«Quale Karl Polanyi?
Democrazia e crisi capitalistiche.
Intervista ad Adam Przeworski
Di NICOLA MELLONI
Adam Przeworski, già autore dell'importante “Capitalism and Social Democracy” (1985), è tornato a riflettere più sistematicamente sui temi di quel libro nel suo recente “Crises of Democracy” (2019). In questa intervista se ne ricapitolano i tratti più caratterizzanti.
Adam Przeworski, professore di scienze politiche a NYU, è uno dei più importanti teorici della democrazia. Il suo Capitalism and Social Democracy è uno dei grandi classici della scienza politica ed economica contemporanea. Ha lavorato sul rapporto tra sviluppo economico e democrazia, sul passaggio da regime autoritari a sistemi democratici e sul complesso rapporto tra mercato e democrazia. Il suo ultimo libro, Crises of Democracy, edito da Cambridge University Press, analizza i sintomi dell’attuale crisi politica del mondo occidentale.
Iniziamo parlando del tuo nuovo libro, “Crises of Democracy”, nel quale parli dei problemi della politica contemporanea. Per capire esattamente di cosa si tratta, identifichi inizialmente cosa si intende per “democrazia” per poi, sulla base di questa definizione, spiegare cosa c’è che non funziona.
Per me la democrazia è soprattutto un metodo per risolvere i conflitti che sono inerenti ad ogni società. Nello specifico, è un meccanismo attraverso il quale il popolo decide chi governa e, in qualche maniera, come vuole essere governato. Qualcuno vince e qualcuno perde. E in una democrazia in salute, coloro che perdono aspettano per una chance di competere e vincere in futuro, il che è un tratto indispensabile per mantenere la pace sociale senza far ricorso alla repressione. Ci sono due condizioni fondamentali che permettono a questo meccanismo di funzionare: 1) perdere non deve essere troppo “costoso”, cioè le elezioni non devono essere un momento in cui c’è troppo in gioco. Per questo motivo, un grado di polarizzazione troppo alto rende difficile risolvere i conflitti; 2) è indispensabile la presenza di una serie di istituzioni che permettano alla volontà popolare di essere tradotta nel “mondo politico”; in particolare c’è bisogno di istituzioni rappresentative come partiti, sindacati, associazioni. Il loro ruolo è di veicolare le domande popolari in rappresentanza politica. In caso contrario, la protesta di strada diventa la norma.
Lavorando sul mio libro ho potuto constatare che 1) la società moderna è sempre più polarizzata e, 2) il sistema tradizionale di rappresentanza si sta disintegrando. Ecco perché siamo in crisi.
Potresti spiegare cosa intendi per polarizzazione?
Generalmente per capire cosa si intende con polarizzazione, tendiamo a guardare ad una distribuzione lineare delle preferenze dei cittadini: sinistra/destra in Europa, liberal/conservatore in America. Se la distribuzione ha due “gobbe” separate e distanti, allora ci troviamo davanti ad una società polarizzata. In realtà una definizione del genere non è completa. Se abbiamo gruppi con preferenze diverse, la domanda da porsi non è soltanto quanto queste siano distanti, ma anche, come accennavo in precedenza, “quanto è costoso perdere?”; e “come giudichiamo coloro coi quali non siamo d’accordo?”. Nel mio lavoro ho trovato che, specialmente in Europa, le preferenze non sono cambiate eccessivamente – quindi la distanza tra i due gruppi è simile a quella che si aveva in precedenza – ma il grado di ostilità tra le persone di idee diverse è aumentato tremendamente.
L’altro aspetto della crisi è riconducibile al collasso del sistema politico e all’indebolimento dei sindacati. Anche se in maniera diversa, mi pare si possa dire che sono entrambi fenomeni di lunga durata, iniziati una trentina di anni fa. Vi sono dunque radici storiche che ci aiutano a spiegare la crisi attuale?
