del quadro culturale e politico, quindi anche storiografico. Una stagione in cui, certo, la storiografia non perde la propria politicità, ciò che sarebbe impossibile, ma in cui i clivages sono profondamente mutati, e non passano più attraverso una parziale e manichea contrapposizione tra revisionismo ed ortodossia, secondo cui, ad essere a nostra volta schematici, la destra sarebbe più vicina alla prima sensibilità, la sinistra a quella della difesa ortodossa. A testimonianza di ciò stanno anche le recensioni e le reazioni dei quotidiani alla pubblicazione del libro di Gentile, per cui, semmai la destra possiede la sensibilità dell’oblio (o del disinteresse). Ma su questo ritorneremo alla fine.

Non crediamo che la figura di Emilio Gentile richieda presentazioni.3 Tra i massimi studiosi internazionali del fascismo, la produzione dello storico si è sempre caratterizzata, nel panorama italiano, per un’attenzione e un’apertura alle metodologie e ai dibattiti internazionali, soprattutto verso i paesi di area anglosassone. Ciò ha condotto all’elaborazione di una cifra e di uno stile storiografici partiti dal solco degli insegnamenti di Renzo De Felice, ma poi arricchitisi di elementi davvero originali nell’ambito della storiografia italiana. Basta citarne uno, la padronanza dei concetti filosofico-politici e politologico-sociologici e un loro uso critico e al tempo stesso creativo, sfuggendo cosi da uno dei difetti di una parte della storiografia italiana, l’empirismo acritico e un piatto narrativismo. Il volume di cui trattiamo è costituito da una raccolta di saggi, pubblicati in vari periodi, ma profondamente rimaneggiati, tanto da fornire al lettore uno straordinario effetto di unitarietà, pur nella varietà degli argomenti proposti. Al tempo stesso, pur essendo stati pubblicati in periodi coevi ai lavori precedenti di Gentile, essi in alcuni punti rimettono in discussione, rivedendole in alcuni casi, chiarendole in altri, le stesse ipotesi avanzate in passato dallo studioso. S’intende che, data la ricchezza dei singoli saggi e l’importanza delle questioni affrontate, questo articolo non potrà entrare nel merito di ogni singolo punto, cosa che richiederebbe una sede specialistica e uno spazio tipografico anche maggiori. Si vuole qui offrire una presentazione, certo sommaria, delle questioni affrontate da Gentile, così da motivare la nostra affermazione iniziale, secondo cui il libro in questione apparterebbe ad una nuova stagione del dibattito storiografico.

Nella prima parte, il volume offre un profilo storico del fascismo, in origine pubblicato per la Piccola Enciclopedia Treccani, in cui, pur nelle rapide pagine, emergono i tratti dell’interpretazione gentiliana del fascismo: un movimento nato dalla «mobilitazione dei ceti medi» che, per primo nel XX secolo, ha prodotto una pratica politica incentrata sulla violenza. Da qui l’edificazione di un «partito milizia» che prima ha conquistato il potere, poi lo ha retto sotto forma di un regime «tendenzialmente totalitario», orientato ad «organizzare, mobilitare, plasmare» gli italiani per creare un «uomo nuovo» fascista. Una lettura che si confronta, nel secondo capitolo, con le altre interpretazioni del fascismo, poi, nel terzo capitolo, si misura con lo sforzo di una definizione teorica di questo fenomeno. Qui Gentile polemizza vivacemente con coloro che sostengono «una presunta affinità genetica di fascismo e comunismo», ma anche con chi, soprattutto nella storiografia statunitense degli ultimi anni, tende a rilevare del fascismo gli elementi di propaganda e di «politica come spettacolo», di «estetizzazione della politica», finendo così per porre in secondo piano il fatto che il fascismo era sì un movimento «irrazionalista», ma che quest’irrazionalismo al potere era sostenuto da una ferrea organizzazione tesa a mobilitare. «L’irrazionalità della cultura fascista, – scrive Gentile – i suoi miti, furono politicamente efficaci perché si coniugarono con la razionalità dell’organizzazione e dell’istituzione» (p. 61). Abbiamo qui, come in altri saggi del volume, un esempio d’innovazione storiografica. In una direzione che coniuga lo studio dei miti, delle culture e degli immaginari del regime con la dimensione organizzativa e politica, allorché, in passato, gli aspetti organizzativi sono stati studiati soprattutto dalla cosiddetta storia politica mentre la cosiddetta storia culturale si è occupata dei miti e dei riti, spesso acriticamente svincolati dai caratteri contestuali.

