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Autore Discussione: Dario FO. -  (Letto 20806 volte)
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« inserito:: Dicembre 12, 2007, 06:28:17 pm »

Intervista a Dario Fo - Che cos'e' la Satira?

Daniele Luttazzi: Vorrei cominciare da un ricordo che ci riguarda entrambi. Io avevo 13 anni. Santarcangelo 1974, Festival del Teatro. Tu facevi "Mistero Buffo". La ricordo come una serata indimenticabile. E' stata una specie di imprinting. Non capivo la maggior parte delle battute perche' erano oltre la mia comprensione, ovviamente, ma mi divertii moltissimo perche' tu facevi il grammelot e tante altre cose e fu uno spettacolo meraviglioso. All'epoca "Mistero Buffo" fece scandalo. Dopo 30 anni, il premio Nobel.

Dario Fo: te lo auguro.

Daniele Luttazzi: Grazie. Ma veniamo al motivo dell'incontro. In queste ultime settimane un sacco di politici e giornalisti hanno voluto spiegare agli italiani che cos'e' la satira. "La satira deve deformare, non informare" e altre amenita' del genere. Io voglio usare il classico argomento d'autorita'. Chiamo te e ti chiedo: "Dario, cos'e' la satira?".

Dario Fo: Posso dire che e'un aspetto libero, assoluto, del teatro. Cioe' quando si sente dire, per esempio, "e' meglio mettere delle regole, delle forme limitative a certe battute, a certe situazioni", allora mi ricordo una battuta di un grandissimo uomo di teatro il quale diceva: "Prima regola: nella satira non ci sono regole". E questo penso sia fondamentale. Per di più ti diro' che la satira e'un'espressione che e' nata proprio in conseguenza di pressioni, di dolore, di prevaricazione, cioe' e' un momento di rifiuto di certe regole, di certi atteggiamenti: liberatorio in quanto distrugge la possibilità di certi canoni che intruppano la gente.

Daniele Luttazzi: Quindi questo e' un po' il suo obiettivo, diciamo. L'obiettivo della satira.

Dario Fo: Ci sono dei limiti che realizza l'attore. Ma non per frenare, o per pudori e via dicendo. Lo fa per una conseguenza di ritmi, di tempi, di andamenti. Tu puoi dire la cosa piu' triviale, cosi ad acchito, e puo' diventare fine, addirittura poetica. C'e' una sequenza, per esempio, che io mi ricordo. E' la storia di un sesso femminile che ad un certo punto diventa indipendente. "La parpaia topola", si chiama. Una ragazza racconta di aver dimenticato il suo sesso su un chiodo con l'acquasantino perche' andava in chiesa e temeva di perderla li nella chiesa e magari qualcuno ci scivolasse sopra, le rompesse la grazie, l'armonia. Ebbene: e' tutto al limite della trivialita', dello scurrile. E alla fine diventa uno dei momenti piu' alti di poesia di tutto quello che abbiamo.

Daniele Luttazzi: Quindi, in realta', il buon gusto non e' un criterio per giudicare la satira?

Dario Fo: Anzi. Che cosa significa "buon gusto" in questo caso? Il buon gusto a mio avviso, se esiste, esiste proprio nella dimensione del banale. Ci sono delle persone che raccontano storie che in apparenza si limitano al banale e che sono espressioni di un cattivo gusto orrendo. Ad esempio, certe barzellette raccontate da certi politici. Berlusconi, fai conto. Gliene ho sentita raccontare una che era di un cattivo gusto, di un osceno incredibile. Era ributtante.

Daniele Luttazzi: C'e' un tema che m'intriga: "La cacca e il suo uso nella satira di tutti i tempi". Parliamone.

Dario Fo: Devo dire che si potrebbe parlare per una giornata intiera proprio recitando pezzi del teatro satirico antico a partire dai greci, quindi dai romani, eccetera. Tutto "Mistero Buffo" e' realizzato su queste chiavi. Per esempio, la nascita di Ruzante, oppure un pezzo famosissimo che e' la fame dello Zanni. Questo Zanni affamato oltremisura si torce finche' decide di mangiare se stesso. Nell'assurdo, nel paradosso, immagina di infilarsi un braccio dentro la gola, di tirarsi fuori le budella e poi le pulisce pian piano dello sterco e ogni tanto guarda la cacca e pensa che forse alla fine mangera' anche quella per la fame che ha. E poi c'e' la prima volta che noi vediamo un testo scritto, un canovaccio svolto per intero, alla nascita di Arlecchino. Arlecchino si presentava in scena, calava le brache, faceva la cacca e poi la gettava al pubblico. Naturalmente c'era gente che sveniva.

Daniele Luttazzi: Questa può essere un'idea. Se la mangiava anche?

Dario Fo: Se la mangiava, alla fine. La cosa piu' incredibile e' che il re applaudiva per primo perche' il re sapeva che era cioccolata, naturalmente. Ma questo non era fine a se stesso. Serviva a provocare un pubblico che era a dir poco snob, distaccato, che rideva mal volentieri, che partecipava soltanto perche' voleva essere vicino al re, ma non aveva nessuna gioia, nessun afflato. E allora il re era ben contento che questa provocazione realizzasse un capovolgimento della situazione.

Daniele Luttazzi: Qualcuno ha suggerito che la satira, confermando lo status quo, potrebbe al fin fine essere reazionaria.

Dario Fo: No. La parte reazionaria del discorso del comico e' lo sfotto'. C'è una grande differenza fra il teatro sfotto' e il teatro di satira. Il teatro di satira e' sempre morale. Infatti si chiamavano "Moralie". Non a caso un giullare, S. Francesco, usava molte volte la provocazione in senso religioso. Per esempio, quando papa Innocenzo, per la prima volta, accoglie Francesco e lo sente parlare. Naturalmente Francesco fa delle proposte per quanto riguarda l'idea che ha della religione e del modo di esprimerla che lo irritano. Perche' subito dice il denaro, toglierlo di mezzo; la Chiesa non deve avere denaro, non deve avere interessi, non deve raccogliere la carita', perché chi gestisce la carità ha il piu' grande potere, piu' grande di quello dell'Imperatore. Cose che irritano il papa. E allora il papa dice: "Senti, sono bellissime le tue idee. Ma un consiglio: noi non siamo all'altezza di ascoltare questo mistico straordinario. Tu dovresti andare in mezzo ai porci. Vai in mezzo ai porci. E mischiati fra di loro, abbracciali, il loro smerdazzo, prenditi dentro e vedrai che loro ti capiscono. L'unica gente che ti possa ascoltare, capire, sono loro."E lui cosa fa? Va davvero dai porci. Esce nelle campagne, qui a Roma, vede una porcellaia, entra nella porcellaia, ci sono delle bestie straordinarie e si mischiano, e poi parla loro. Dice: "Il papa mi ha detto di venire qua e voi mi ascoltate e vi abbraccio" e si rotola e, come dice nel testo originario, si smerdazza tutto. E poi va,corre nel palazzo del papa, approfitta del fatto che ci sono le guardie poco attente e addirittura entra nel salone nel momento in cui il papa sta mangiando con dei signori, con delle signore, anche. E il papa lo vede, quasi trema. Sentono la puzza, dice: "Ma cos'e' questa puzza?" E Francesco si inchina e poi dice: "Pontefice, caro, ci sono stato: e' vero, mi hanno ascoltato." E fa una giravolta, così smerdazzando, lanciando sterco dappertutto addosso a questi signori che svengono quasi. Il papa alza la mano per dare l'ordine alle sue guardie di prenderlo. E c'è un cardinale, un arcivescovo, Colonna, che e' un amico di Francesco, che dice: "Ferma. Cosa vuoi fare? Vuoi prendere questo e gettarlo dentro un carcere, picchiarlo e magari ammazzarlo? Fallo. Attento che questo non e' uno qualunque che viene cosi, solo, isolato, senza padre ne' madre che gli sono intorno. Se vuoi una guerra peggio di quella che c'e' stata in Francia, con le distruzioni e i massacri, se la vuoi qua ebbene tu, tu fai un'azione violenta contro di lui". "E cosa devo fare, allora? Mica posso lasciarlo andare via cosi." "No, non puoi. Abbraccialo." "Ma e' smerdato." "Proprio per questo devi farlo." E il papa, e questa e' una bella lezione, si avvicina, lo abbraccia e a un certo punto capisce l'errore che ha fatto. "Io, io sono causa di quello, mi hai dato una lezione stupenda e da questo momento puoi andare intorno a dire il vangelo come ti pare, a realizzare quello che hai in mente". La cacca usata come termine morale straordinario.

Daniele Luttazzi: Quindi la satira puo' agire anche sulla Storia, in qualche modo?

Dario Fo: Spesso. Basti pensare al timore, al panico che hanno avuto sempre i potenti davanti ai problemi della satira. Perche' la satira in molti casi ha determinato la presa di coscienza della gente, soprattutto delle classi inferiori. Ha fatto capire di avere il potere di ribaltare le situazioni, di avere il coraggio. Quindi, temuta. Tanto e' vero che Federico II di Svevia addirittura aveva emesso una legge durissima, "De contra jugulatores obloquentes", significa "Contro i giullari sparlatori infami". Chi sentiva un giullare trattare male, prendersela con il potere, poteva tranquillamente bastonare il clown, insultarlo, anche ucciderlo, perche' tanto non c'era nessuna legge che difendesse i clown. Eppure questi buffoni erano cosi sostenuti, cosi amati dal pubblico - erano la coscienza, la connessione - che difficilmente il potere riusciva a farli fuori tanto per farli fuori. Molte volte doveva perdonarli, perche' temeva che ci fossero delle reazioni grandi. E guarda che Francesco, avere il coraggio di auto nominarsi "giullare", anche se giullare di Dio, questo significa che giocava su un impatto e un sostegno straordinario da parte delle gente minuta.

Daniele Luttazzi: Quale consigli dare ai nuovi talenti della satira?

