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Autore Discussione: Lo storico Adriano Prosperi ci riporta in un contesto remotissimo che abbiamo...  (Letto 1503 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Maggio 21, 2019, 06:00:06 pm »

Lo storico Adriano Prosperi ci riporta in un contesto remotissimo che abbiamo del tutto rimosso, ma che ci riguarda da molto vicino: la vita (e la miseria) nelle campagne italiane dell'800.

E' Massimo Bucciantini, storico della scienza, ad accompagnarci alla scoperta del libro scritto da Prosperi, “Un volgo disperso. Contadini d'Italia nell'Ottocento”. E' proprio attraverso la scienza, e in particolare attraverso il lavoro e l'osservazione dei medici dell'epoca, che siamo infatti in grado di ricostruire le condizioni di vita della classe contadina italiana dell'Ottocento. Il saggio di Prosperi parte dalle considerazioni del medico Bernardino Ramazzini (1633-1714), che si dedicò all'osservazione delle condizioni di lavoro e dialogò con i più umili per chiarire le cause dei loro disturbi si salute. Prosegue con le statistiche di Melchiorre Gioia, con il lavoro dei medici prima e dopo il 1848, con le considerazioni nell'Italia unita sull'igiene, intesa come vangelo borghese della salute o differenza di razza (ecco Paolo Mantegazza e Cesare Lombroso). Un capitolo, tra gli altri, è sulle condizioni materiali di vita dei contadini nell'inchiesta di Luigi Bodio (1840-1920), economista e statistico. Un altro sul medico Agostino Bertani (1812-1886) e sulle inchieste agrarie.
Prosperi, osserva Massimo Bucciantini, ci aiuta a gettare uno sguardo sui «contadini che siamo stati». E lo fa partendo da alcune domande che possono sembrare banali nella loro semplicità. Come si viveva e cosa si mangiava nelle campagne italiane nell'Ottocento e nel primo Novecento, quali erano le condizioni di vita dei lavoratori della terra, ovvero degli uomini, delle donne e dei bambini che erano costretti a lavorare per gran parte dell'anno dieci o dodici ore al giorno? Come si viveva in case sudicie e fatiscenti, piene di umidità, con muri formati di rottami e di cocci, con il tetto fatto di canne o paglia, spesso composte di due sole stanze, una per la famiglia e l'altra per gli animali? Sono domande che confliggono con l'immagine dell'altra Italia, con il Paese definito – e oggi pubblicizzato – delle «cento città». Qui c'è ben altro, c'è il basso popolo delle «cento campagne»: oltre quindici milioni di persone unite dal segno inconfondibile della miseria, delle malattie e della subalternità economica e culturale. Non i salotti, i caffè, le biblioteche, i circoli letterari, le redazioni di giornali, le accademie, i luoghi tipici della sociabilità borghese così bene ricostruiti da uno storico come Marino Berengo. E la frattura tra questi due mondi in Italia – a differenza di altri paesi come la Francia – è stata insanabile. Se le «cento città» sono servite a mettere in risalto il lato moderno e innovativo della nazione e della sua classe dominante, è altrettanto vero che questa immagine ha finito per nascondere l'altra faccia della medaglia: un paese non meno vero e reale, abitato da una classe contadina a cui è toccato di pagare il prezzo più alto e il cui sacrificio è stato completamente dimenticato.

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