Alla fine del saggio, Gentile offre una definizione di fascismo, in cui sono posti in primo piano: a) l’elemento di «dominio politico»; b) il carattere «rivoluzionario» del movimento; c) tale movimento organizzato da «un partito milizia»; d) una concezione «mitica» della politica, tesa alla creazione di uno Stato nuovo; e) l’obiettivo di «plasmare l’individuo e le masse attraverso una rivoluzione antropologica, per rigenerare l’essere umano» (p. 68). Da notare che Gentile, rispetto alla letteratura sul totalitarismo, sia sul versante politologico che su quello storiografico, definisce il fascismo un «regime ad esperimento totalitario» a significare il «carattere dinamico del totalitarismo come processo continuo». Suggestione che si potrebbe estendere anche agli altri regimi cosiddetti totalitari, nazismo e stalinismo, per affermare che non esiste una società o uno Stato in cui il totalitarismo si sia prodotto in senso perfetto, ma che si danno livelli, strati e gradi d’estensione del totalitarismo diversi secondo il periodo e degli ambiti. Postura questa, ci sembra, tipicamente storiografica, almeno ad intendere la storia come la disciplina che descrive e narra il mutamento nel suo farsi, a dispetto di certe recensioni che hanno visto nella cifra argomentativa di Gentile un procedere più politologico, definitorio e normativo, che squisitamente storiografico. In realtà, in Gentile il ricorso ai concetti è sempre presente ma appunto per meglio descrivere, in maniera potremmo dire con Wittgenstein sottile, le dinamiche dei mutamenti.4 La seconda parte del volume è invece volta a mostrare come le definizioni offerte in precedenza si misurino con elementi specifici dell’ideologia e della pratica organizzativa del regime. I singoli saggi offrono così corposità e concretezza, attraverso l’evocazione d’esempi, alle considerazioni teoriche dei primi capitoli. Gentile affronta di volta in volta, vari argomenti, in primis quello della ideologia del fascismo. Appartiene agli anni Settanta il dibattito sulla esistenza di un’ideologia del fascismo, negata soprattutto da storici per i quali il fascismo era solo un regime a violenza organizzata, in cui gli elementi culturali erano puramente sovrastrutturali, propagandistici e manipolatori. Un libro, ormai classico, di Pier Giorgio Zunino ha chiarito il quadro, cosi come numerosi studi precedenti e coevi di Gentile.5