Guardando alla maggioranza dei principali trend politico-economici possiamo senza dubbio sostenere che il mondo è cominciato a cambiare dopo il 1978 con la rivoluzione neo-liberista: Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli USA; l’ascesa del Washington Consensus e dunque l’imposizione ad altri paesi di politiche economiche decise dal Tesoro americano attraverso l’operato della World Bank e del Fondo Monetario Internazionale e attraverso gli accordi commerciali; e la smisurata crescita delle diseguaglianze – ben rappresentata da quel famoso grafico che mostra la divaricazione tra produttività e salari che invece, fino ad allora, crescevano di pari passo. Non è una coincidenza che proprio quel periodo sia stato segnato da una forte offensiva contro i sindacati: dopo il 1978 il numero di lavoratori sindacalizzati è calato molto rapidamente, tanto in USA quanto in Europa.
Per quel che riguarda, invece, l’impatto sul sistema politico tradizionale, il discorso è più complicato: l’aspetto più saliente è che i socialdemocratici sono diventati social-liberali. Il loro messaggio politico è cambiato, si è cominciato a parlare di trade-off tra efficienza e diseguaglianza, tra crescita ed eguaglianza, mentre tradizionalmente i socialdemocratici avevano sempre sostenuto che la redistribuzione del reddito fosse un fattore importante per la crescita, per esempio attraverso l’aumento del capitale umano.
Il risultato è stato che i socialdemocratici sono diventati delle copie dei partiti liberali. L’eminente sociologo spagnolo Jose Maria Maraval ha rappresentato graficamente gli spostamenti dei programmi dei partiti: quelli di destra si sono spostati ulteriormente a destra, mentre i partiti di sinistra li hanno inseguiti sullo stesso terreno. E questo è un dato importante di delegittimazione della democrazia: i problemi non ci sono solo quando alle elezioni c’è troppo in gioco, ma anche quando c’è troppo poco: a cosa serve competere alle elezioni se le stesse elezioni, a prescindere dal risultato, non cambiano nulla?
Questo mi porta alla mia domanda successiva che riguarda la crisi di legittimità del vecchio sistema politico e i cambi a cui stiamo assistendo. Possiamo leggere la nascita di nuovi partiti, più attenti alle domande popolari, come un rinnovamento della democrazia? O, nel caso di sistemi bipartitici come gli USA, quello a cui stiamo assistendo è una inversione della tendenza a muoversi verso il centro (o quantomeno verso destra da parte della sinistra): da una parte Trump e il Tea Party ma dall’altra l’emergere di candidati come Sanders.
La situazione che descrivi è quello che in gergo tecnico viene chiamato “partisan realignment”: emerge un nuovo gruppo sociale con nuovi bisogni e, per vincere le elezioni, i partiti devono aggiustare le proprie politiche per tenere in conto queste richieste. E’ certamente possibile che stia accadendo questo ma se questo è il caso, una delle possibili conseguenze è l’inevitabile crescita elettorale di alcuni partiti di destra estrema: il rischio è ritrovarsi ovunque dei Salvini.
Un aspetto di questa nuova politica che trovo interessante è il nuovo modello comunicativo: abbiamo diversi esempi a destra – Trump, l’AfD in Germania, i conservatori giapponesi – in cui i leader politici hanno cominciato ad usare un linguaggio che è quello che si è sempre usato in privato ma che non era consentito in pubblico. Non ci sono più tabù. L’effetto “perverso” di questo sdoganamento è stato però che ora anche la sinistra può usare un vocabolario nuovo, ed ecco che in USA una parola come “socialismo”, di fatto in precedenza bandita dal dibattito pubblico, non solo è entrata a farne parte ma ha anche molto successo. Questo direi che sì, c’è una certa ristrutturazione del sistema politico in atto, ma il problema rimane che i partiti tradizionalmente di sinistra sono disastrosi: quinti in Francia, forse quarti in Germania. La relazione tra i lavoratori e questi partiti è ormai definitivamente rotta.