Dario Fo: Stavo dicendo prima della differenza che esiste fra fare satira e fare sfotto'. Allora posso dire a un giovane: attento. Che giocare esclusivamente sulla pura caricatura legata a un personaggio, anche a un uomo politico, che e' grasso, piccolo, magro, magari ha la gobba, magari si intartaglia, non realizza niente. Questo fa fare soltanto una risata fine a se stessa. Ma se non c'e' la dimensione morale. Se tu attraverso la satira non riesci a far capire il significato opposto delle banalita', dell'ovvio, dell'ipocrisia, soprattutto e della violenza che ogni potere esprime e porta addosso ai minori, ebbene il tuo ridere e' vuoto, e' proprio lo sghignazzo ventrale e non quello dello stomaco e dei polmoni.

Daniele Luttazzi: Una notizia della settimana scorsa che volevo commentare con te. A Bologna Leo De Berardinis, a Palermo Carlo Cecchi e Moni Ovadia hanno visto tagliati dalle giunte di centro-destra i fondi destinati ai loro teatri. Cosa sta capitando?

Dario Fo: Direi che e' proprio un fisso. E' difficile che un potere conservatore realizzi e capisca l'importanza di accrescere la cultura e di svilupparla e soprattutto di darla non come passatempo, non come momento ludico puro, ma proprio per far crescere l'intelligenza e la cultura della gente.

Daniele Luttazzi: Sono esperienze pluriennali che hanno dato lustro alla cultura italiana. Quindi non capisco questa cosa.

Dario Fo: Certo. Ma questa e' una costante. Non e' che noi abbiamo avuto premi quando si faceva per la prima volta un certo discorso culturale legato al teatro. Tu hai visto "Mistero Buffo" a Santarcangelo di Romagna. Ricorderai che c'era un pezzo fondamentale della nostra cultura, "Rosa fresca aulentissima".

Daniele Luttazzi: Cielo d'Alcamo.

Dario Fo: Ebbene, la cosa incredibile e' che questo e' un pezzo di alta cultura in chiave di grosso teatro, di passione, di ironia. C'e' questo giovane che finge di essere nobile e parla con una giovane, una servetta che e' affacciata a un balcone, e le fa dichiarazioni d'amore. E a un certo punto, siccome lui ci va giu' pesante, la ragazza dice: "Senti, parliamoci chiaro: io, piuttosto che venire a fare l'amore con te, piuttosto mi tondo il cranio, cioe' mi rapo il cranio e vado suora. Cosi non ti vedo piu', per la miseria, con tutte le tue proposte pesanti eccetera". "Ah, si?" dice il giovane. "Tu vai suora? Ebbene, io vado frate. Vado in convento, mi preparo bene, poi vengo nel tuo convento, ti confesso e al momento buono gnac!" E' un fissato cronico, proprio, ce l'ha qui l'idea. E lei allora dice: "Piuttosto che accettare una violenza tua, io mi butto nel mare e mi annego." E lui dice: "Ti anneghi? E allora io vengo giu' in fondo al mare, ti raccolgo, ti porto sulla riva, ti distendo, guardo intorno e ri-gnac!" Proprio fissato. E la ragazza terrorizzata, sgomenta, con molto candore, dice: "Ma non c'è nessun piacere a far l'amore con le annegate." Lei sa tutto perche' una sua cugina era annegata, uno era passato di li, ha guardato intorno, "Io ci provo", e poi ha detto: "Meglio il pesce spada!", una famosa battuta classica. Ebbene: questo e' all'inizio della nostra cultura. Si sa anche l'anno: 1225. Cielo d'Alcamo, ovvero Ciullo d'Alcamo, che e' il classico nome dei giullari, Ciullo significa fare l'amore, fottere, quindi sarebbe Fottitore d'Alcamo: ecco questo personaggio e' fondamentale ed e' riconosciuto anche dagli stranieri come quello che ha dato impianto, gioco alla lingua italiana. Ne parla anche Dante Alighieri. Ebbene, e' sempre censurato. Questa scena che io ho descritto non la sentirete mai raccontare, ed e' alla base della nostra cultura. La ragazza mette in guardia il giovane: "Se mi metti le mani addosso mi metto a gridare. I miei parenti arriveranno e ti riempiranno di botte". Ma il giovane sa il fatto suo: se verra' colto sul fatto, ci mettera' una difesa. 2000 augustari, circa mezzo milione di oggi. Federico II aveva promulgato una legge che consentiva ai violentatori di salvarsi, purche' ricchi, cioe' in grado di pagare questa tassa all'imperatore. "Intendi bella quel che ti dico io" dice il giovane. E qui e' il giullare che si rivolge al pubblico. Coglioncini, avete capito come siete incastrati? Questa legge salva noi ricchi e a voi vi frega. Censurata. A proposito di cambiare i libri di testo: vediamo di fare un libro di testo nel quale finalmente si racconta la verita' e si eviti che i ragazzi si annoino. Perche' se venisse raccontata in questo modo la letteratura sarebbe piu' interessante. I ragazzi direbbero: "Oh, finalmente ci siamo. Finalmente capisco qualcosa della vita e dei rapporti sociali ed economici e politici.

Dal Satyricon
 

ripreso da forum di ulivo.it
« Ultima modifica: Marzo 26, 2009, 10:57:28 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 13, 2008, 04:21:37 pm »

Dario Fo: andare a votare E comprare «l’Unità»

Toni Jop


«Primo, andare a votare. Secondo, votare sul serio. Terzo, non commettere atti impuri», e cioè? «fare la sola cosa che ci può mettere al riparo dalla prossima disastrosa puntata del serial-horror Berlusconi, poi tutto il resto». Bel tono, Dario, ti ho mai sentito così apodittico...«Bene, è venuto quel tempo. Il paradosso noir vuole oscurare il cielo di questa realtà, bisogna impedirlo, avviso a tutti i sinceri democratici: se vince, chi o cosa ci salverà?». Lui sa con chi sta parlando, conosce bene i suoi polli, cioè noi che gli gironzoliamo attorno da una piccola, deferente eternità. Sarà un caso che si arrivi al giorno del voto accompagnati esattamente dalla bella voce di Dario Fo? Sì che è un caso. Confesso: figli di una arruffata concezione della organizzazione che molto concede alla forma più mite di una estroversione, come si diceva malignamente un tempo, spontaneista, siamo arrivati a Dario come si arriva a un appuntamento col destino, quasi per caso. E lui, quasi per caso, era lì che ci aspettava, con una valigia carica di premonizioni già imbustate e indirizzi a posto. Ne ha per tutti, a cominciare da quella sinistra che ora pensa di poter continuare a darsi un senso forte stracciando il voto o riducendolo a un ciclamino odoroso di disappunto e di dispetto. Ecco, quindi, il nostro Nobel più amato, il nostro giullare più sfrontato, lì, in piedi nel mezzo di un incrocio della storia che riguarda tutti noi più di quanto non si pensi, con la sua bella valigia in mano e un’aria da Chaplin mentre si sostituisce, davanti al microfono, a quel massacratore sanguinario di Hitler e vomita parole di pace, di fratellanza, di lucidità, di responsabilità.

Bene, Dario. Cominciamo a imbustare i messaggi, forza col primo...
«Eccoci: bisogna votare e non star fuori, non pensare che si possa star fuori. Il discorso del mio amico Grillo è spaventosamente pericoloso. Quello che si affronta oggi non è un voto, è un finale di partita, di una partita disperatamente conclusiva. Un referendum: o sì o no. Il bello è che ha deciso così proprio Berlusconi quando ha costretto gli italiani ad andare a votare con questa orrenda legge, lui ha deciso l’ammasso. Non si può che andare a vedere le carte e se si vuole farlo non c’è che da votare, almeno alla Camera, per Veltroni, per il Partito Democratico. Così farò io. Per il Senato vedrò, ma qualunque cosa faccia devo essere certo che nemmeno un voto si disperda...A Milano vorrei votare Borsellino... ».

Vuol dire che Veltroni ha giocato di rimessa con la scelta di correre da solo?
«Credo di sì: non si poteva che accettare il diktat ed entrare in campo a piedi giunti. Così Veltroni ha compiuto il solo gesto che poteva procurare la vittoria. Ha mostrato coraggio, si è dimostrato persona decisa e perentoria, non uno che va allo sbaraglio, capace di muoversi con impeto e grinta, di farsi sentire in campo... ».

Che ti pare? Sono quasi sparite le falci e anche i martelli in quel che ti chiami corsa all’ammasso...
«Mah, dei simboli mi interessa relativamente. Mi interessano i principi di una cultura libera, di una produzione umanamente corretta, del diritto a una vita ricca di dignità, di un pieno diritto alla salute... ».

E sull’altro fronte, che bandiere vedi?
«Una sola bandiera, quella di una buffonata triste che non fa ridere. A volte guardo in tv Berlusconi e mi chiedo: ma ci fa o è davvero pazzo e grottesco? Alcune, ne sono sicuro, deve pensarle la notte. Quando sostiene che, per vie traverse, il suo ex stalliere Mangano è un eroe... uno che è stato condannato a tre ergastoli per delitti di mafia... un eroe, dice, che non ha parlato. E cos’è che non ha detto e invece poteva dire? Lui corregge: non ha sparlato, e cioè che è stato reticente di fronte ai giudici e sta sempre argomentando di eroismi compiuti da un assassino mafioso. Come si fa a votare per uno così? Chi può votare per uno così? Che Italia può dire di sì a questa cultura?»

Facciamo un gioco: noi, l’Italia che non vuole accettare questa cultura, siamo convinti di vincere. E se invece perdiamo? Che paese ci troviamo tra le braccia?
«Ma ti pare un gioco da fare? Vuoi farmi stare male? L’immagine è disastrosa, mi viene l’angoscia, mi vengono i brividi. Penso, chessò, alle leggi che verranno... Ne ha già fatte quattro o cinque a suo uso personale, chi gli impedirà di andare avanti? Avrà campo libero e ce lo troveremo presidente della Repubblica, la nostra vita appiattita... bisogna ritrovare la grinta che avevamo quando lottavamo contro la Dc, riconquistare il cuore della gente... ».