Il saggio di Gentile sulla ideologia del fascismo ripercorre questo dibattito mostrandone i tratti spontanei e descrivendo il fascismo come una sorta di spettro d’esperienze. Siamo molto vicini alle pagine in cui lo storico statunitense George L. Mosse, cui Gentile è su molti punti, anche se non tutti, molto vicino, parla del fascismo come «atteggiamento verso la vita».6 Uno degli elementi costanti dell’ideologia del fascismo era l’identità «rivoluzionaria», affrontata nel capitolo successivo, mentre il capitolo sesto offre un sintetico ma vivace quadro del «mito di Mussolini», un altro dei tasselli fondamentali dell’ideologia del fascismo. Qui, en passant, Gentile offre delle riflessioni assai pregnanti sulla qualità del carisma mussoliniano, e in genere, sulle caratteristiche del carisma dei dittatori totalitari. Proprio il mito di Mussolini è, per citare un saggio dello storico delle religioni Karoly Kereny, al tempo stesso «spontaneo» e «tecnicizzato», prodotto della macchina propagandistica dello Stato e del partito ma che, una volta avviato, si muove di vita propria per alcuni periodi e in alcuni strati della popolazione. «Mito» e «religione» sono termini che ritornano continuamente nelle pagine di Gentile. Come si è visto, uno dei quadri portanti della sua interpretazione rimanda al fascismo come movimento «che ha portato il pensiero mitico al potere», che si forma, agisce e si muove guardando il mondo attraverso le lenti di una «religione politica» e vivendosi come tale. A questi elementi sono dedicati i saggi successivi. Nel capitolo settimo Gentile mostra come sia stata fondamentale, per la diffusione del sistema mitico, l’organizzazione del partito nazionale fascista. Qui lo storico offre uno squarcio in cui prende sul serio tutta l’attività rituale di «fascistizzazione delle masse» organizzata dal partito e conclude definendo il «sistema politico fascista» un «cesarismo totalitario». Definizione che forse stride concettualmente con quell’offerta nella prima parte del volume, almeno a seguire tanto la nozione tradizionale di cesarismo quanto quella gramsciana, ma che al tempo stesso offre degli spunti interessanti di riflessione, fa pensare a certe pagine dei gramsciani Quaderni del carcere, quando si evoca un duplice ordine di dominio, coesistente nel regime, «cesaristici» (sub-specie gramsciana) e totalitario. Ma anche quest’ambito richiederebbe approfondimenti adeguati. Il prendere sul serio l’attività del partito fascista, nelle sue dimensioni istituzionali, nello sforzo di penetrazione all’interno delle altre istituzioni, per schiacciarle ed assorbirle, nelle sfere rituali e mitiche, è uno dei tratti più convincenti degli ultimi studi di Gentile, come ha mostrato anche l’analisi della penetrazione del PNF nel Senato, fino ad oggi considerato un’isola felice del liberalismo prefascista e della monarchia all’interno del regime.7 Con ciò Gentile intende mostrare appunto la vocazione e le tendenze totalitarie del regime, che, attraverso il partito, tendeva ad assorbire e schiacciare i corpi non ostili, ma neutri, come la Chiesa e la corona. Se ciò non si è potuto attuare è stato solo perché il regime è crollato prima, ma dal 1938 era ben presente una «accelerazione totalitaria».

In questo caso ci troviamo di fronte ad un problema epistemologico: lo storico deve occuparsi di ciò che è accaduto o anche delle tendenze, presenti in una certa situazione storica, ma non pienamente attuatesi? Alcuni critici di Gentile lo hanno rimproverato di enfatizzare certi fenomeni, quali ad esempio quello della penetrazione del PNF nel Senato o quelle delle mobilitazione rituali, che in realtà sarebbero state solo in nuce, e che non avrebbero penetrato né nel corpo delle istituzioni né nelle menti degli italiani. Intuirà il lettore che, epistemologicamente, siamo tra coloro che credono utilissimo studiare, di un certo contesto, le tendenze non attuatesi, fino a considerare la cosiddetta «storia controfattuale» o alternate history di matrice anglosassone un utile passo in avanti.8 Quanto al fatto che gli sforzi del partito, sia in senso istituzionale sia in senso dell’organizzazione rituale, non abbiano lasciato traccia negli italiani (la riprova ne sarebbe, tra l’altro, il modo in cui il regime è crollato), si tratta di un’argomentazione sostenuta da una parte della storiografia di stessa ascendenza defeliciana. Come ha mostrato uno studio ormai classico di Simona Colarizi, anch’ella, come Gentile, allieva di De Felice, gli italiani non presero sul serio le ritualità del regime già prima dello scoppio della guerra, e anche prima ne erano stati ora entusiasti ora diffidenti, con ampie variazioni d’ordine ciclico.9 Tuttavia, le ipotesi e le suggestioni di Gentile, oltre alla ricerche condotte dallo studioso, mostrano un altro lato della questione, sostenendo convincentemente tutta la consistenza dell’esperimento totalitario. Forse è ancora troppo presto per trancher sulla questione, ammesso che in storiografia si possa farlo. Lo spazio è quindi aperto per nuove ricerche, che intreccino, come suggerito da Gentile, la storia delle mentalità e delle rappresentazioni degli italiani con quella delle organizzazioni della dittatura, cercando di rispondere, ad esempio, alla seguente domanda: quanto del carattere subliminale e automatico delle ritualità non sarebbe rimasto negli italiani nati e cresciuti nel gran circo totalitario degli anni trenta, anche dopo la caduta del regime e anche nel campo antifascista? Un tema assai intricato, quello della continuità di mentalità e di rappresentazioni culturali tra fascismo, antifascismo e postfascismo, che non ci sembra sia stato più affrontato, dopo alcune pregnanti pagine di Zunino nel volume citato. Gli ultimi saggi del volume di Gentile si dedicano proprio ad approfondire quanto abbiamo accennato: studiano l’attività del Partito nazionale fascista come «grande pedagogo», il cui agire di senso consiste nel creare una «comunità di veri credenti»; analizzano la specificità della religione politica fascista, sia nei suoi aspetti mitici sia in quelli rituali; illustrano i tentativi, teorici ma anche concreti, del regime di creare un «uomo nuovo». Sono questi ultimi i saggi più innovativi e ricchi di spunti, tanto per chi voglia studiare in specifico la realtà fascista, quanto per chi voglia comprendere meglio il fascismo.