Il problema, però, non riguarda soltanto la qualità dell’offerta politica, ma anche la struttura di questi partiti che ormai sono più che altro comitati elettorali. Ho recentemente visto dei dati dell’Istituto Nazionale di Statistica della Francia: solo l’1% degli intervistati è attivo in un partito politico. I partiti non hanno più la capacità di mobilitare la popolazione – e, nel caso, di smobilitarla, che è un altro aspetto fondamentale dell’organizzazione politica. E se non hanno questa capacità, non controllano davvero nulla.
Quindi, mi pare di capire, con la de-istituzionalizzazione della democrazia è fortemente decresciuta la capacità di risolvere i conflitti – come ad esempio nel caso dei gilets jaunes francesi.
Esattamente, ci troviamo in una situazione nella quale le persone non trovano nessuno in grado davvero di rappresentarli. E quindi c’è un ritorno della “piazza”: basti guardare ai recenti casi come appunto quello francese, ma anche in Bolivia, Perù, Cile, Colombia, Equador, India, Iran, Iraq, Libano. A mio parere questo è il risultato della debolezza del vincolo tra società e rappresentazione politica.
Per il momento abbiamo parlato dei sintomi della crisi, ma non delle sue cause. In un tuo famoso lavoro del passato su capitalismo e socialdemocrazia, pubblicato negli anni ’80, si spiegava come il maggior conflitto che la democrazia si occupava di risolvere fosse quello economico e distributivo tra lavoro e capitale. In questi quarant’anni di cui abbiamo parlato, la polarizzazione economica è aumentata, eppure nel tuo nuovo libro sei molto cauto sulle motivazioni economiche a monte di questa crisi.
I fattori economici non sono sufficienti a spiegare quello che sta succedendo. Certo, contano e lo possiamo vedere a qualsiasi livello di analisi: a livello nazionale sappiamo che i paesi più colpiti dalla crisi finanziaria tendono ad avere partiti di destra e xenofobi più forti che altrove; a livello locale, nelle regioni e nei distretti che, a causa della globalizzazione, hanno perso il maggior numero di industrie, notiamo una presenza maggiore di movimenti di destra; ed anche a livello individuale, quelle persone che hanno esperienza di difficoltà economiche – che lavorano in comparti industriali dove maggiore è l’automazione o la concorrenza dall’estero – è più probabile che abbiano visioni o di sinistra radicale o di destra estrema. Eppure, quando proviamo a misurare l’impatto di questi fattori economici sui comportamenti di voto, troviamo sì una rilevanza statistica ma molto debole. In termini tecnici: uno studio che ha comparato regioni diverse – quelle che hanno perso maggiori posti di lavoro e quelle che ne hanno persi meno – ha stimato che queste differenze economiche spiegano poco più di mezzo punto percentuale (0.6%) dei voti per i partiti di destra. In parole povere, se l’AfD (il partito di destra tedesco) è al 12.6%, le cause economiche spiegano solo lo 0.6%, ma da dove arriva il restante 12%? Ci devono essere altre spiegazioni, ma al momento le ignoriamo.
Nel tuo libro per spiegare la crisi attuale usi la definizione di Gramsci “il vecchio muore e il nuovo non può nascere” ed in effetti questa sembra descrivere perfettamente questo periodo transitorio in cui vediamo i sintomi della crisi ma ci è difficile comprenderne le cause e dove andremo a finire. Il che, ovviamente, significa che è difficile avanzare soluzioni
I cittadini sono disorientati. Ho letto da poco uno studio che chiede alla popolazione di identificare le linee di divisione presenti nel loro paese: ricchi/poveri, padroni/lavoratori, vecchi/giovani, o divisioni etniche. Ebbene, coloro che hanno difficoltà finanziarie sono quelli che in effetti insistono di più sulla presenza di queste divisioni, senza però precisare quale. Ai tempi in cui il marxismo aveva una certa importanza politica, la linea di divisione sarebbe stata chiaramente identificata tra lavoro e capitale; se la popolazione fosse invece semplicemente razzista punterebbe sulle divisioni etniche. Invece la gente non sa quale sia la radice del problema. In un altro sondaggio francese che ho letto da poco, si chiedeva agli intervistati di spiegare quali sono le ragioni per aver successo nella vita: lo studio, una famiglia ricca, e così via. Ed una volta di più la risposta più comune è stata “non so”.