Se una buffonata triste è in grado di vincere le elezioni, converrà riflettere su quel che siamo come paese e come sinistra...
«Era meglio farlo prima. Qui non se ne fa più parola, ma si sta per votare il più gran conflitto di interessi dell’Occidente. Com’è che siamo ancora a questo punto che un signore padrone di tv, radio, giornali, libri e tanto altro può diventare presidente del consiglio? Ogni tanto, i compagni mi suggeriscono: che vuoi fare, alla gente non interessa questo argomento... Ma siamo matti? Vuol dire che non l’abbiamo ben spiegato, che non abbiamo parlato a sufficienza, che forse ci credevamo poco anche noi alla eresia istituzionale interpretata da Berlusconi; ma se è così, il problema siamo noi... ».

Ho idea che Veltroni sia partito anche da questa considerazione quando ha deciso di correre da solo. Qualcuno non voleva attaccare il conflitto di interessi nella vecchia coalizione. Ma tu strattoni la politica con la forza di un profeta e stai anche sulle balle per questo, ma dove la vuoi portare la politica?
«Ho un problema abbastanza mio, intanto. Devo mettermi d’accordo con una politica che non risponde, non mi sembra almeno, a questioni come quella del percorso dell’Alta velocità, della base Usa a Vicenza. Di cento altre basi militari pagate dai contribuenti italiani, di cento aerei da bombardamento e distruzione, pacifisti?, che costano un miliardo l’uno, del nostro essere supporter dell’esercito Usa mentre quest’ultimo si rifiuta di ammettere che i nostri soldati stanno male per colpa dell’uranio impoverito, tanto per non pagare, loro, i danni, i risarcimenti».

Cambierà, se vincerà il Pd e se, come pare, vinceranno i democratici in Usa...
«A una condizione: che si tolga di mezzo quella che Gramsci definiva “l’umile imbecillità delle idee spente”. Che, cioè, la politica, la sinistra, il governo prenda per buona l’emergenza globale sulla vivibilità del pianeta, sulla crisi delle fonti energetiche che sta travolgendo tutto. Sarà ora di smetterla di fingere di non accorgersi di quanto sta accadendo, sarà ora di smettere di fare i beoti che accettano sempre la situazione come discretamente normale, così ci si tocca i coglioni e si tira avanti. Questa è la stessa logica della merda della Campania, una logica, come si è visto, suicida. Tutta l’azione di governo va impostata su questo allarme, ma nella sostanza, non formalmente... ».

È dura passare dall’Apocalisse, purtroppo vera, alla vecchia Unità: sai della nostra campagna?
«So e ci sto. È un bel giornale, qualche volta meno ma è bello e degno. Allora compro due copie, anzi no, compro tutte le copie che trovo, smantello l’edicola, cuntent?».


Pubblicato il: 13.04.08
Modificato il: 13.04.08 alle ore 11.58   
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« Risposta #2 inserito:: Maggio 13, 2008, 11:31:21 pm »

E Fiorello: «Non ho seguito la cosa, non è divertente e non ce ne occuperemo»

Caso Travaglio, Schifani: «No comment»

Il presidente del Senato: «Lo dico col sorriso».

Ma Dario Fo: destra e sinistra insieme per imporre il silenzio

 
 
ROMA - La sua parola, ormai, l'ha affidata alle carte bollate. E decidendo di querelare Marco Travaglio, il presidente del Senato, Renato Schifani, ha deciso di non tornare più sulla vicenda delle sue frequentazioni del passato con esponenti poi risultati negli anni seguenti collusi con la mafia. Vicenda che era stata rilanciata dallo stesso Travaglio durante la sua partecipazione alla trasmissione «Che tempo che fa». Non a caso quando all'indomani della querela i cronisti cercano di strappargli qualche altra dichiarazione in proposito, Schifani si trincera dietro il più classico dei «No comment». Nessuna risposta ma, come è lui stesso a fare notare, «lo dico con il sorriso».

L'AFFONDO DI DARIO FO - Schifani non ne vuole parlare, ma la vicenda continua a tenere banco. E sono altri a commentarla. Dario Fo, ad esempio: «Questo schizzare di indignati prelude a un'azione questa volta sì preconfezionata e terribile. Bipartisan. Finalmente destra e sinistra si ritrovano coinvolte dentro a una medesima cultura: quella dell'insofferenza verso la satira e la denuncia di ogni illecito» ha detto il premio Nobel prendendo le difese di Travaglio. «Per la prima volta - evidenzia Fo -, dentro tutto o quasi l'arco politico del nostro Paese si è deciso di imporre il silenzio, la pace dello spirito e soprattutto delle idee». L'intervento di Fo è pubblicato sul suo blog. Fo cita Gianni Rodari che scrisse: «Le parole sono come pietre. Lanciate nello stagno producono cerchi concentrici che s'allontanano dai tonfi allargandosi fino alla riva.». «Ma attenti: lo Schifani - rileva ancora Dario Fo - non s'è gettato furente insieme ai suoi numerosi sostenitori contro il libro di prevedibile enorme tiratura, ma contro le parole dette attraverso un mezzo - la televisione - che normalmente si occupa di giochi per famiglie, concorsi fra giovani disposti a esibire cosce e glutei, telegiornali disinformanti, vacui e noiosi.... Sta qui lo scandalo! In quella stessa acqua incolore, le pietre scagliate hanno prodotto un'eco insopportabile».

UN NUOVO EDITTO BULGARO - «Improvvisamente sono tornata a sei anni fa con la paura che si ripetesse ciò che è successo allora con l'editto bulgaro», dice Bice Biagi intervenendo sul sito di Articolo 21 che ha lanciato un sondaggio «Caso Travaglio: chi ha ragione?». «Mi sembra che il tempo non sia passato - sottolinea la figlia di Enzo Biagi - e non è un'impressione piacevole. Travaglio è un giornalista, le cose a cui ha accennato erano state scritte e rese pubbliche da lui, Gomez e Abbate in un libro. E non è che una cosa scritta è più o meno vera di una cosa detta in tv. Come mai - si chiede - oggi tutto questo polverone quando il pubblico leggendo il libro aveva già avuto modo di conoscere quelle tesi? Lui non ha espresso un'opinione. Ha raccontato un fatto. Se non è vero ciò che ha scritto ne risponderà in Tribunale». «Chi si è sentito offeso - dice ancora Bice Biagi - è la seconda carica dello Stato ma i cittadini hanno il diritto di sapere tutto di una carica istituzionale. Non è un pettegolezzo. Schifani dovrebbe presentarsi ai cittadini italiani e raccontare come le cose sono andate».

BIAGI BALUARDO - «Mi fa piacere la solidarietà nei miei confronti espressa da Bice Biagi. Peccato che adesso suo padre Enzo non c’è più: c’è un baluardo in meno». Così Marco Travaglio commenta le dichiarazioni fatte oggi dalla figlia del grande giornalista recentemente scomparso, che ha affermato di temere un nuovo editto bulgaro.

FIORELLO: «NON E' DIVERTENTE» - Chi invece della vicenda sembra interessato a disinteressarsi è Fiorello: «Il caso Travaglio-Schifani? Non lo ho seguito - ha detto il conduttore alla presentazione, in via Asiago a Roma, del doppio cd di "Viva Radiodue 2008" -. Comunque, non è divertente. Non ce ne occuperemo».



13 maggio 2008

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 13, 2008, 11:35:22 pm »

DARIO FO


A proposito della bufera esplosa in conseguenza delle parole di Travaglio da Fazio, mi viene in mente un commento di Gianni Rodari, col quale il poeta apre un suo testo:

"Le parole sono come pietre. - dice - Lanciate nello stagno producono cerchi concentrici che s'allontanano dai tonfi allargandosi fino alla riva. Quelle pietre hanno spaventato gli uccelli e i pesci che schizzano via... nessuno si cura delle rane e delle carpe colpite dai sassi. La parola muove l'acqua, creando scompiglio e sgomento. Se ne approfittano alcuni passanti che raccolgono veloci rane e pesci che galleggiano storditi."

Assomiglia un po' al cataclisma innescato da Travaglio l'altro giorno a 'Che tempo che fa'.

I commenti tratti da un libro scritto da Marco insieme a Peter Gomez ed edito un mese fa, hanno sdegnato ed anche sconvolto gli inquilini dello stagno. Perfino alcuni pesci rossi, in verità un po' sbiaditi, sono letteralmente guizzati fuori dall'acqua in una danza d'indignazione!

Ma che suono avevano quelle parole lanciate nella calma gora? E' semplice....ricordavano amicizie e frequentazioni ambigue fra l'appena eletto Presidente del Senato, Renato Schifani, e alcuni figuri di capi cosca mafiosi. Ma attenti: lo Schifani (strana onomatopeica di un nome) non s'è gettato furente insieme ai suoi numerosi sostenitori contro il libro di prevedibile enorme tiratura, ma contro le parole dette attraverso un mezzo - la televisione - che normalmente si occupa di giochi per famiglie, concorsi fra giovani disposti a esibire cosce e glutei, telegiornali disinformanti, vacui e noiosi.... Sta qui lo scandalo! In quella stessa acqua incolore, le pietre scagliate hanno prodotto un'eco insopportabile.

Tant'è che Renzo Lusetti della Margherita, partito Democratico, ha urlato: "....il direttore generale Rai, Cappon, deve prendere provvedimenti concreti, cioè a dire sanzioni, interdizioni dal video...." E poi aggiunge disperato "Purtroppo la Rai non si decide mai".

S'indigna Luigi Bobba del Pd: "La televisione che fa Santoro con Travaglio è come un format (cioè a dire roba tipo Grande Fratello): essa estremizza solo un punto di vista (cioè 'Chi è quel mafioso? Che ci fa Schifani con lui?') Si vuole dimostrare una tesi, poi si monta il materiale. Risultato: danni anche politici."