Prendere sul serio il fascismo, anni fa, avrebbe (come ha) mosso attorno a Gentile l’accusa di compartecipazione, quasi di giustificazione. Ma lo storico, per comprendere ed interpretare, deve entrare in relazione empatica con il proprio oggetto di studio, distanziandosene e avvicinandosene di volta in volta. Proprio questa compenetrazione rende intollerabili a Gentile tante tesi di una certa storiografia ed opinione pubblica, secondo cui il fascismo non sarebbe stato che una risposta, certo discutibile, ma necessaria, ad un pericolo ben maggiore, il comunismo al quale, in fondo in fondo, il fascismo (e il nazismo) avrebbero pure assomigliato. Prendere sul serio il fascismo non vuol dire, appunto, rivalutarlo, ma comprenderne i caratteri intriseci, individuali, non assimilabili a quelli d’altri regimi. Semmai, come si intravede nelle conclusioni del volume, dove Gentile accenna ad un oblio della questione del fascismo, proprio mentre paradossalmente tutti ne parlano e ne scrivono, un modo per rivalutare il fascismo sarebbe proprio quello di banalizzarlo, di considerarlo una parentesi (neo vulgata crociana, in realtà l’interpretazione di Croce fu assai più raffinata e, per molti aspetti, carica di elementi inquietanti), di privarlo degli elementi totalitari, fino a sostenere che il fascismo forse non sarebbe mai esistito, e che da Mussolini in giù, tutti sarebbero stati pervasi da una sorta di colossale falsa coscienza.

A testimonianza di questo oblio sta il silenzio con il quale il libro è stato accolto dai giornali dell’area di centrodestra, ad eccezione di un’intervista di Domenico Fisichella in cui appunto il politologo, esponente di AN, sostiene il carattere decisamente non totalitario del fascismo.10 La destra italiana ha fatto molto, forse troppo, rapidamente i conti con il fascismo, e la banalizzazione del ventennio è servita come un suo strumento straordinario di legittimazione. A ricordarle che il fascismo è esistito, ma anche a rimembrare a certi esponenti politici del centrosinistra che in passato superficialmente hanno rincorso questa vulgata, può anche servire la lettura del volume di Gentile.

Bibliografia

1 P. Betts, The New Fascination with Fascism: the case of Nazi modernism, in «Journal of Contemporary History», ottobre 2002.
2 R. De Felice, Intervista sul fascismo, Laterza, Roma-Bari, 1975; De Felice, Rosso e Nero, Baldini e Castoldi, Milano 1995.
3 Ci permettiamo di rimandare al nostro sintetico profilo: M. Gervasoni, Politica di massa e miti del XX secolo. La storiografia di Emilio Gentile, «Gli argomenti umani», febbraio 2002.
4 Per un approfondimento di questi aspetti, soprattutto da un punto di vista metodologico, cfr. M. Gervasoni, Le armi di Orfeo. Musica, mitologie nazionali e religioni politiche nell’Europa del Novecento, La Nuova Italia, Milano 2002.
5 P.G. Zunino, L’ideologia del fascismo, Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Il Mulino, Bologna 1995. Su questo aspetto, nella produzione di Gentile cfr. soprattutto E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, Il Mulino, Bologna 2001; Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Roma-Bari 2001
6 G.L. Mosse, Verso una teoria generale del fascismo, in Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 191

7 E. Gentile (a cura e con un saggio di), Il totalitarismo alla conquista della camera alta. Inventari e documenti, Archivio Storico del Senato della Repubblica, Rubbettino, Cosenza 2002.
8 G. Rosenfeld, Why do we ask What If? Reflections on the Function of Alternate History, in «History and Theory», dicembre 2002, pp. 90-104.
9 S. Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime 1929-1943, Laterza, Roma-Bari 2000.
10 P. Conti, Fisichella: Il fascismo? Regime sì, ma non totalitario, in «Corriere della Sera», 29 ottobre 2002.