In una situazione del genere, è davvero difficile per i partiti capire in che dimensione muoversi. La sinistra, per ovvie ragioni, non può permettersi di essere xenofoba, eppure allo stesso momento non può nemmeno alzare un muro contro gli elettori con tali sentimenti perché lascerebbe troppo campo libero alla destra. Siamo in un periodo di grande instabilità.
Che tipi di rischi vedi in questa situazione di incertezza? Al momento abbiamo visto la crescita di partiti populisti di destra ma non sembrano interessati a rovesciare l’ordinamento democratico, anzi sembrano cercare legittimità politica attraverso il passaggio elettorale. Nadia Urbinati parla di democrazia trasfigurata ma pur sempre democrazia
Io penso che ci siano due tipi di populismo – quello partecipativo e quello delegato. Nel primo caso abbiamo un numero sempre maggiore di persone che sono insoddisfatte delle istituzioni che abbiamo – perché non sono rappresentative, non lavorano per il popolo e lasciano gli elettori senza voce. E’, in qualche maniera, un ritorno a Rousseau: la rappresentanza è considerata un perpetuarsi della schiavitù Un esempio di tal genere di populisti sono i 5 stelle. Per rispondere a questo tipo di populismo, si possono intraprendere alcune riforme istituzionali: referendum, assemblee di cittadini – che però a mio parere avrebbero un impatto modesto. L’altro tipo di populismo, invece, lo definisco “schumpeteriano”: è delegato nel senso che i cittadini vogliono semplicemente essere governati bene, e questo permette a chi è al governo di usare a proprio vantaggio le leve del potere per proteggersi da sconfitte elettorali. Nella mia opinione questo è un arretramento democratico che presenta molti rischi – un tipo di populismo che ci conduce diritti al modello russo.
Giacché hai citato la Russia e la democrazia delegata, vorrei sapere la tua opinione su quello che sta succedendo in Europa orientale, un classico esempio di regressione della democrazia. Pensi ci sia qualche collegamento tra questa situazione e il fallimento della transizione post-comunista? Ricordo che nei giorni della caduta del Muro, i popoli di “oltre cortina” guardavano con speranza alle democrazie occidentali, ma erano favorevoli a un’economia mista di tipo socialdemocratico – ed invece si ritrovarono con la shock therapy.
Iniziamo dicendo che ci sono forti differenze tra i paesi guidati da partiti populisti in Europa Orientale: la Polonia, per esempio, è molto diversa dall’Ungheria. Il governo polacco è quello che si può definire un tradizionale governo di destra autoritaria, simile a quelli che vi erano in Europa negli anni ’50 e ’60 – una destra nazionalista, religiosa, “statalista” che indubbiamente rappresenta una reazione alla shock therapy. Il PiS – il partito di governo – è l’esempio classico di una forza politica capace di rimanere al potere senza ricorrere a forme evidenti di repressione – non c’è bisogno di mettere le persone in galera quando si controllano i media, il sistema giudiziario e, soprattutto, il denaro con cui comprare i voti. In effetti la mancanza di repressione è l’unica differenza notevole con i regimi autoritari della seconda metà del Novecento. L’Ungheria è diversa: Orbán e il suo sistema di potere oligarchico sono molto più corrotti del regime polacco: il controllo sui mezzi di informazione è molto maggiore ed anche il grado di repressione. In entrambi i casi, però, si tratta di una reazione di destra alla transizione neoliberale che è stato un disastro ovunque: in Polonia il PNL calò dl 20% in due anni, e la disoccupazione raggiunse il 20%. Ovviamente questo si tradusse in instabilità politica: prima tornarono al potere gli ex-comunisti, una forza più statalista, per poi essere rimpiazzati dalla destra liberale – arrogante e tecnocratica – che fu tanto detestata da aprire le porte alla vittoria della destra tradizionalista, che usa una retorica nazionalista e redistribuisce il reddito verso la sua base agricola e contadina – una operazione di grande successo. La situazione attuale è che la Polonia è divisa tra una destra liberale e una statalista, senza davvero alcuno spazio per la sinistra.
