CALABRÒ: “CON L’IMPRESA RIFORMISTA L’ITALIA PUÒ RIPARTIRE, DA NORD A SUD”
GABRIELE CATANIA
11 marzo 2019
Papa Francesco. Colin Crouch. Antonio Genovesi. Zygmunt Bauman. Carlo Maria Cipolla. Adriano Olivetti. Norberto Bobbio. Sono questi i nomi di alcuni degli astri della costellazione culturale a cui guarda Antonio Calabrò, direttore della Fondazione Pirelli, vicepresidente di Assolombarda, e autore di numerosi saggi sull’industria italiana.L’ultimo, “L’impresa riformista – Lavoro, innovazione, benessere, inclusione” (Bocconi Editore), ha al centro uno dei pilastri dell’identità dell’Italia, nazione che il capitalismo lo ha inventato: l’impresa. O meglio, un particolare tipo di impresa. L’impresa che è sì competitiva, ma sa anche essere comunità, “luogo d’incontro, conflitto e sintesi di interessi diversi”; l’impresa coesiva, pronta a puntare sulla “fabbrica bella” e sul welfare aziendale, sulle tecnologie più dirompenti e complesse dell’Industria 4.0 ma pure sulla sostenibilità ambientale e sociale e sull’economia circolare.
Un’impresa utopica? Non proprio, perché in Italia – seconda potenza manifatturiera d’Europa, dopo la Germania Exportweltmeister – di imprese così ne esistono. Sono ad esempio le “fabbriche belle” che costellano il paese. A Milano e nel resto della Lombardia, certo, ma anche in Piemonte (gli stabilimenti sostenibili Pirelli, Lavazza e L’Oréal a Settimo Torinese, o l’Avio di GE a Cameri, nel novarese); in Veneto (per esempio la Zambon a Vicenza) e in Toscana (la “fabbrica giardino” di Prada a Valvigna, in quel di Arezzo); nell’Emilia-Romagna che dà lezioni al mondo quanto a capacità di coniugare manifattura hi-tech e sviluppo sociale; nell’Umbria degli stabilimenti di Brunello Cucinelli a Solomeo, nelle Marche delle aziende Della Valle; in Lazio, nel Mezzogiorno dei nuovi distretti tecnologici, nella Sicilia che impara a valorizzare il suo straordinario patrimonio agroalimentare.
Un’impresa, dunque, abile nel coniugare profitti e responsabilità, attenzione agli shareholders ma anche all’ambiente. Un’impresa dinamica, ma anche attenta ai tempi lunghi, paziente. Un’impresa dove il confronto tra capitale e sindacato c’è, a volte è anche duro, ma dove si riconosce l’apporto preziosissimo del lavoro, e dell’intelligenza. Perché come scriveva quel grande pensatore e patriota del Risorgimento che fu il milanese Carlo Cattaneo, “non v’è lavoro, non v’è capitale, che non cominci con un atto d’intelligenza”. Essere azienda riformista, secondo Calabrò, significa dunque essere fucina di intelligenza e progresso. Ed esserne consapevoli. In ogni parte d’Italia. Compreso il Sud, con il suo straordinario potenziale ancora da sfruttare.
Il saggio, che sarà presentato martedì 12 marzo alle ore 19 in Assolombarda (con Carlo Bonomi, Cristina Messa, Carla Parzani e Marco Tronchetti Provera), mira a far discutere. Sotto, alcuni estratti della conversazione con l’autore.
Calabrò, lei parla di “impresa riformista”. Tale concetto non potrebbe quasi suonare, a taluni, come un ossimoro?
Tutt’altro. È invece lo spostamento del ruolo dell’impresa da un terreno puramente economico a uno più sociale. Sia chiaro: le imprese, per loro natura, fanno profitti; tuttavia sono anche un grande motore di cambiamento, sociale e generale. Lo sono sempre state. E in questo momento storico è importante prenderne atto. In una fase di crisi della politica, dei riferimenti, delle relazioni, l’impresa riconferma non un altro ruolo, ma il suo ruolo. Che è quello di essere sì una struttura che produce ricchezza, ma riesce a farlo in quanto lavora sull’innovazione, sulle relazioni, sul rapporto col territorio, sull’inclusione sociale. Cose che ha sempre fatto, ma che oggi vanno ribadite.