Bella questa del format! Cioè chi preconfeziona un discorso e lo avalla con delle prove è un indegno mestatore!
Da cui si evince che tutti i grandi scrittori, poeti, registi di questo mondo sono manipolatori infami, furbacchioni abietti.... a partire da Dante, che scriveva pure in rima!

E' un esercito di protestatori offesi da sinistra al centrosinistra, a destra un po' a sinistra, a destra senza sinistra fino ai fasci littorio ante litteram.

Infatti alle parole di Travaglio s'è indignato perfino Ciarrapico: cinque processi, cinque condanne, oggi senatore del Popolo delle Libertà.
Ma attenti, non c'è di che farci troppo sollazzo satirico. Questo schizzare di indignati prelude a un'azione questa volta sì preconfezionata e terribile.

Bipartisan.

Finalmente destra e sinistra si ritrovano coinvolte dentro a una medesima cultura: quella dell'insofferenza verso la satira e la denuncia di ogni illecito.

Qui fate attenzione, non si tratta di occasionali esternazioni prodotte da un fastidioso ronzare contestatorio.... Qui, per la prima volta, dentro tutto o quasi l'arco politico del nostro Paese si è deciso di imporre il silenzio, la pace dello spirito e soprattutto delle idee.

"Basta con l'antipolitica" come ripetono gli eletti dello stagno e le rane sopravvissute all'ultimo conflitto "eliminiamo i mestatori".

Come dice la canzone: "Silenzio. Zitti e basta di gracchiare!" Si chiude. Piantatela con le denunce non controllate, le inchieste sopra le costruzioni abusive, le accuse di appalti truccati, con concorsi dove i vincenti sono già stabiliti. Smettiamola di eccitare gli animi, soprattutto le menti dei giovani e dei pensionati, a costo di annullare qualche garanzia di libertà e persino di democrazia.

In poche parole, interriamo lo stagno.
Sabbia, per favore!
Via le rane, pesci e uccelli.

Guai a chi gracchia e rompe il silenzio di chi governa unito.

DARIO FO

da www.dariofo.it
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 19, 2008, 06:07:06 pm »

Presidio anti-Tremonti alla Cattolica

Dario Fo tra gli studenti: il governo scricchiola
 

 MILANO (19 novembre) - Presidio anti-Tremonti oggi all'università Cattolica di Milano, organizzato dagli studenti in occasione della visita del ministro dell'Economia all'ateneo, per l'inaugurazione dell'anno accademico.

Un centinaio di manifestanti si è disposto dietro le transenne allestite dalla forze dell'ordine, all'angolo tra via Santa Valeria e via Necchi, al lato dell'ingresso principale dell'università. Dietro, uno striscione che recitava: «Tremonti, più che Robin Hood, principe Giovanni». I ragazzi hanno allestito poi un gazebo per la raccolta di firme contro la legge 133.

Tra loro anche Dario Fo, che ha parlato dei movimenti di protesta: «La possibilità che il governo ritorni sui suoi passi a proposito dei tagli alle Università dipende dalla quantità e dal peso della protesta», ha detto.
 
Il governo ha scricchiolato. «Già nelle ultime manifestazioni il governo ha un pò scricchiolato. Ha cercato di minimizzare e ha smesso di usare termini duri. Si sa però che useranno mezzi pesanti e qui si vedrà la tenuta del movimento».

I ragazzi non sono caduti nella trappola. «Questi ragazzi hanno dimostrato un'intelligenza straordinaria perché non sono caduti nella trappola.
A Roma, ad esempio, dove i fascisti con l'appoggio della polizia hanno addirittura organizzato delle provocazioni senza però riuscire a farle esplodere - ha detto Fo riferendosi agli scontri di Piazza Navona lo scorso 30 ottobre - tanto che i picchiatori sono finiti in un servizio di Chi l'ha visto e hanno fatto irruzione nella televisione perché presi in contropiede».

Università privata non mette al sicuro. Il Premio Nobel, accompagnato da Franca Rame, ha ricordato che «siamo presenti nel movimento già da un mese e più» e, a proposito del presidio organizzato dagli studenti della Cattolica, ha concluso: «La Cattolica si è sempre mossa con i piedi di piombo. Anche nel '68 arrivò con un mese di ritardo. Ma hanno capito che la loro condizione di studenti di una Università privata non li mette al sicuro».

Cossiga folle, ma lucido. Fo è intervenuto anche sulle dichiarazioni di Cossiga a proposito di come combattere le mobilitazioni studentesche: «Quel personaggio folle che è il presidente della Repubblica in pensione Francesco Cossiga ha detto una cosa come un deficiente ma con una lucidità spaventosa».

Corteo dopo il presidio. Gli studenti hanno presidiato le uscite dell'ateneo privato milanese in attesa del passaggio del ministro dell'Economia (avvenuto da un'uscita laterale che dà su via Necchi) salutato con cori ("Tremonti non ti vogliamo") e striscioni (tra gli altri uno che recitava "tagliatevi lo stipendio non il nostro futuro" e "benvenuto mister tagli"). Al termine del presidio un piccolo corteo formato da una quarantina di persone, tra studenti dell'università Statale e ragazzi del scuole superiori, è partito dall'università e, dopo aver percorso le vie del centro, è arrivato in piazza Duomo. 


da ilmessaggero.it
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 20, 2008, 11:02:11 am »

Morte accidentale di un anarchico


Il giornalista Pierluigi Battista sul Corriere di qualche giorno fa, mi sferra un attacco a spaccagambe e lo fa in una specie di recensione a un mio testo satirico, Morte accidentale di un anarchico, appena andato in scena per la quarta volta consecutiva negli ultimi cinque anni qui in Italia, con debutto a Milano.

Gli attori, a detta della maggioranza dei critici, sono eccellenti; i registi Elio De Capitani e Ferdinando Bruni, sono riconosciuti direttori scenici di notevole talento. Visto il numero straordinario di repliche effettuate in tutta la penisola da anni, è comprensibile il continuo ripetersi degli allestimenti.

Ma l’autore della stroncatura non se n’è accorto: crede che le continue repliche siano dovute a una mia ostinazione ideologica, non al successo e al gradimento del pubblico.

A dimostrare la tendenziosità esplicita dell’articolo in questione, dove mi si presenta come difensore di un’infamia perpetratasi più di trent’anni fa e autore mancante di pietas, viene subito all’occhio un particolare davvero sconcertante: il Battista non prende in considerazione né la chiave né il tema della commedia, e tanto meno il luogo fisico dove si svolge l’azione.

Nessun recensore di qualità al mondo sarebbe incorso in un simile pacchiano errore. Ma in verità non si tratta di errore. Piuttosto si tratta di una furbizia da Brighella, giacché con questo escamotage, si evita di portare in primo piano la questione fondamentale dell’opera, cioè la tragedia di Pinelli e la morte dell’anarchico dopo un volo dal quarto piano della questura di Milano.

Il Battista, da non confondere col santo del Battesimo a Gesù, non si chiede nemmeno se l’anarchico sia precipitato ancora vivo o già privo di vita, cioè se si sia trattato di un suicidio o di un omicidio. Va da sé che il “povero” Pinelli, come lo chiama il sensibile Battista, si sarebbe dato da sé la morte prendendo una considerevole rincorsa e superando a volo d’angelo la balaustra di 90 centimetri e, in seguito a una parabola adeguata alla forza di slancio, abbia raggiunto il suolo schiantandovisi.

Il Battista mi accusa inoltre di aver cucito la pièce “con materiali inquinati dal pregiudizio e dal fanatismo politico”.
Ora, quali sarebbero i materiali inquinati di cui mi sarei servito? Eccoli: niente meno che gli atti processuali del dibattito svoltosi in aula nel Tribunale di Milano appena qualche anno dopo la strage di Piazza Fontana e la più che sospetta defenestrazione di Pinelli, accompagnati dalla documentazione e dagli atti della revisione dell’inchiesta condotta dai giudici di Milano, in particolare da D’Ambrosio.

Ogni dialogo o dichiarazione nella commedia è tratto quindi da documenti assolutamente autentici e soprattutto sconvolgenti. Come diceva Molière: “la realtà è sempre più impossibile della fantasticheria scenica”.

Tanto per cominciare, in Morte accidentale di un anarchico, già nel primo atto viene riproposta la dichiarazione del questore di Milano, Marcello Guida, che, intervistato dal telegiornale Rai, il 15 dicembre 1969, solo qualche ora dopo l’avvenuta morte di Pinelli, racconta come si sia svolto il suicidio dell’anarchico in questione. Il dottor Marcello Guida, capo superiore della Polizia, davanti alle telecamere recita la propria entrata in scena nell’ufficio dove era “trattenuto” il “povero” Pinelli, invitato amichevolmente in Questura per semplici accertamenti.

Il Guida gli si rivolge perentorio dicendo: “Il suo compagno Valpreda, or ora interrogato, ha ammesso di essere l’autore della strage della Banca dell’Agricoltura di Milano: è lui che ha messo la bomba”. Al che il Pinelli, sbiancando in viso si sarebbe levato in piedi gridando: “E’ la fine dell’anarchia!” e, montando nella disperazione, si sarebbe gettato dalla finestra.

Ora urge condurre una breve analisi. Sappiamo che Valpreda finì in carcere e subì più di un processo; dopo tre anni di detenzione i giudici lo riconobbero assolutamente innocente. Quindi il questore Guida nella sua sparata verso Pinelli aveva spudoratamente mentito: Valpreda non solo non aveva compiuto l’atto criminale, ma fin dall’inizio si era dichiarato completamente estraneo ai fatti, per ciò nella commedia si sottolinea che il questore di Milano si è servito di un’infamia per indurre il Pinelli a una crisi e fargli ammettere d’aver partecipato alla messa in atto della strage.
Non si tratta quindi solo di un espediente poliziesco ma di un vero e proprio crimine.