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Da - https://www.italianieuropei.it/it/la-rivista/archivio-della-rivista/item/558-oltre-il-revisionismo-emilio-gentile-e-il-fascismo-preso-sul-serio.html
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 20, 2020, 06:50:44 pm »

FOIBE, TRA STORIOGRAFIA E PROPAGANDA. INTERVISTA A J. VENIER

MARCO VERUGGIO
12 febbraio 2020

Intervista a Jacopo Venier

Nel Giorno del Ricordo, dedicato alle vittime delle foibe, si sprecano celebrazioni e polemiche, mentre scarseggiano i tentativi di ricostruire in modo circostanziato un episodio della storia italiana ancora controverso e oggetto di violente polemiche politiche. E’ sempre difficile comprendere un fenomeno storico complesso senza collocare i fatti all’interno di un contesto e meno che mai affrontandone la ricostruzione in termini moralistici o cercando di piegare i fatti a esigenze propagandistiche. Come ha osservato David Bidussa qui su GliStatiGenerali050220 ‘La storia è coerente solo nella testa di chi vuol raccontare solo la “sua versione” della storia’. A contestualizzare la vicenda delle foibe ci ha provato tre anni fa Internazionale pubblicando un lungo dossier (Internazionale100217) a cura del gruppo contro il revisionismo storiografico ‘Nicoletta Bourbaki’, in cui gli autori, a proposito della legge istitutiva del 10 febbraio, sottolineano che essa ‘allude en passant alla “complessa vicenda del confine orientale”, ma non vi è alcuna complessità nella vulgata che tale ricorrenza ha fissato e cristallizzato. Una vulgata italocentrica, a dispetto della multiculturalità di quelle regioni’. Una tesi confermata dalle parole di Jacopo Venier nell’intervista che segue. Venier, triestino, giornalista con una lunga militanza politica prima nel PCI poi in Rifondazione Comunista e nel PdCI, conoscitore ‘dall’interno’ delle dinamiche interne al movimento comunista internazionale, nazionale e locale che tanto peso ebbero in questa vicenda, esprime una posizione che cerca un punto di equilibrio tra negazionismo e sostenitori del genocidio. Poiché è citata nell’intervista segnaliamo come fonte anche la Relazione della Commissione mista italo-slovena (1993-2001). Il documento, pur condizionato dall’intento ‘politico’ di chiudere un capitolo difficile delle relazioni tra i due paesi, ha il pregio di dipingerne un affresco complessivo a partire dall’ultimo ventennio del XIX secolo fino al ritorno di Trieste sotto la giurisdizione italiana.

Cominciamo a spiegare di cosa stiamo parlando cercando di contestualizzare la vicenda.

Per prima cosa va detto che siamo in un territorio dove il confine negli ultimi 150 anni si è spostato molte volte. Qui si sono scontrati diversi nazionalismi e il nazionalismo italiano in particolare è stato molto aggressivo, razzista e particolarmente segnato da una volontà di conquista. E tra le ragioni di questa aggressività c’è il fatto che avendo un’identità nazionale debole, di confine, l’Italia è stata incline ad affermarsi per contrapposizione. Qui lo ha fatto tentando di annientare l’identità di Trieste, per sua natura cosmopolita e con una tradizione commerciale di porto costruito da identità di provenienze diverse e in parte non autoctone. Trieste e l’Istria sono luoghi dove nei secoli si sono confrontate diverse culture e identità nazionali e col passare del tempo il confronto è diventato più violento. Una realtà storica che in Italia non si racconta, perché l’Italia preferisce recitare la parte della vittima.

In che modo si è manifestata questo atteggiamento?