Le imprese sono un grande motore di cambiamento, sociale e generale.
L’impresa come fucina d’intelligenza, innovazione, progresso, inclusione. Lei cita vari esempi; cita la Olivetti, la Pirelli, le “fabbriche belle” che si moltiplicano da un capo all’altro della penisola…
Ma le radici sono lontane. Ad esempio nel Costituto del 1309, norma fondante della città di Siena: una città di mercanti, d’imprenditori, che però si preoccupa del benessere generale. È questa la natura dell’impresa.
Nel suo libro lei cita spesso il grande storico dell’economia Carlo M. Cipolla, che ci ricorda come gli italiani, da secoli, sappiano fare, “all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Del resto sempre Cipolla ci insegna: “Se l’Italia vuole prosperare nelle condizioni naturali in cui si trova deve esportare”.
Esattamente…
Ecco perché le imprese protagoniste del suo libro, che innovano ed esportano in tutto il mondo, sono cruciali. Certo, gli imprenditori italiani queste cose le fanno ma…
Ma non le dicono, non le raccontano. Anzi, hanno quasi una sorta di pudore nel raccontare se stessi.
In questo libro, come pure in un saggio precedente, “La morale del tornio”, lei menziona spesso il pensiero del pontefice, Francesco. Ad esempio l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium. Perché?
Perché credo che la Chiesa sia una grande istituzione in grado di raccogliere e manifestare pensieri morali che incidono sulla società. E nella condizione di crisi dell’autorità, dei riferimenti culturali, dei pensieri profondi, la Chiesa continua a fare questo lavoro. D’altra parte, la costruzione dell’identità europea, se vogliamo fare alcuni passi indietro nel tempo, passa attraverso un luogo che è contemporaneamente religioso e sociale: le abbazie benedettine. L’Europa nasce nelle abbazie benedettine, e infatti San Benedetto è il patrono d’Europa. E quella capacità di pensiero e di lavoro, che oggi ispira le parole di Papa Francesco, è una straordinaria lezione di storia e di attualità.
E in effetti nei monasteri dell’alto, e dell’altissimo Medioevo, ci fu il salvataggio e il recupero del patrimonio culturale del mondo antico.
Un recupero fondamentale. Del resto quel patrimonio continua a darci delle grandi lezioni, dei riferimenti sui quali vale la pena riflettere.
In Italia ci sono imprenditori assai consapevoli di questo retaggio: come Brunello Cucinelli, per fare un esempio dall’Italia centrale. Ma senta: che cos’è un imprenditore?
Gli imprenditori sono dei soggetti che individuano un’esigenza ancora priva di risposte e lavorano per riuscire a darne, con un nuovo prodotto o un servizio. Un imprenditore è una specie di eretico della trasformazione.
L’Europa nasce nelle abbazie benedettine, e infatti San Benedetto è il patrono d’Europa.
Questa è una bella definizione. E senta, sempre restando nell’ambito della cultura antica, lei in questo libro ma anche in “La morale del tornio”, tesse gli elogi di tre lettere molto familiari ai latinisti, cum. Perché?
Perché credo che il cum sia dentro la natura dell’impresa. Come dimostra la parola stessa ‘competizione’: cum e petere, andare insieme verso un obiettivo comune. L’impresa è un soggetto in cui più forze convivono e collaborano. Le trasformazioni sociali sono agite dal mondo dell’impresa, anche nei momenti di conflitto più forte. Perché l’impresa sta dentro le dimensioni sociali e le modifica. È un soggetto della comunità, della collettività. Cum.
Non si può pensare a un’impresa “atomo”, a un’impresa sganciata dal suo contesto.
No. Un’impresa è ciò che fa, i suoi fornitori, i suoi clienti. L’impresa compra da qualcuno e vende a qualcun altro, è un soggetto di relazioni.
Quindi si contamina, appunto, con l’esterno.
Esattamente, un’impresa vive dentro la società. È quindi un animale sociale, se volessimo parafrasare Aristotele.
E nessun’impresa è un’isola, se volessimo parafrasare John Donne.
Assolutamente no. Neanche un supermercato lo è [ride], per citare quell’eccellente pubblicità.
Questo suo pensiero, che è il pensiero (consapevole o meno) di tanti imprenditori, da Bolzano a Siracusa, questa cultura del cum, è antitetica rispetto a una certa cultura dominante, che invece è una cultura del “collettivo ridotto”, del tribale.
