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Autore Discussione: RIVOLUZIONE OPERAIA, MILANO 2020  (Letto 1845 volte)
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« inserito:: Febbraio 03, 2020, 11:25:41 pm »

RIVOLUZIONE OPERAIA, MILANO 2020
   
ALESSANDRA BARTALI
29 gennaio 2020

Sono le 6 di sera, è buio e non si vede anima viva in via Milano, stradina del quartiere Soccorso di Prato. Giovani uomini per lo più dai tratti sudasiatici arrivano alla spicciolata, a piedi o in bicicletta, e si radunano davanti ad una stanzetta minuscola e disadorna. É la sede del SI Cobas, sindacato che in Italia conta circa 40mila iscritti e che a Prato ha un ufficio gestito da Sarah Caudiero e Luca Toscano, rispettivamente 27 e 28 anni. Quando i due giovani italiani parcheggiano il motorino sono sguardi d’intesa e pacche sulle spalle. Tempo di una sigaretta e poi tutti dentro, in piedi intorno ad un tavolo a discutere della situazione interna a Fada, tintoria a conduzione cinese dove questi operai lavorano. O credevano di lavorare: l’anno scorso Aaqib, quarantenne pakistano, era assunto come stagionale e un accordo sindacale prevedeva la riassunzione sua e di altri 15 colleghi, e invece l’azienda ha preferito operai cinesi. Nonostante l’incertezza, Aaqib è sereno: “Ci penseranno Sarah e Luca”, dice. “Loro non scherzano. I primi mesi a Fada avevo un contratto part-time a 4 ore giornaliere, mentre ne lavoravo 12, senza riposo settimanale. Al mese guadagnavo 750 euro per sgobbare 84 ore a settimana. Insieme a Sarah e Luca abbiamo fatto scioperi e picchetti a oltranza, e alla fine ci hanno fatto un contratto vero”.

Di storie come questa è piena la zona di Prato, tra i più grandi centri tessili in Europa per la produzione di filati e tessuti di lana, che con le sue duemila imprese nel settore fattura cifre da capogiro. I prodotti di queste aziende sono quel Made in Italy che compriamo con la coscienza a posto, con l’illusione che rappresentino il lato buono dell’industria dell’abbigliamento, avvezza a dislocare la produzione fuori dall’Occidente per risparmiare, calpestando notoriamente i diritti dell’ambiente e dei lavoratori. Ma il risparmio è comunque il faro che guida i grandi marchi, siano essi di lusso o low cost: Gucci e Burberry da un lato, Zara, H&M e Piazza Italia dall’altro, amano acquistare in loco ma al ribasso, e tintorie e maglierie della “piana” (così viene chiamato in gergo il distretto) si adeguano volentieri. Gli operai, ultimo anello della catena, fanno lo stesso, loro malgrado. Almeno finché il SI Cobas non ha iniziato a scoperchiare un sistema sempre più collaudato.

“Ci siamo avvicinati alle lotte sindacali attraverso il settore della logistica”, racconta Toscano. “Io lavoravo in un magazzino per un’azienda in subappalto da Gucci, Sarah faceva consegne per Deliveroo. Poi il SI Cobas aveva bisogno di referenti sul territorio di Prato, ed eccoci qua”. É passato appena un anno e mezzo dall’apertura della sede di via Milano, e di cose ne sono successe. “Abbiamo portato avanti vertenze praticamente dentro tutti i corrieri più noti – Gls, Tnt, Sda – e le abbiamo vinte quasi tutte”, dice senza celare l’orgoglio. “Il settore della logistica è a un livello piuttosto avanzato dal punto di vista sindacale, contrattiamo il pagamento delle pause o il superamento degli inquadramenti per mansioni, per garantire a tutti aumenti salariali anche a parità di mansioni nel tempo. In altri settori invece la strada da fare è ancora molta”.


Ma le cose sembrano muoversi rapidamente: alla tintoria DL ad esempio, in pochi mesi il SI Cobas è riuscito a regolarizzare i suoi 25 iscritti, di cui 10 senza contratto alcuno. “Eravamo dubbiosi su come portare avanti la lotta”, racconta Sarah Caudiero, “una cosa è fare una vertenza con dei lavoratori che l’azienda non può negare di aver assunto, un’altra con operai al nero che ufficialmente neanche esistono. Ma purtroppo il lavoro nero è una realtà molto diffusa sul territorio, per cui non potevamo escludere quelle persone”. A cui senza un lavoro ufficiale non sarebbe stato rinnovato il permesso di soggiorno. Sono seguite due settimane di sciopero a oltranza con tanto di picchetto fuori dai cancelli, intervallate da tavoli di confronto dove l’azienda avanzava proposte che poi ritirava. Finché la polizia ha deciso di sgomberare i manifestanti e trascinare i due sindacalisti in questura. I due si sono visti recapitare un foglio di via: la loro attività sindacale sarebbe stata un pericolo per la sicurezza pubblica e doveva essere di volta in volta autorizzata. “Noi a Prato siamo la soluzione, e veniamo trattati come il problema”, si lamenta Toscano, che insieme agli operai di DL ha continuato a picchettare i cancelli della tintoria fino ad aprire un tavolo, pochi giorni dopo, che si sarebbe poi concluso con la regolarizzazione di tutti gli iscritti al sindacato.