E ancora, quando fa esplodere l’espressione disperata in Pinelli “E’ la fine dell’anarchia!”, il signor questore lo descrive nell’atto di gettarsi immediatamente dalla finestra, dimenticandosi di due sostanziali dettagli.
Quella notte la temperatura esterna, a Milano, era sotto lo zero, solo un pazzo poteva tenere le finestre spalancate con un gelo simile. Quindi dobbiamo arguire che la finestra fosse chiusa e se la sarebbe aperta da sé solo il Pinelli; ancora, retrocedendo, l’anarchico avrebbe preso una buona rincorsa e prodotto il tuffo letale. Oppure, qualche amabile poliziotto, che casualmente si trovava presso la finestra, lo avrebbe aiutato esclamando: “Prego s’accomodi!”.

Durante il dibattito processuale il giudice chiedeva come mai nessuno dei poliziotti presenti, che per loro ammissione si ritrovavano nei pressi della finestra, non fosse intervenuto cercando di bloccare il gesto suicida del Pinelli. Due dei poliziotti, imbarazzati, non sapevano cosa rispondere, ma un terzo, il brigadiere Vito Panessa, dichiarava: “In verità io personalmente mi sono preoccupato, tant’è che ho afferrato l’anarchico quasi al volo per un piede, ma mi è sfuggito egualmente, lasciandomi però in mano la sua scarpa...”. Il giudice, dopo una veloce inchiesta, scopriva che il Pinelli sfracellato al suolo portava ai piedi ancora tutte e due le scarpe. Quindi bisognava decidere: o Pinelli era tripede o i poliziotti a loro volta mentivano.

A ‘sto punto chi di noi due, Dario Fo e Pierluigi Battista, possiede il “demone ideologico”? Io che racconto i fatti traendoli dai verbali e dagli atti processuali o il Battista che li ignora, e demonizza chi la pensa in modo diverso da quello ufficiale, che poi è il suo? E a quale altro linciaggio vado incontro se mi permetto di ricordare, che dalle immagini del servizio televisivo, a fianco del grande bugiardo statale, il Guida, si notava proprio il commissario Calabresi che ad ogni dichiarazione del suo superiore, il questore, assentiva col capo e con adeguate espressioni per niente imbarazzato!?

Di questo particolare da niente, che sottintende un’operazione volta a deviare le indagini su un massacro organizzato da forze dell’estrema destra, oggi abbiamo idee più chiare.
E questo, grazie all’inchiesta del giudice Salvini che ha indagato sui corpi dello Stato, occulti e palesi, raccogliendo una straordinaria documentazione che ci svela come il centro operativo, situato nella caserma Pastrengo di Milano, fosse in possesso perfino di aerei privati coi quali trasportare, secondo l’occorrenza, di volta in volta dalla Spagna e ritorno, la manodopera criminale con tanto di passaporto, stipendio e copertura. Manodopera che, giunta nei luoghi preordinati, metteva in atto azioni terroristiche.

Il Battista non fa alcun cenno a questa situazione da fantascienza criminale e taccia me, autore della commedia, che invece ne parlo, di mancanza di pietas. Non è che qualche volta la pietas viene confusa con l’hypocrites?

Ma il Battista, strada facendo si eccita e va giù sempre più pesante. A proposito dell’omicidio Calabresi e dal particolare che, secondo il mio modo di vedere, e non soltanto mio, gli autori del crimine siano da ricercare in tutt’altra direzione, per esempio fra le varie organizzazioni di polizia segreta di cui abbiamo accennato, così vivaci ed efficienti nel nostro Paese, il giornalista mi accusa di disegnare “con furore incomprensibile una dietrologia di seconda mano”.
Ma che vuol dire dietrologia di seconda mano? Forse si allude a un’altra di prima mano più attendibile?

Come vado sostenendo ormai da anni, il delitto Calabresi ha inizio dal momento in cui al commissario tolgono la scorta di protezione: solo dopo tre giorni mettono a punto l’omicidio. Calabresi era conscio che qualcuno si sarebbe giovato del saperlo indifeso e abbandonato, tanto che commentò: “Se qualcuno vuol colpirmi, questo è il momento giusto!”.

E chi poteva essere al corrente di quell’isolamento, se non le polizie segrete e deviate, preoccupate di mantenere il silenzio?!
E tu guarda è proprio a ‘sto punto che il Battista scodella l’accusa di dietrologia fanatica e insensata. Forse gli sfugge il numero impressionante di poliziotti, sottufficiali e ufficiali superiori che troppo sapevano e che nell’ultimo mezzo secolo sono scomparsi attraverso strani suicidi, brutali incidenti o palesemente assassinati, basta ricordarsi l’elenco dei testimoni della strage di Ustica, uomini di coraggio a cui s’è tolta la parola, ultimo addirittura un generale accoltellato a Bruxelles. * Tutti dietrologi ossessionati?

Quindi, al contrario di Battista, io personalmente sono più che convinto che Sofri e i suoi compagni condannati per quel delitto siano assolutamente innocenti e che Leonardo Marino, l’accusatore, unico testimone in forza alla polizia, sia stato letteralmente plagiato, o meglio ammaestrato, dal gruppo speciale di Carabinieri che l’ha tenuto a lezione per più di un mese. Particolare questo che è venuto alla luce soltanto dopo un anno dall’inizio del processo, grazie alla testimonianza, imprevista e imprevedibile, di un sacerdote al corrente dell’operazione di imboccamento di Marino da parte della Benemerita.

Così ecco che al processo Marino testimonia di tutta l’operazione che doveva portare all’assassinio di Calabresi. Soltanto che, ahimé, riferisce particolari che risultano spesso errati o addirittura falsi.
Per esempio il testimone si auto-accusa di due rapine realizzate con l’appoggio di tre suoi compagni di Lotta Continua che vengono prontamente arrestati. Ma i compagni, incriminati per chiamata di correo, di lì a qualche mese vengono assolti per non aver commesso il fatto, invece Marino resta dentro.

Gola profonda Marino testimonia, anzi giura, che una delle ragazze del commando sta preparando nelle valli del Canavese un poligono di tiro: ma nello stesso giorno indicato, si scopre che la ragazza si trovava ricoverata in un ospedale di Torino, intenta a partorire il suo primo bambino.
Inoltre, il testimone descrive con precisione la macchina che personalmente guidava nell’attentato: “Era beige”, assicura. Ma in verità appresso si scoprirà che era blu.

Ma dove ha rubato questa macchina? “Nei pressi delle carceri di San Vittore, lato sinistro del viale” dichiara. Errore: la macchina si trovava sul lato destro della strada. “La portiera che ho forzato – dice ancora – era a destra”. Errore: la portiera forzata era quella di sinistra.

Afferma che in macchina non c’era nulla, vuota. E invece i poliziotti ritroveranno la vettura abbandonata qualche ora dopo ingombra di oggetti, i più disparati: palle da tennis in quantità, un paio d’occhiali, un ombrello, una pipa, un cappello, una lampada a pila, delle riviste, carte geografiche di aree orientali, una radio ricetrasmittente truccata in grado di ascoltare le frequenze della polizia (aggiustamento che può essere in grado di realizzare solo un tecnico d’alta professionalità, probabilmente legato a organizzazioni militari), una scatola di fiammiferi, un impermeabile, uno specchietto retrovisore - optional - e sul tetto della macchina, ben evidente, si scopre una lunghissima antenna radio, inarcata, lunga un paio di metri, ma lui non l’ha vista. Non ha visto nemmeno tutta la mercanzia di cui era ingromba la macchina…
Ma come mai questo svarione?

È semplice, poliziotti della PS che hanno ritrovato la macchina del delitto, hanno tenuto celata la presenza di oggetti nell’interno del reperto, quindi non essendone a conoscenza i Carabinieri, come potevano essi procurare l’informazione a Marino?
Ecco il perché della scena muta davanti al giudice.

Ad ogni modo, per concludere questo frammento d’indagine, è chiaro che Marino in quella vettura non c’è mai stato, non ha mai guidato quella macchina. L’unica cosa certa è che gli assassini con quell’auto hanno compiuto il delitto Calabresi. Ma senza di lui. Lui non c’era. Lui è completamente innocente. Un innocente venduto!

Proseguendo, la macchina, secondo gli inquirenti della PS, è stata ritrovata intieramente pulita, e quindi priva di impronte. Inoltre, il proprietario della macchina, al momento di ritirare la vettura a lui rubata, si è reso conto, che le due ruote anteriori erano state sostituite con pneumatici nuovi di zecca. Roba da specialisti del crimine! Ma a queste notizie Marino cade dalle nuvole.

Il tragitto ricostruito dalla polizia in seguito alle testimonianze dei passanti sulle varie strade percorse dalla macchina in fuga dopo l’attentato, non ha niente a che vedere con quello disegnato dal Marino. Anzi, è completamente diverso. Ma gli inquirenti badano bene di non contestare l’evidente diversità… Per carità, se si cominciano ad analizzare tutti gli errori commessi e le frottole raccontate da Marino non la finiamo più!
Altro particolare interessante: grazie a varie testimonianze, alla guida della macchina, c’era una donna, bionda, e dall’aria elegante.
Non c’è traccia di lei.

Quindi, sedici anni dopo l’efferato delitto, appare Marino e gli inquirenti esclamano: “Eccolo! È lui la signora bionda, elegante!” Di certo, ne è una prova la folta capigliatura fortemente arricciata di foggia negroide che gli decora il capo!
Altro grosso particolare, meglio dire grossolano, è il fatto che Marino, scelto come autista della macchina dell’attentato, non conosce Milano, ci è stato poche volte; egli vive a Torino, sua città d’origine. Ma non importa. Importanti sono l’istinto e l’ideale!
Durante l’interrogatorio, il giudice chiede al testimone il nome e le sembianze del personaggio determinante, cioè il basista, ovvero colui che avrebbe dovuto dirigere l’intiera operazione. Marino non ricorda né nome né figura, ma qualcuno gli offre una dritta: si chiama Luigi. “Adesso mi viene in mente! – esclama il Marino – Si tratta di Luigi Bobbio!” Ma, bumpete!, non può essere lui: ha un alibi perfetto. Poi annaspa su altri nomi ma sono tutti inattendibili. Finalmente s’imbatte nell’uomo giusto: Noia, Luigi Noia. I Carabinieri accompagnano il Marino, meglio lo portano nella casa che lui dovrebbe conoscere bene, ma non se la ricorda. Il Noia viene comunque incriminato.