Certo. Vede, nella natura dell’impresa c’è un elemento fortemente individuale. L’imprenditore, l’innovatore, è un soggetto singolo e per certi versi solitario, che però realizza la sua natura all’interno di una struttura sociale.
Struttura sociale che è portato, tendenzialmente, ad allargare, a estendere, ad ampliare.
Beh sì: quella cosa si chiama mercato, e il mercato è un soggetto sociale.
Un mercato che per le imprese italiane arriva sino alla Cina, al Sudafrica, al Canada, alla Norvegia.
Esattamente. Ma, per tornare alla lezione di Cipolla, le nostre imprese lo hanno sempre fatto. Hanno sempre esportato ovunque.
Perché l’Italia è un paese povero di materie prime, di risorse; quindi o trasforma le risorse di altri o non è niente.
Non è solo questo, è anche un tema geografico: il nostro è un paese sul mare. Quanto sono lunghe le coste italiane? Noi siamo un paese aperto sul Mediterraneo. Il momento in cui ha inizio la nostra modernità è quello delle repubbliche marinare, ancora prima della scoperta dell’America.
Assolutamente: Amalfi, Genova, Venezia, Pisa, ma anche Ancona, Gaeta…
Noi siamo un paese di realtà al contempo economiche, sociali, culturali, che stanno dentro il Mar Mediterraneo.
E questo se permette, è un errore che abbiamo compiuto: l’Italia si è un po’ dimenticata del Mediterraneo. Ha dimenticato la lezione di Braudel.
Sì, purtroppo. Lei cita Braudel, io non dimenticherei quel secondo, grande attore del racconto mediterraneo che è stato Predrag Matvejević, a lungo professore alla Sapienza di Roma, autore di “Breviario mediterraneo”. Se lei mette insieme questi due studiosi, che hanno avuto un fortissimo rapporto con l’Italia, capisce il senso, la natura profonda del nostro paese.
E perché ce ne siamo dimenticati, secondo lei?
Io non lo so se tutti ce ne siamo davvero dimenticati. Se ne è dimenticato il discorso pubblico, questo sì.
Certo, il discorso pubblico. Tanti imprenditori, a Padova come a Napoli, che aprono fabbriche in Marocco, in Tunisia o in Turchia, conoscono benissimo la natura mediterranea dell’Italia.
Il discorso pubblico si è dimenticato di moltissime cose, purtroppo, inclusa la nostra declinazione mediterranea. E oggi si focalizza sul conflitto nord-sud, un conflitto molto schematico. D’altra parte, secondo lei qual è la più grande città mediterranea d’Italia? È Milano. Perché è il luogo dove s’incrociano le grandi direttrici di cultura e di interessi, da nord a sud, da est a ovest, perché Milano è il baricentro accogliente di pensieri europei che guardano al Mediterraneo. Milano è città aperta. È la città in cui, nel tempo, centinaia di migliaia di meridionali hanno trovato casa senza mai rinnegare sé stessi, ma piuttosto essendo sé stessi: la parte migliore del Mezzogiorno; la più dinamica, la più attiva, la più curiosa, la più aperta.
Milano è la più grande città mediterranea d’Italia.
C’è oggi però anche un altro Mezzogiorno, che resta al suo posto e rilancia l’industria. Pensiamo alla Puglia, dove sta crescendo a livelli incredibili l’aerospaziale.
Sì, ma pensiamo anche a Napoli, con le sue nuove accademie tecnologiche.
La manifattura, ne “La morale del tornio”, è descritta come un antidoto sapiente contro “il feticismo del denaro”, e qui stiamo di nuovo citando il Papa.
Sì. Sempre con la consapevolezza, però, che naturalmente l’industria manifatturiera deve fare profitti, altrimenti non investe, non innova, non cresce. Ma tra fare profitti e avere l’ossessione del profitto di breve periodo ne corre…
Perché la manifattura ragiona sul lungo periodo?
Quanto ci mette un imprenditore per l’ammortamento di un macchinario che compra? E quanto a lungo deve vivere una nuova fabbrica per remunerare l’investimento?