L’aggressività colonialista e imperialista nei confronti dei popoli slavi ha segnato tutto il primo dopoguerra arrivando all’apogeo con la proclamazione delle leggi razziali proprio aTrieste, durante un comizio di Mussolini a Piazza Unità d’Italia. L’Italia ha occupato e tentato di cambiare profondamente la realtà di queste terre ed è a partire da questa constatazione che andrebbe affrontato il Giorno del Ricordo. Le foibe sono cavità carsiche che per secoli sono state utilizzate come una sorta di discarica in cui gettare i rifiuti. Evocare le foibe come luogo dove far finire i propri avversari è un’abitudine introdotta dai fascisti e dalle forze di occupazione italiana in Istria. Furono scritti persino dei sonetti in cui si diceva in versi che ‘chi parla slavo finirà nelle foibe’. Per capire di cosa stiamo parlando però dobbiamo dividere la storia in due fasi: la prima è quella che riguarda il vuoto di potere creatosi dopo l’8 settembre in Istria a seguito dell’armistizio tra il governo Badoglio e gli Alleati. La seconda invece è la cosiddetta occupazione titina di Trieste.

Partiamo dalla prima fase.

Dopo l’8 settembre, col collasso dell’esercito italiano, c’è quasi un mese in cui le popolazioni istriane si ribellano e si innesca un processo che ha in sé elementi di lotta antifascista, di jacquerie contadina e anche di reazione contro gli italiani identificati coi fascisti, ma anche come artefici di una forma di oppressione sociale. E’ un atteggiamento che per essere compreso va storicizzato. L’Istria all’epoca ha una popolazione prevalentemente contadina, tenuta sotto scacco da possidenti spesso italiani, con una differenziazione di classe molto marcata. Nel momento in cui crolla lo status quo una parte della popolazione addirittura aiuta i militari italiani di stanza nella zona a trovare una via di fuga, una parte invece si ribella e prende il potere. Il movimento partigiano all’epoca è già presente ma non è ancora abbastanza strutturato per poter prendere il controllo di una situazione così caotica. Qualche settimana dopo arrivano i nazisti a rioccupare tutta la zona. Nel frattempo c’è un vuoto di potere in cui si manifestano anche episodi di violenza cieca, non circoscritta a padroni, latifondisti e gerarchi fascisti. La situazione esplode e avvengono anche uccisioni che sono frutto di vendette personali e beghe di paese, che la struttura partigiana non riesce a controllare. Sono i nazisti che appena arrivati in zona stigmatizzano questi episodi di violenza nei confronti della popolazione italiana e ne fanno una vera e propria campagna propagandistica. La propaganda della destra, che oggi parla di genocidio, inizia all’epoca.

Contare i morti può apparire sterile, ma quando si parla di genocidio, è opportuno capire anche i numeri.

In questo campo è stato fatto un lavoro importante da parte del Gruppo di Resistenza Storica, grazie a storiche bravissime come Alessandra Kersevan e Claudia Cernigoi, spesso accusate di ‘negazionismo’, come ha fatto nel discorso di ieri, pur senza citarle, lo stesso Mattarella. In realtà si tratta di due storiche di cui possiamo non condividere i giudizi politici, ma di grande attendibilità storiografica nella verifica delle fonti e per la precisione delle ricostruzioni. Fare delle stime è difficile perché parliamo di una situazione caotica, ma probabilmente siamo intorno a un migliaio di vittime. In ogni caso va detto che già nel ’43 già il fronte di liberazione yugoslavo e il partito comunista ammisero e condannarono alcuni episodi di violenza e si adoperarono per far sì che i processi si svolgessero in modo meno sommario.

Poi c’è la seconda parte.

Cioè i 40 giorni in cui i partigiani yugoslavi guidati da Tito entrano a Trieste, la liberano dai nazisti e prendono il controllo della città. La vulgata della destra dice che sparirono migliaia di persone e in questo caso il lavoro del Gruppo di Resistenza Storica è molto preciso sia per quanto riguarda i numeri sia per quanto riguarda le modalità del fenomeno. Secondo la sua ricostruzione in realtà scomparvero poco più di 500 persone, in larga misura funzionari in combutta coi nazisti, delatori della polizia, persone strettamente legate al regime fascista.

Oltre alla condanna da parte dei comunisti yugoslavi vi fu l’ammissione degli eccessi da parte del PCI.