Nonostante la lotta allo sfruttamento lavorativo interessi anche le istituzioni (il Comune di Prato cofinanzia con la Regione Toscana uno sportello dedicato nella propria sede), queste sembrano in lotta aperta contro i giovani sindacalisti. Durante uno sciopero da loro indetto per gli operai che da sette mesi aspettano lo stipendio da Superlativa (azienda tessile di cui l’Ispettorato del Lavoro ha più volte ordinato la chiusura per vari illeciti tra cui il lavoro nero), il questore ha applicato il reato di blocco stradale, depenalizzato nel 1999 e reintrodotto dal Decreto Salvini, comminando ai partecipanti multe fino a 4mila euro. In risposta a questo, centinaia di lavoratori e cittadini pratesi hanno sfidato il freddo di gennaio e si sono riversati in strada a protestare: contro il decreto, ma anche contro il sistema di sfruttamento dei lavoratori così radicato a Prato. Alla tintoria DL, però, qualcuno quel giorno al lavoro c’era. Alla domanda perché non fossero in piazza, hanno risposto di non sapere della manifestazione. Erano cinesi. Perché naturalmente a Prato, terza comunità cinese in Europa, la manodopera cinese esiste. Ma non solo non partecipa alla lotta: a volte la ostacola, come è successo in occasione degli scioperi alla DL, dove alcuni immigrati dalla Cina hanno aggredito i loro colleghi pakistani.

“Per questa comunità il lavoro ha sempre funzionato tramite un modello per così dire integrato”, spiega Andrea Cagioni, ricercatore per il progetto antitratta toscano Satis “dove l’imprenditore fornisce non solo uno stipendio ma anche un posto letto, i pasti e altri servizi accessori che consentono all’operaio di ammortizzare i bassi salari”. Una sorta di welfare interno da cui sono esclusi lavoratori di altra provenienza. “Per gli operai cinesi possiamo parlare anche di autosfruttamento”, continua Cagioni: “Fino a poco tempo fa loro accettavano condizioni di lavoro per noi disumane con la prospettiva di affrancarsene nell’arco di tempo necessario ad aprire a loro volta un’attività imprenditoriale”. Adesso però le cose stanno cambiando e i cinesi di nuova generazione ambiscono a percorsi diversi da quelli dei padri. E forse il sindacato inizia a fare breccia anche tra di loro, tant’è che dopo lunghi mesi di assenza totale, qualche operaio cinese inizia ad affacciarsi nella stanzetta di via Milano. “Nell’azienda dove lavoro circa un quarto degli operai sono cinesi”, dichiara Moon, pakistano da 12 anni in Italia, “e durante gli scioperi abbiamo sempre fatto presente che quella non era una lotta di pakistani contro cinesi, ma di lavoratori contro padroni”. “Uno dei nostri obiettivi principali è proprio intercettare i lavoratori cinesi”, conferma Caudiero, “che di fatto sono la maggioranza degli sfruttati in questo territorio. E siamo sicuri che prima o poi anche loro si uniranno alla lotta”. Nel 2020, il concetto è ancora il marxiano” lavoratori di tutto il mondo, unitevi”, e a rendere la cosa ancora più sorprendente è che a crederci sono due ventenni. Eppure questo coinvolgimento sembra funzionare: qualche mese fa al picchetto di fronte al Panificio Toscano, accusato di non applicare correttamente il contratto nazionale (accuse poi confermate dall’ispettorato), si sono presentati anche molti operai di corrieri e tintorie. Dalle 4 alle 11 del mattino hanno impedito ai camion di effettuare le consegne, e se ne sono andati solo quando gli autisti hanno cominciato a scaricare. Esausti e sorridenti, come lo erano anche Caudiero e Toscano, naturalmente presenti. In prima linea, proprio come negli anni Settanta.

E le grandi sigle da milioni di iscritti, quelle che hanno fatto la storia del sindacalismo italiano, che fine hanno fatto? “I confederali hanno subito una duplice trasformazione”, spiega Alessandro Volpi, docente di Storia del movimento operaio e sindacale all’Università di Pisa. “Da un lato sono diventati sempre più sindacati di servizio, dediti alla compilazione di Isee e dichiarazioni dei redditi, dall’altro si sono fossilizzati sui pensionati, che rappresentano non a caso la fetta più grande dei loro iscritti, portando avanti anche battaglie importanti per questa categoria. Ma non sono riusciti a stare al passo col cambiamento del lavoro, mantenendo una struttura burocratica che funzionava negli anni ’80 ma non adesso, dove le forme di contratti atipici si sono moltiplicate e la logica del contratto nazionale di categoria non funziona più”. Qui si insediano realtà sindacali più giovani e per questo duttili (il SI Cobas è stato fondato nel 2010). E menomale, viene da dire. Kamar Navas, operaio di Tintogroup dal 2010 con vicende simili a quelle finora descritte, aveva provato a contattare altri sindacati. “Fai come dicono”, ci dicevano. “Poi è arrivato il SI Cobas e da allora lavoro con orari normali e una paga normale”. Un racconto forse viziato dalla mitizzazione di chi di fatto l’ha aiutato a vivere una vita più dignitosa. Ma che in qualche modo indica un cambiamento – seppur parziale – del sindacato nell’immaginario collettivo di certi lavoratori.

Da - https://www.glistatigenerali.com/occupazione_sindacati/rivoluzione-operaia/
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