E qui torniamo, se non alla longue durée di Braudel, almeno ai tempi medi…
Esattamente. Sono i tempi dei processi economici, ma anche dei processi commerciali: su che cosa è costruito un rapporto commerciale buono? Sulla fiducia, che è una dimensione del tempo lungo. L’operazione speculativa finanziaria è del tempo breve, non è costruita sulla fiducia, per certi versi è costruita sulla rapacità frettolosa.
Sull’asimmetria informativa, quanto meno.
Su una serie di alterazioni del rapporto di lungo periodo.
La manifattura ci fa anche un altro dono: ci insegna a superare gli steccati, artificiosi, tra scienza, tecnica e le discipline umanistiche. Io lo vedo qui tra le PMI del Nordest, lei l’avrà visto un po’ in tutta Italia.
Assolutamente sì, perché la manifattura è costituita da persone che fanno le cose in modo nuovo.
E senta, cosa rende la “fabbrica bella” una bella fabbrica? Lo può spiegare a chi fra i lettori non ha mai messo piede in uno di questi nuovi stabilimenti curati da grandi architetti, sapienti negli spazi, che conciliano bellezza e lavoro?
Una “fabbrica bella” è una fabbrica sicura, inclusiva, luminosa, una fabbrica che consuma pochissima energia, o addirittura lavora con l’energia rinnovabile. Il tetto della fabbrica Pirelli a Settimo Torinese è tutto quanto ricoperto di pannelli per l’energia solare. La “fabbrica bella” è una fabbrica con una bassa impronta ambientale, dove è piacevole andare a lavorare.
Non puoi fare prodotti belli, di alto valore, in siti brutti.
È la lezione di Adriano Olivetti. Lei nel libro cita il discorso che fece inaugurando, nel 1955, lo stabilimento di Pozzuoli, sullo splendido golfo di Napoli. Ma la “fabbrica bella” fa bene anche ai profitti…
Una fabbrica bella probabilmente è un po’ più costosa, da costruire, di una fabbrica tradizionale, ma si trasforma e crea profitto nel lungo periodo. E d’altra parte, su cosa compete l’Italia se non sull’alta qualità? E non puoi fare prodotti di eccellenza, di alto livello, con alto margine contributivo, in posti brutti. Non puoi fare i prodotti Cucinelli, i sistemi Loccioni, i freni Brembo o gli pneumatici Pirelli (per citare solo quattro prodotti di alto valore) in siti brutti, perché non può esserci una contraddizione tra il luogo in cui lavori e la qualità del prodotto che realizzi.
Lei ha citato due realtà del Nordovest e due realtà appartenenti a un’Italia un po’ più periferica, lontana dalle grandi capitali industriali del paese.
Si può costruire una “fabbrica bella” ovunque. Quando Adriano Olivetti, nel discorso d’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli, dice “Questa fabbrica si è elevata in rispetto della bellezza dei luoghi”, afferma due cose importanti. Primo, che il Mezzogiorno e l’industria non sono un’antinomia. Secondo, che la bellezza dei luoghi coinvolge positivamente la bellezza del lavorare e la bellezza del prodotto del lavoro.
A proposito di Sud. Come si può rilanciare in modo concreto il potenziale del Mezzogiorno e dei suoi talenti, che sono tanti ma che purtroppo tendono a emigrare al nord, in Germania, in America, in Australia e fanno grandi cose?
Credo sia necessaria una grande operazione di cesura. Un taglio netto della dipendenza del Mezzogiorno dalla spesa pubblica, cioè dall’idea che la spesa pubblica debba essere assistenziale. Rileggere l’esperienza della Cassa del Mezzogiorno da questo punto di vista è importante. C’è un libro recente che è appena uscito proprio sulla Cassa, di Laterza, “La Cassa per il Mezzogiorno e la politica 1950-1986” di Luigi Scoppola. La Cassa del Mezzogiorno su cosa investiva? Infrastrutture, nuove fabbriche, lavoro.
Ed era gestita da ingegneri, all’inizio.
Ingegneri che avevano anche una grande consapevolezza della responsabilità politica del lavorare bene. L’esperienza di quella Cassa del Mezzogiorno ci dice che il Sud non è il luogo dell’assistenza e delle clientele, ma dell’intelligenza produttiva.
Dobbiamo rileggere l’esperienza della Cassa del Mezzogiorno.