Questa è un’altra questione interessante che ve inquadrata nella storia dei comunisti triestini. Durante la guerra di Liberazione il gruppo dirigente comunista in città fu azzerato due volte a seguito di delazioni e arresti che ne decimarono il gruppo dirigente. Tieni presente anche che prima di tornare italiana la città e il suo circondario assumono fino al ‘54 lo status di Territorio libero di Trieste, diviso in due zone – A e B – rispettivamente sotto il controllo degli Alleati e degli yugoslavi. Le organizzazioni comuniste e partigiane in città nel ‘45 sono strettamente legate al partito comunista yugoslavo ed i rapporti con il CLN di Trieste sono molto tesi proprio sulla questione della futura appartenenza della città alla Jugoslavia o all’Italia. Questa situazione si ribalta nel ’48 a seguito della rottura tra il Comintern e il Partito Comunista yugoslavo. La maggioranza dei comunisti triestini si schiera con Stalin e contro Tito e a Trieste ritorna Vittorio Vidali, il ‘comandante Carlos’, che diventa segretario del Partito Comunista di Trieste, che si relaziona principalmente col PCI, appoggiato in questa scelta dalla comunità slovena di Trieste, fatto abbastanza singolare e interessante. In altre parole il PCI a Trieste non è mai stato un partito benevolo nei confronti di Tito, almeno fino a quando Kruscev non ristabilisce le relazioni con la Yugoslavia a metà degli anni ’50, per cui non ha mai avuto interesse a coprire gli eccessi dei partigiani comunisti slavi.

Quale fu la posizione ufficiale del PCI?

Una posizione ufficiale viene formalizzata molto più tardi, nel 1981, quando a Cascina, un piccolo centro della Toscana, sotto l’auspicio della Direzione Nazionale si tiene un seminario sulla storia dei comunisti a Trieste con l’obiettivo di mettere un po’ d’ordine su questa complicatissima vicenda. Da questa riflessione, che avviene quando nel mondo c’è ancora il cosiddetto campo socialista, emerge una lettura del fenomeno delle foibe, che personalmente condivido. In sostanza si ammette che in quei momenti particolarmente concitati, ci furono eccessi e vittime innocenti, ma si afferma che le vittime erano in larga misura collaborazionisti e responsabili di crimini contro la popolazione e gli antifascisti, e che in quel momento non c’erano le condizioni per garantire quello che oggi chiameremmo un ‘giusto processo’. Ma soprattutto si dice che non c’è stato alcun genocidio né un tentativo di alterare la fisionomia etnica della regione. E, in ultimo, che l’esodo istriano-dalmata fu un fenomeno complesso, che non può essere spiegato in modo lineare come effetto delle foibe. Certo la campagna fondata sullo spauracchio che gli slavi avrebbero fatto pulizia degli italiani ebbe un effetto e fu in qualche modo legittimata dagli errori commessi. Ma pesarono anche altri fattori, tra cui la scelta tra il ‘campo socialista’ e il ‘campo capitalista’ e spinte economiche. Nel ’46-’47 c’è una crisi economica gravissima e molti triestini partono addirittura per l’Australia e altre parti del mondo in cerca di fortuna. Insomma c’è un intreccio tra tutti questi motivi, non una concatenazione lineare tra foibe ed esodo.

Per quale ragione un tradizionale cavallo di battaglia della destra è stato abbracciato anche dalle istituzioni?

Perché è un modo per dipingere l’Italia che un paese non ha mai avuto la forza di essere razzista, aggressivo e imperialista. Sul confine orientale invece l’Italia fu tutte queste cose e in modo esemplare. Ci furono le fucilazioni decise dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato fascista e la snazionalizzazione forzata, con la chiusura delle scuole di lingua non italiana, l’italianizzazione dei nomi, le aggressioni fisiche alla popolazione di origine slovena. Decine di migliaia di coloni italiani arrivarono in queste terre e furono aiutati dal fisco e dalle norme di pubblica sicurezza a strappare risorse, terreni e patrimoni alla popolazione non italiana. Col mito del genocidio ai danni degli italiani si vuol cancellare questa pagina della storia italiana. La realtà è che qui ci furono violenze inaccettabili, come del resto sul confine orientale tedesco e altrove, ma non una pulizia etnica. Negli anni ’90, tra l’altro, una commissione di storici italiani e sloveni voluta dai due governi scrisse una ricostruzione condivisa abbastanza equilibrata dei fatti, di cui lo Stato italiano, dopo averla commissionata, sembra essersi scordato.

La questione è tornata a galla negli anni ’90, quando la fine della Guerra Fredda e lo sgretolamento della Yugoslavia spinsero la destra prima addirittura a cercare di rimettere in discussione i confini, poi a ripiegare sul tema dei risarcimenti.