Gli inquirenti esultano: “Finalmente abbiamo il basista!”. Secondo la testimonianza del Marino, al tempo dei fatti, il Noia era privo di baffi e barba, sempre ben rasato. Ma il fratello del Noia, fotografo dilettante, aveva scattato una foto, esattamente nei giorni del delitto, in cui appariva il presunto basista con baffi e barba fluenti, intento a leggere un giornale. Il giornale è il “Corriere della Sera”.

Il fratello si reca allora all’archivio del Corriere; analizzando i titoli che appaiono nella foto e alcune immagini scopre che la data di quel quotidiano è esattamente il 18 maggio 1972, il giorno dopo dell’omicidio Calabresi. Quindi doveva possedere quella barba fluente anche il giorno prima, una barba del genere non ricresce in una notte, ergo non è lui. Gli inquirenti devono forzatamente riconoscere la sua innocenza. Il Noia non è il basista.
Qualcuno si è inventato tutto. Ma senza quella foto oggi il Noia sarebbe stato condannato a vent’anni di carcere con i suoi compagni di Lotta Continua. E ci starebbe ancora, forse, in carcere.

Questo ci dice della serietà di tutto quel processo, dove il perno dell’accusa ruota intorno alla figura di
Marino un personaggio che i giudici di Torino avevano dichiarato testimone assolutamente inattendibile.
In seguito a tutte queste lacune e incongruenze che mal occultano un vero e proprio complotto, nel processo d’Appello del 1993 i giudici popolari, all’unanimità si rifiutano di ritenere colpevoli del delitto i tre imputati di Lotta Continua e il loro voto è determinante per la sentenza finale: Sofri, Pietrostefani e Bompressi sono da ritenersi innocenti, quindi da liberare.

Ma qui, entra in campo l’orrenda trappola: pur di ribaltare il verdetto, i giudici della Cassazione decidono di mettere in atto la cosiddetta sentenza suicida, cioè a dire, il giudice estensore espone, nel documento finale, la cronaca del processo e le motivazioni della sentenza in modo caotico e confuso, così da rendere tutto inattendibile. A questo punto il giudice superiore è tenuto ad annullare non solo il processo, ma anche la sentenza, quindi tutto da capo e i tre di Lotta Continua tornano sul banco degli imputati. Una truffa giuridica maestrale!

Che ne dice il Battista? Si tratta o no di una sindrome di ostinazione machiavellica, anzi demoniaca, quasi criminale vissuta dentro una stagione politica tetra e asfissiante?

Ma il botto finale del censore, pardon del recensore, è la messa in campo, nel suo articolo pubblicato sul Corriere, di un personaggio davvero terrorizzante.
Renato Farina, che suggerisce l’intervento censorio del Governo nei riguardi di questa mia pièce. Ma chi è Renato Farina, che il Battista usa come ariete da sfondamento nei nostri riguardi?

È un giornalista arruolato nei servizi segreti, il SISMI, nome in codice Betulla; è stato indagato insieme a Niccolò Pollari, alto ufficiale, direttore del SISMI, per il rapimento di Abu Omar, trasportato dall’Italia in Egitto a disposizione della Cia che l’avrebbe addirittura torturato. Per questo la Procura della Repubblica, qualche mese fa, ha radiato Renato Farina dall’albo dei giornalisti! Ma lui continua a collaborare con Libero, come opinionista, Feltri lo protegge.
Bene, caro Battista, ognuno ha le conoscenze che merita!

Dario Fo

da www.dariofo.it
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« Risposta #6 inserito:: Novembre 20, 2008, 11:03:21 am »

SVEZIA: DARIO FO SARA' SUI FRANCOBOLLI




L'omaggio il  13 novembre in Svezia!

Da autore di francobolli (suo è il 550 lire sammarinese per Carlo Goldoni, inserito nella serie del 17 settembre 1993), a protagonista di un intero foglietto. E' disponibile dal 13 novembre il blocco con cui la Svezia ricorda il Nobel per la letteratura Dario Fo.

L'autore, attore e regista italiano, che per il lancio è atteso a Stoccolma, viene citato in due tagli da 11 corone, uno con il busto e l'altro con l'immagine che caratterizza il diploma, dovuta da Bo Larsson e che richiama i giullari medievali. Venne creata in vista della prestigiosa cerimonia di consegna del riconoscimento, poi svoltasi il 10 dicembre 1997. Altre tre significative espressioni di Dario Fo sono presenti sui bordi della confezione.

Nato il 24 marzo 1926, fu -ammette in un'intervista raccolta da Sweden post- collezionista di francobolli da ragazzino, senza soffermarsi su un tema preciso. “Sono stato affascinato da tutti i diversi disegni, che suscitavano la mia curiosità”. Dall'attenzione per le vignette, alla consapevolezza del valore economico. “Quando gli antifascisti fuggirono in Svizzera, non poterono portare soldi con loro, invece presero francobolli italiani da vendere per sopravvivere”. Il paese dove viveva, Sangiano (Varese), si trova sul confine. In quella situazione “ho compreso il valore dei francobolli e come siano facili da trasportare”.

By Franca Rame at 2008-11-14 00:13 | blog di Franca Rame |
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« Risposta #7 inserito:: Febbraio 25, 2009, 11:32:24 pm »

LE IDEE


Morte ai fanatici ambientalisti

di DARIO FO


PROPRIO ieri 24 febbraio il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha presentato a camere riunite il suo progetto riguardo la produzione di energia e ha specificato che la produzione sarà pulita e rinnovabile. Inoltre, ha annunciato la quota di denaro che lo Stato americano ha intenzione di stanziare a cominciare da subito. Ha aggiunto: "Il nostro primo obiettivo è quello di riuscire ad abbattere drasticamente l'inquinamento atmosferico e l'effetto serra".

Il giorno stesso, a Roma, il nostro primo ministro Berlusconi firmava un accordo per attuare nel nostro paese l'impianto di ben quattro centrali nucleari di terza generazione, e non ha assolutamente parlato dei problemi di riscaldamento globale. Segnaliamo a questo proposito che l'inquinamento della città di Milano per ben 35 giorni sui 55 dall'inizio dell'anno ha superato il livello di inquinamento atmosferico, raggiungendo i 171 microgrammi di polveri sottili, contro i 50 del limite europeo. Ma il Governo italiano e il Comune di Milano non fanno una piega.

Tornando al nucleare, Berlusconi ci dà notizia dell'avvenuto accordo sfoderando un sorriso compiaciuto. E aggiunge che finalmente si è "abbattuto il fanatismo ecologico di una parte politica che già vent'anni fa ci aveva impedito di terminare la costruzione di due nuove centrali". Quindi si torna al nucleare? Ma come, ci siamo battuti tanto, il 70% degli italiani nel referendum sulle centrali ha votato contro, e lui ci definisce in massa fanatici dell'ecologia? E specifica che quello nucleare è un metodo ormai controllabile e sicuro. Ma come sicuro? Silvio, ti sei scordato che non più tardi dell'anno scorso in Francia succedeva un disastro: dall'impianto nucleare più importante della nazione, fuoriuscivano scorie tossiche che colpivano dieci operai. "Ma, calma!" dice il ministro francese, "degli operai sono stati colpiti dalle esalazioni, è vero, ma solo leggermente". Cosa significa "leggermente"? Significa che i danni procurati alla salute di quei dipendenti sono insignificanti: gli son diventati i capelli un po' azzurri, gli occhi fluorescenti e la pelle leggermente squamata. Qualcuno ha anche le branchie, ma gli stanno bene.

Ma io mi chiedo, questo nostro presidente è disinformato naturale o ha studiato per diventarlo? Nessuno gli ha detto che, a parte il pericolo continuo di disastro tipo Chèrnobyl, per il nucleare esiste il problema delle scorie? E che noi, in Italia, per il solo fatto di aver messo in funzione un paio di centrali nucleari cinquant'anni fa, ancora oggi abbiamo scorie che non sappiamo dove sbattere? E lo stesso accade anche in Francia, Il presidente ha dichiarato che entro il 2020 da noi sarà già attiva la prima delle quattro centrali previste. Ma quel cervello incandescente di governante sa cosa costa montare una centrale nucleare? In Finlandia ne stanno costruendo giusto una di ultima generazione. Avevano previsto che sarebbe costata un miliardo di euro, ma a metà percorso si sono accorti che il miliardo previsto s'era raddoppiato, due miliardi. Ora i responsabili della centrale, gente preparata e onesta, hanno avvertito che il valore dell'energia che riusciranno a produrre con quella loro centrale non riuscirà a coprire neanche la metà dei costi di fabbricazione ed impianto. Non solo, ma che la perdita aumenterà a dismisura quando, fra una ventina d'anni, come di norma, dovranno smontare tutto l'impianto e preoccuparsi di imballare ogni elemento dentro un enorme container in cemento armato, e poi andare a sistemarlo in uno spazio scavato nella roccia a un minimo di dieci metri sotto il livello del suolo.

E il nostro presidente, sempre lui, Silvio Eta Beta, assicura che l'energia nucleare è la più economica e produce ampi vantaggi e viene smentito immediatamente da ogni scienziato onesto e informato che lo sbeffeggia: "Ma che dici, Eta? Attento a te, i reattori funzionano solo grazie all'uranio arricchito. Ora devi sapere che negli ultimi anni il prezzo di questo propellente è aumentato di addirittura sette volte, per la semplice ragione che le riserve stanno per finire; e giacché il governo italiano ha appreso che per soddisfare l'intiero bisogno della nazione si dovrebbero realizzare, sul vostro territorio, almeno sessanta centrali dell'ultima generazione, dove andate a sbattere? Vi è sfuggito il particolare che per raggiungere questo numero abbisognano almeno trent'anni, con una spesa da fantascienza? E poi c'è il guaio che proprio in ragione dell'enorme numero di centrali che ogni paese cosiddetto civile ha in programma di costruire, entro quindici anni di uranio fruibile non ce ne sarà più e allora con cosa le fai andare le sessanta centrali, con le noccioline? O col popcorn?! E poi, cervellone mio, ci spieghi in quale zona o territorio hai in mente di costruirle queste centrali? Nessuno ti ha detto che l'Italia è un paese a forte incidenza tellurica? E che dal nord al sud più profondo non c'è luogo dove sia pensabile montarci un impianto nucleare? L'unico sicuro sarebbe Roma, anzi il Vaticano è proprio il punto ideale... io insisto e firmo per una soluzione del genere.