Se leggiamo la storia del Mezzogiorno, e della Sicilia, troviamo delle pagine straordinarie di capacità imprenditoriale che poi si sono perse nel tempo, addirittura annegate dalla cattiva politica. Per fare solo un nome, la storia dei Florio a Palermo: banchieri, industriali meccanici, imprenditori agricoli, armatori di flotte moderne.
Ma il declino dei Florio sarà responsabilità, almeno in parte, dei Florio stessi…
Certo, perché vollero vivere come aristocratici senza valorizzare la loro identità borghese, imprenditoriale. Tradirono, cioè, la loro stessa natura, una dimensione del fare impresa che invece è determinante. Se volessimo fare un paragone, potremmo guardare al declino dei Florio, e confrontarlo invece con la parabola dei Buddenbrook raccontati da Thomas Mann, di questi mercanti imprenditori fieri dell’essere tali.
Una fierezza che tra le PMI del Nordest, come tra le grandi aziende del Nordovest, si ritrova.
Assolutamente sì. Io credo che questi siano tempi in cui l’impresa deve ritrovare il suo orgoglio di essere motore sociale, della ricchezza e del cambiamento.
Una coscienza di classe insomma.
Non so se di classe, ma di ruolo e di responsabilità certamente sì.
Torniamo al Sud. Il suo rilancio dev’essere un investimento formativo; il tema dell’istruzione, che lei nel suo libro tratta, è fondamentale.
Senza dubbio. Cosa dovrebbe essere il Mezzogiorno? E la Sicilia? Una straordinaria università del Mediterraneo in grado di attirare intelligenze e competenze, e di lavorare sui temi del cambiamento, della società leggera e digitale, della società sostenibile.
E quindi, concretamente, lei cosa propone?
Io penso che il Mezzogiorno avrebbe bisogno di fortissimi investimenti pubblici, per far crescere le condizioni adatte a stimolare le capacità imprenditoriali – che ci sono. Il Mezzogiorno è pieno di belle storie d’impresa, pensi solo alla trasformazione dell’industria siciliana del vino quando sono finiti i contributi europei. Vede, quei contributi si traducevano in spreco, in produzione in eccesso, in speculazione mafiosa, rispetto a pochi bravi produttori che restavano marginali. Se oggi lei guarda all’industria nazionale del vino, tra i produttori migliori figurano i siciliani: bravi, intraprendenti, capaci di stare nel mondo. Non è che siano venuti da altre parti d’Italia a insegnare ai siciliani come si fa il vino; lo abbiamo imparato abbastanza da soli, e ora lo stiamo insegnando ad altri. La riscoperta dei vitigni autoctoni, la qualità, anche un buon senso del marketing, il gusto dello stare nel mondo… L’essere mediterranei è stare dentro a un pensiero aperto.
Il Mezzogiorno è pieno di belle storie d’impresa, pensi solo alla trasformazione dell’industria siciliana del vino quando sono finiti i contributi europei.
Dalle campagne siciliane andiamo un po’ più a nord. Lei nel libro parla di un fenomeno su cui i media – compresi Gli Stati Generali – si sono soffermati: il Nuovo Triangolo Industriale, tra Lombardia, Veneto e Emilia. Che cos’è? E perché potrebbe essere un potente incubatore di impresa riformista?
Perché lì c’è l’impresa che più severamente compete sul mercato. Quella cresciuta insistendo su mondi in evoluzione, operando in dimensioni dove competizione e collaborazione coesistono. Sono fornitori di qualità, prima di tutto per l’automotive, sono imprese che da piccole hanno imparato a diventare medie e poi grandi stando sui mercati internazionali. Che hanno animato distretti industriali innovativi e filiere d’impresa. Queste imprese hanno seguito la lezione delle multinazionali tascabili; che saranno pure uscite dai sottoscala moltissimi anni fa, ma poi sono state capaci di conquistare nicchie da primato, e di tenere insieme positivamente intraprendenza, competenza, innovazione, non solo sui prodotti ma sul modo di produrre, e cultura del mercato, del confronto, qualità. Il Triangolo Industriale si è spostato a est anche perché negli anni passati è entrato in crisi il Triangolo Industriale tradizionale, sono entrate in crisi Torino e Genova, per motivi diversi.
Però Genova ha delle prospettive infrastrutturali importanti, ad esempio verso la Svizzera e l’Europa del nord…
Speriamo. Genova sarebbe, è, il porto naturale che dal Mediterraneo conduce verso l’Europa; a patto di poter essere collegato.