Vorrei concludere parlando della relazione tra capitalismo e democrazia. Nel tuo libro spieghi il perché siamo di fronte ad una crisi della democrazia ma sei molto netto nello spiegare che invece non c’è nessuna crisi del capitalismo – quantomeno non nei termini gramsciani di cui parlavamo prima, in quanto il capitalismo è sempre capace di rigenerarsi.
C’è una distinzione da tenere a mente tra crisi nel capitalismo e crisi del capitalismo. Ovviamente abbiamo crisi economiche, anche di portata globale come quella del 2008. Eppure per capire la differenza, basta guardare a Kalecki che già negli anni ’30 spiegava che il capitalismo ha un sistema di auto-regolamentazione, che è incredibilmente oneroso – e che comporta milioni e milioni di persone senza lavoro, senza casa, migrazioni di massa – ma che infine, attraverso l’aggiustamento dei prezzi e dei salari, ristabilisce una sorta di status quo. Abbiamo quindi crisi nel capitalismo ma non del capitalismo, mentre al momento assistiamo una crisi della democrazia.
Mi pare che però ci sia un punto nuovo che discuti nel tuo libro tra i sintomi della crisi – la stagnazione economica. Mi pare qualcosa di particolarmente importante in quanto influenza non solo l’economia e la condizione materiale, ma anche la percezione che i cittadini hanno di sé stessi. Se questa stagnazione divenisse una situazione permanente, pensi che possa mettere in discussione il processo di crescita continua che è alla base del sistema capitalistico e dunque la sua legittimità?
In effetti questo periodo di stagnazione non ha precedenti. Abbiamo dati economici affidabili solo dal 1950 ma mentre guardavo a quanto abbiamo di disponibile per il periodo tra le due guerre – ed in particolare cosa è successo al 50% più povero della distribuzione di reddito – ho raggiunto la conclusione che questo periodo di stagnazione è il più lungo che abbiamo conosciuto. Non solo: dobbiamo aggiungere il dato sulla mobilità intergenerazionale: al momento il 64% degli europei ed il 60% degli americani non crede che i propri i figli staranno meglio di loro. E’ la prima volta dai tempi della Rivoluzione industriale in cui abbiamo una generazione che non crede più nel progresso materiale. Dove ci può condurre tutto questo? La sinistra socialista tradizionale suggerirebbe una maggiore redistribuzione e ci sarebbe sicuramente spazio per un aumento delle tasse sui più ricchi o una tassa sulla ricchezza. Il problema è che una maggiore redistribuzione non cambia le capacità produttive e non modifica la distribuzione dei redditi di mercato (prima della tassazione) che rimane dunque estremamente ineguale. E questo crea una situazione complicata perché usare solo la leva fiscale crea dei conflitti distributivi e ostilità popolare alle tasse alte. Io penso che la soluzione sia nel riformare la struttura proprietaria – come con le riforme Meidner in Svezia negli anni 70 per la creazione di fondi dei salariati, o la co-proprietà delle aziende da parte dei lavoratori. E questa sì sarebbe una rimessa in discussione della struttura economica.
(19 marzo 2020)
Da -
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