(25 febbraio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #8 inserito:: Marzo 24, 2009, 10:59:23 pm »

«Io giullare, ho sconfitto tutti gli economisti: sotto paga, non si paga!»


di Luigina Venturelli


Il giullare ha già stracciato gli economisti in fatto di previsioni azzeccate. Dario Fo contro gli analisti finanziari di mezzo mondo: per il momento siamo sul due a zero, ma la grande crisi continua, le sue ricadute si aggravano, dunque la partita non ancora è chiusa. Conviene tenere sott’occhio il premio Nobel, unico economista sui generis ad aver dimostrato lucidità e attendibilità di giudizio su recessione e dintorni: a trentacinque anni dall’esordio, stasera torna in scena Sotto paga, non si paga! al Piccolo teatro di Milano.

Spettacolo profetico Il cronista parlerebbe di grande attualità, il filosofo ragionerebbe di corsi e ricorsi storici, il drammaturgo si arrende semplicemente alla continua competizione tra arte e vita: «Spesso la realtà copia dall’immaginazione scenica, qualche volta la supera anche».
Profezia numero uno: negli anni Settanta, nel bel mezzo dell’austerity da choc petrolifero, Dario Fo scrisse e mise in scena Non pago! Non pago!, un testo per raccontare la lotta delle massaie italiane per far quadrare i bilanci familiari nonostante i prezzi fuori controllo. Poche settimane dopo, in un supermercato milanese, la commedia divenne cronaca: «Quando debuttammo nel 1974, la storia di questa commedia appariva piuttosto surreale: raccontavamo di avvenimenti che non erano ancora accaduti, in sala il pubblico ascoltava molto perplesso e ci guardava come fossimo dei pazzi».

Il copione parlava di donne che nella periferia di Milano, andando a fare la spesa, si ritrovavano con i costi aumentati a dismisura e, furenti per l’iperinflazione, decidevano per la disobbedienza civile, pagando metà prezzo rispetto alla cifra imposta. «Il nostro racconto era pura fantasia, ma ci ispiravamo alle lamentele che sentivamo dalle donne per la strada a proposito dell’arbitrio ladresco dei commercianti. E di lì a qualche mese ci rubarono l’idea che avevamo messo in scena nella commedia».

Arte e realtà La chiave dello spettacolo si ripropose nella realtà con una similitudine impressionante: donne e uomini presero d’assalto due supermercati e pagarono la loro spesa esattamente la metà della cifra che si ritrovarono sullo scontrino. «Leggemmo sui giornali che un centinaio di donne partecipanti all’azione reale avevano addirittura ripetuto le stesse battute che Franca recitava ogni sera sulla scena. Pensammo anche di chiedere i diritti d’autore» scherza l’artista. «Poi il nostro copione fu addirittura superato in immaginazione: qualcuno andò via portandosi appresso qualche pacco di riso e qualche bottiglia senza pagare, in molti furono arrestati e il processo fu istruito in brevissimo tempo».
Ci fu addirittura un quotidiano - il Giornale Nuovo, allora diretto da Indro Montanelli ed edito da Silvio Berlusconi - che accusò l’artista di essere il vero ispiratore morale del reato: «Ad ogni modo durante il processo venne riconosciuto che i prezzi imposti dal supermercato erano delle vere e proprie rapine. Alla fine furono tutti prosciolti da ogni accusa, perché il fatto non costituiva reato. In poche parole, il tribunale stabilì che quei clienti avevano pagato il giusto valore della merce».

La crisi va in scena Profezia numero due: circa un anno fa, riflettendo sulla progressiva perdita del potere d’acquisto di lavoratori e pensionati, l’autore ha deciso di riprendere in mano quel testo e, fatti i dovuti aggiornamenti, riportarlo sulla scena. Pochi mesi dopo c’è stato il tracollo della finanza internazionale.

La commedia - al Teatro Strehler, dal 24 marzo al 5 aprile 2009 - continua a parlare di piaghe e fardelli quotidiani, sempre gli stessi, benchè aggiornati ad usi e costumi del nuovo millennio: il mutuo come emblema dei problemi economici da affrontare e la precarietà come sintesi delle dannazioni sociali da scontare. Protagonisti sono Marina Massironi e Antonio Catania nei ruoli che furono di Franca Rame e Dario Fo: la disoccupata Antonia, il marito operaio precario Giovanni, affiancati dall’amica di lei, precaria in un call center, e da un viavai di poliziotti e carabinieri che indagano sulle razzie al supermarket.

«Questa commedia nasce come un lavoro paradossale, la distruzione della logica, il cataclisma dentro il normale. Eppure per ben due volte è stata raggiunta e sorpassata dalla realtà» spiega Dario Fo. «Dopo le prime rappresentazioni della scorsa primavera, ho dovuto riscrivere parti intere, reinventarmi il finale, studiare in continuazione per non perdere il contatto con le notizie del giorno». Un lavoro mai interrotto dallo scorso settembre, da quando la frana dell’economia mondiale si è staccata dai piani alti di Wall Street ed ha iniziato il suo cammino verso valle, travolgendo migliaia di aziende e di lavoratori.

«La situazione è già cambiata rispetto a due mesi fa, a dicembre si annunciava il disastro, oggi lo stiamo vivendo sulla pelle: finora in Italia sono fallite 400 industrie, senza contare le piccole imprese di cui non abbiamo notizia, e sono milioni le persone rimaste senza posto di lavoro» lamenta il premio Nobel. «Prima gli imprenditori hanno avvisato gli operai che dovevano aspettarsi tagli in busta paga e una pioggia di licenziamenti, ora i più fortunati sono in cassa integrazione e gli altri sono in mezzo a una strada».

In effetti, uno scenario molto simile a quello del 1974, tanto simile che il drammaturgo si è sentito «obbligato dall’attualità a riportare in scena questa farsa» e sul palcoscenico ha deciso di rispolverare un vecchio classico, una gigantografia del Quarto stato di Pellizza da Volpedo ridipinta dallo stesso Fo, che ingloba i proletari di oggi.

Il governo della follia Solo una cosa è cambiata in questi trentacinque anni, una sola, ma dall’impatto devastante: «La follia del potere, l’ignoranza e l’incoscienza di chi racconta che va tutto bene, che la recessione non è tanto grave se s’impara a riderci sopra». La critica al governo è radicale, come sempre nell’analisi del premio Nobel. Ma stavolta le parole del giullare rischiano di farsi triste profezia, come quelle del matto a cui tante volte il drammaturgo ha affidato un ruolo chiave nella sua produzione teatrale: quello di dire verità scomode, che nessun bravo borghese vuole pronunciare o ascoltare.

«Prima o poi la gente potrebbe dare i numeri, potrebbe decidere di pagare la metà del prezzo al supermercato o potrebbe decidere di rubare per disperazione. Qualche dato già registra un preoccupante aumento dei furti di beni alimentari». Le menzogne di chi sta al potere non dureranno a lungo, il cielo di carta dell’ottuso ottimismo si straccerà e la gente chiederà conto dell’indifferenza ammantata da positività. «Il pericolo è che la loro follia diventi la follia del paese. Se il centrodestra continua a sragionare, presto potrebbe raccogliere quanto va seminando: la perdita della ragione, la psicosi della peste e l’assalto ai forni, per usare parole di manzoniana memoria».
lventurelli@unita.it

24 marzo 2009
da unita.it
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« Risposta #9 inserito:: Aprile 08, 2009, 12:34:27 pm »

Dario Fo per MRS

- GRAMSCI: "GLI OPERAI SONO I VERI PRODUTTORI" 

Scritto da DARIO FO     

lunedì 06 aprile 2009 
 


Oggi tutto il popolo della sinistra discute sull’esigenza assoluta di ripristinare il senso morale e riproporre, se non vogliamo assistere al totale sfascio del movimento riformista, una svolta radicale del comportamento e di tutto il nostro programma sia organizzativo che culturale. Ed è proprio in conseguenza a questo impellente cambiamento che si fa il nome di due grandi dirigenti della sinistra storica: Berlinguer e Gramsci.
Ed era tempo che ci si riferisse al loro esempio e agli insegnamenti proposti sia con lo scritto che con l’azione diretta; in particolare mi capita spesso, dialogando con studenti anche impegnati nella politica, di parlare di Gramsci e mi devo render conto che essi della vita e delle lotte affrontate da questo grande personaggio, caposaldo della nostra storia sociale e civile, sono quasi completamente all’oscuro. Un uomo di enorme valore intellettuale e morale i cui testi sulla storia degli intellettuali, le sue Lettere e i Quaderni dal carcere sono stati tradotti in tutte le lingue del pianeta e studiati in ogni università di prestigio, dimenticato.
Com'è possibile? La memoria di una vita bruciata giorno per giorno dentro le carceri e nelle isole penitenziarie, ingoiata dalla polvere dell’oblio.

...