In “La morale del tornio” lei teorizzava una nuova alleanza tra capitale e lavoro, un nuovo patto. Ma secondo lei questo patto è fattibile nell’Italia di oggi?
Le dico che questo patto è in corso, e la riprova sta nei nuovi contratti di lavoro.
Cioè?
Il contratto di lavoro dei metalmeccanici, dei chimici, dei farmaceutici… quei contratti, costruiti su formazione, welfare aziendale, rapporto con i territori, dicono che c’è una relazione nuova tra gli imprenditori e il mondo del lavoro. Quei contratti sono la riprova di una società in movimento. Che poi quasi nessuno del mondo politico li abbia valorizzati, la dice lunga sull’insensibilità di larga parte della politica. Ma i contratti sono lì, basta leggerli. E infatti Confindustria rilancia il Patto della Fabbrica e i sindacati si fanno sentire. Come confermano le recenti dichiarazioni di Maurizio Landini e Marco Bentivogli.
Ma se tanta politica non ascolta, non sarà magari anche un po’ colpa degli imprenditori?
Naturalmente sì.
Una cosa che mi ha colpito nel suo libro è il ruolo che riconosce alla biblioteca; è importante avere delle biblioteche nelle fabbriche.
Nella vita delle persone i libri sono importanti. E quindi anche i libri in fabbrica. Avessimo tutti una maggiore cura dei libri, vivremmo meglio.
Ma l’Italia non è un paese di lettori forti, purtroppo.
Purtroppo no. Però noto anche una parziale e comunque importante ripresa dell’attenzione per la lettura, la cultura, i riferimenti storici, anche da parte delle nuove generazioni.
Ora c’è un rallentamento evidente dell’economia mondiale, e c’è una situazione di incertezza in Italia. Lei è preoccupato?
Io sono molto preoccupato per le sorti di questo paese. Penso però che come sempre, come è successo anche nei momenti più drammatici della nostra storia, l’Italia sia in grado di riprendersi.
E lei in chi spera? Nelle donne, nei laureati?
Spero nelle nuove generazioni, in una maggiore partecipazione delle donne, nel senso di responsabilità di molti attori del mondo sociale, dell’impresa, del volontariato, di chi produce cultura, delle associazioni che si prendono cura dell’Italia. Spero nella ripresa di responsabilità da parte di alcune istituzioni. Spero molto pure in una ricostruzione della responsabilità europea. Non abbiamo perso la scommessa del futuro: è faticosissima da vincere, ma non l’abbiamo persa.
Non crede che in Italia la ricostruzione, ancor prima che culturale, dovrebbe essere morale? Educativa, ma in senso molto ampio?
I due aspetti stanno insieme. Se c’è un punto che suscita grande preoccupazione è la crescente disattenzione rispetto alla qualità dei processi educativi. La scuola è uno dei luoghi fondamentali in cui si acquisiscono civiltà e responsabilità.
Tuttavia la scuola è la grande bistrattata degli ultimi decenni di politica italiana: pensi solo alle mille riforme che si sono susseguite.
Purtroppo sì, mille riforme e scarsa attenzione al tempo lungo della formazione. Si tratta di una grande debolezza: bassi investimenti nella formazione e nella ricerca. E, aggiungo, una diffusa tendenza anti-scientifica, anti-culturale, e contro il senso di responsabilità. Tutti fenomeni molto preoccupanti.
Suscita grande preoccupazione la crescente disattenzione rispetto alla qualità dei processi educativi.
Lei cita, nella parte conclusiva del suo saggio, Milano. Che ritiene essere il miglior esempio di città aperta e che guarda al mondo. Cita, in quel capitolo, un proverbio latino, caro ad Augusto e a Manuzio: festina lente. Perché? Cosa vuol dire?
Vuol dire che c’è da tenere il passo con le trasformazioni, ma senza la frettolosità dei rapporti. I cambiamenti sociali sono fenomeni lunghi e complessi. Come lo è il riformismo, per tornare al titolo: un’attitudine paziente alle trasformazioni, senza cedere alla tentazione delle scorciatoie veloci. Il senso di responsabilità richiede tempo, la mediazione richiede tempo, la composizione di interessi diversi richiede tempo. La democrazia stessa è un fenomeno lento.
Da -
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