La destra fascista, che qui è ancora presente e ha contribuito alla stagione del terrorismo nero italiano, ha sempre fatto di tutto per rimettere in discussione tutti accordi e equilibri creatisi negli anni tra Yugoslavia e Italia, ma anche di delegittimare l’epopea partigiana yugoslava. Non bisogna dimenticare che la Yugoslavia fu l’unico paese europeo che si liberò di fatto con le proprie mani dall’oppressione fascista e nazista, un fatto straordinario con cui non si vogliono fare i conti. Quando ci fu il collasso della Yugoslavia alcuni esponenti della destra tentarono di approfittarne per rilanciare una loro battaglia storica. Addirittura alcuni deputati di AN spedirono oltre confine delle bandiere italiane promettendo di tornare e riprendersi l’Istria.

La sinistra come reagì?

Legittimando la destra. Violante venne a Trieste a fare un’iniziativa insieme a Fini sulla ‘storia condivisa’. Per entrambi fu un modo per suggellare la chiusura di una fase storica e presentarsi come nuova classe dirigente in una sorta di legittimazione reciproca. All’epoca AN cercava di rilanciarsi entrando nel nuovo arcipelago berlusconiano, mentre l’allora PDS tentava di far dimenticare il proprio passato comunista. Per il gruppo dirigente ex PCI quale argomento migliore delle foibe, dove si poteva dire che il PCI c’entrava poco e che la responsabilità pesava su un movimento di liberazione yugoslavo mai particolarmente amato? E così è nata la storia del genocidio, che neppure fior fiore di governi conservatori nei decenni precedenti erano riusciti ad avallare. Le stesse istituzioni si sono messe a raccontare la storia del genocidio. La foiba di Basovizza è un esempio di quanto i fatti e la verità ufficiale divergano. Ogni anno in questa ex miniera viene celebrata solennemente la Giornata del ricordo, con la presenza della massime cariche dello Stato a fianco degli striscioni della X Mas. Nel ’48 gli Alleati e il Comune di Trieste fecero degli scavi per verificare chi e cosa contenesse e scoprirono che i cadaveri più recenti al suo interno appartenevano a soldati tedeschi fucilati sicuramente prima dell’occupazione titina. Tant’è che fino agli anni ’50 le amministrazioni comunali triestine, perlopiù conservatrici, hanno continuato a usarla come discarica. Insomma si celebrano le vittime delle foibe in un luogo in cui è certo che non venne ‘infoibato’ nessuno.

A Trieste la questione rappresenta una ferita ancora aperta ed è ancora oggetto di scontro politico…

Certo, sia per le ragioni che dicevo, sia perché qui c’è l’unico campo di sterminio in territorio italiano, la risiera di San Sabba, dove sono morte e sono state bruciate 5.000-6.000 persone tra ebrei, antifascisti, slavi e nemici del Reich. Questo territorio dal ’43 al ’45 venne abbandonato ai nazisti dalla Repubblica Salò. Non c’erano le autorità italiane, ma un Gauleiter tedesco. Per una qualsiasi delazione si finiva bruciati in un forno e la città in qualche misura era complice. Alcuni triestini non sapevano che cosa succedeva nella risiera, tanti alti sì. Quando si parla di quei giorni dunque bisogna tener conto di tutti questi aspetti e non ha senso giudicare con le categorie giuridiche di oggi. Altrimenti quello che per noi certo rappresenta un problema etico da non rimuovere lascia spazio alla propaganda aggressiva della destra, che lo usa per rimuovere il ricordo di ciò che qui fecero fascisti e nazisti. In città oggi abbiamo una giunta di destra che ha appena installato in pieno centro una statua di D’Annunzio, fautore del razzismo antislavo, di cui la stessa impresa di Fiume fu espressione. E’ una vera e propria provocazione, che avviene a poca distanza dai Balcani, dove fino a pochi decenni fa l’aggressività a sfondo etnico ha prodotto guerre e morti.

L’intervista è tratta dalle newsletter di PuntoCritico.info dell’11 febbraio.

Da - https://www.glistatigenerali.com/storia-cultura/foibe-tra-storiografia-e-propaganda-intervista-a-j-venier/
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