Tanto per cominciare a Milano, capitale della regione più attiva e produttiva d’Italia, Antonio Gramsci è un estraneo, ricordato solo dai vecchi operai scaricati nella più anonima periferia mentre i giovani quasi lo ignorano, eppure varrebbe la pena almeno ricordarlo se non altro per aver fondato in questa città nel 1924 il quotidiano più famoso del Partito comunista, l’Unità. Il suo approccio intenso seppur drammatico con Milano lo realizza nel 1926, anno in cui viene arrestato a Roma e dopo una breve permanenza a Regina Cœli viene trasportato a Ustica per qualche settimana, quindi sempre nello stesso anno raggiunge Milano accolto nelle carceri di San Vittore, un penitenziario davvero monumentale a pianta centrale e struttura stellare con le celle disposte su tre piani a vista. Michel Foucault, in uno studio sulle carceri del 900, indica questa di San Vittore come una delle opere di costrizione strutturalmente più moderne. Per Antonio Gramsci è forse l’unico incontro con la cultura architettonica della metropoli lombarda. Ci rimane tre anni durante i quali imposta uno studio sui maggiori protagonisti della cultura italiana. Di qui viene tradotto nella colonia penale di Turi, presso Bari, pare per motivi di salute: evidentemente il clima e l’ambiente carcerario di Milano non gli erano molto propizi. Queste sono le uniche notizie di cui disponiamo riguardo il rapporto con la capitale lombarda.

Tutti sappiamo che Gramsci è nato in un piccolo paese della Sardegna meridionale: nel 1902 consegue la licenza elementare, quindi nel 1908 frequenta il liceo classico a Cagliari e si appassiona allo studio delle lettere, della storia e della matematica. Quest’ultimo è un particolare poco conosciuto. In un suo breve scritto dal carcere commenta questa sua “attenzione” verso la matematica (da non confondere con l’aritmetica che è altra cosa) e la abbina alla geometria analitica e proiettiva: si tratta di una scienza che costringe a scoprire la logica e a superare il concetto di "terminato", cioè concluso. In analisi logica geometrica nulla è definitivo: tutto ha un suo svolgimento che spesso capovolge il primo aspetto geometrico per cui un punto nello spazio, se appena sposti la tua posizione o meglio punto di vista, puoi renderti conto che in verità si tratta di una retta tagliata in sezione. E questo è il presupposto della logica e della dialettica.

Quasi appresso c’è un altro commento di Gramsci a proposito di geometria e matematica: si tratta del metodo davvero geniale impiegato da Eratostene di Cirene nel III a.c. per analizzare i fenomeni astronomici. Il giovane studioso greco arrivò a misurare la circonferenza della Terra servendosi di due aste di un braccio e mezzo l’una: una conficcata alla periferia di Siene, l’altra in un prato presso Alessandria. In quel momento a Siene il Sole si trovava allo zenit, quindi proiettava i propri raggi perfettamente in verticale quindi il bastone infisso non produceva ombra alcuna, mentre nello stesso giorno l’altro bastone conficcato nel prato di Alessandria produceva un’ombra di mezzo palmo. Grazie a queste due misure il giovane Eratostene riuscì a calcolare appunto la circonferenza della Terra in termini quasi esatti e perfino la distanza dalla Terra al Sole. E qui Gramsci fa notare che a chi conosce il metodo dell’analisi proiettata è sufficiente una breve asta per calcolare distanze immense o addirittura infinite.
Più tardi trovandosi egli in carcere, grazie a una lettera del novembre del 1929 alla moglie Giulia, possiamo cogliere il modo del tutto inconsueto con cui Gramsci pensa di proporre uno studio sulla “storia degli intellettuali”, quale testimonianza di un popolo e di una nazione.

Antonio Gramsci dichiara esplicitamente: "I libri, le riviste, danno solo idee generali, abbozzi di correnti non definite della vita del mondo giacché e' difficile riescano dare l’impressione immediata, diretta, viva della vita di Pietro, Paolo o Giovanni, cioè di singole persone reali, senza capire i quali non si possono neanche capire i loro comportamenti quotidiani e da cosa siano determinati e quindi di ciò che è universalizzato e generalizzato".

La città del nord Italia che ha veramente segnato la formazione umana e culturale di Gramsci non è quindi Milano, ma Torino. Egli giunse in quella città grazie a una borsa di studio che lo introduceva nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università del centro industriale più importante d’Italia. Il capoluogo piemontese in quel periodo viveva in pieno il boom economico e industriale. La Fiat e la Lancia con i loro stabilimenti hanno chiamato dal Sud più di sessantamila immigrati in cerca di lavoro.

E’ il tempo in cui gli operai organizzano imponenti lotte di fabbrica e nascono le prime associazioni sindacali; è il tempo in cui gli operai riescono a imporre la loro presenza nelle decisioni fondamentali del lavoro insieme ai rappresentanti dei padroni. In questo periodo della sua vita, Gramsci, studiando i processi produttivi nelle fabbriche, si impegna per far acquisire alla classe lavoratrice "la coscienza e l’orgoglio di produttori". Collabora con alcuni giornali quali il Grido del popolo, foglio comunista di Torino e più tardi con l’Avanti!. Scrive su argomenti di lotta e di prassi politica, ma si appassiona anche al mondo dello spettacolo fino a diventare critico teatrale. E’ uno dei primi a capire che il dividere in categorie distinte la tragedia e la commedia, la farsa e il dramma è un errore che produce un concetto del tutto conservatore se non addirittura reazionario.

“L’umorismo e il senso del grottesco - sostiene - sono espressioni di altissimo valore e solo una cultura ottusa e bassamente classista può pensare di catalogare a livelli inferiori tutto ciò che produca riso e divertimento". Anzi dichiara: "Il primo valore di un’opera teatrale è l’attenzione che sa suscitare e il divertimento è l’aggancio più efficace perché si produca l’ascolto e l’attenzione”. Sappiamo che per lungo tempo Gramsci tenne in gran considerazione il teatro e le novelle di Pirandello. Oltretutto, lo dichiara esplicitamente, la sua origine culturale nasce dallo studio di Benedetto Croce, ma questo suo modo di giudicare e considerare il valore del filosofo e del commediografo siciliano subiranno una sterzata a capovolta in conseguenza della sua terribile esperienza dentro le carceri del fascismo.

Un primo importante effetto lo acquisì presso l’isola di Ustica grazie al rapporto con i carcerati, alcuni politici, ma altri condannati per crimini comuni coi quali ebbe subito un rapporto particolare. Sapendolo colto e disponibile, i detenuti politici gli chiesero di organizzare una serie di lezioni alle quali avrebbero potuto partecipare anche i cosiddetti comuni. La richiesta di partecipazione fu superiore al previsto cosicché si decise di dividere i corsi a livelli diversi secondo il grado di preparazione degli allievi.

Gramsci ha scritto alcuni commenti a proposito di questa esperienza rendendosi conto che durante quelle sedute spesso si trovava ad apprendere più che a procurare insegnamenti. Scoprì che alcuni di quei carcerati conoscevano canti popolari della loro più antica tradizione che ripetevano forme poetiche con ritmi e cadenze che Gramsci aveva appreso studiando i novellatori medievali e del Rinascimento.
A questo proposito accenna ad una ballata che propone lo stesso andamento di doppio settenario o endecasillabo con un novenario nel mezzo dei canti prodotti nella corte di Federico II di Svevia.

Credo di aver indovinato di che strambotto si tratti: un canto in cui l’innamorato fa l’elogio della sua donna alla maniera dei poeti arabi che operavano nell’VIII secolo in Sicilia. Il cantore popolare a sua volta ci presenta la sua bella che si sta affacciando al balcone: la ragazza splende come la luna ed i suoi occhi sono due stelle della sera. Piu' o meno il canto dovrebbe essere questo:

A na fenestra se spontao la luna
intrammezza a du stidde Diana:
su tanti li baliori che me duna,
pari lu lampu de la tramontana.

Cioè:

A una finestra è spuntata la luna
con intrammezzo due stelle Diana:
son tali i bagliori che mi dona,
pare il lampo della tramontana.

Gramsci a questo proposito ricorda la definizione di Benedetto Croce davanti ai canti popolari: “Si tratta - dichiara il filologo - di ripetizioni meccaniche di poemi della cultura superiore e - ribadisce - la cultura dominante è sempre espressione della classe dominante”. Ma ecco che Gramsci si rende conto forse per la prima volta che questa definizione è del tutto falsa giacché quel canto in volgare siculo certamente è di origine più antica delle ballate prodotte dai poeti di corte di Federico imperatore e quindi anche la metrica e i ritmi espressi dal popolo nascono qualche secolo prima di quelli che ritroviamo sui libri di testo della poesia aulica del Duecento, testi che ci hanno sempre insegnato essere all’origine della poesia italica.
Ma l’emozione più alta Gramsci la prova assistendo sempre ad Ustica, forse nell’ora d’aria, quindi nel campo interno al carcere, ad un’esibizione di due carcerati originari delle valli montane della Calabria, molto probabilmente dediti alla pastorizia. Essi armati ciascuno di un bastone si producono in un duello feroce e nello stesso tempo di un’eleganza straordinaria: più che lottare con l’intento di colpirsi, i due contendenti si producono in danze fatte di scatti agilissimi nei quali fanno roteare i bastoni cozzando l’un contro l’altro i legni a velocità inaudita. Muovono rovesciando il corpo e passando i bastoni da una all’altra mano compiendo vere giravolte con le quali sfuggono a botti tremendi seguiti da grida secche e cantate quasi a sfottò.
Egli commenta: “Non era di certo quella un’esibizione fine a se stessa: la bravura dei due contendenti non era tanto espressa dal tentativo di colpire duramente l’avversario, quanto piuttosto quello di riuscire non colpirsi l’un l’altro dando al contrario l’impressione di volersi massacrare a vicenda. Ad un certo punto ho intuito che quella pantomima era parte di un rito molto antico prodotto con lo scopo di allenamento ad un conflitto vero dove il nemico non era solo da considerarsi un essere umano, ma poteva tradursi in orso o lupo o addirittura in branco di lupi. Quel roteare vorticoso del bastone e quello sfuggire con salti e affondi rovesciati era certo il prodotto di un agire per cercare di sopravvivere ad attacchi di morte”.
Tutto il popolo di sinistra è di certo a conoscenza delle diatribe e dei conflitti che allontanarono definitivamente Palmiro Togliatti da Gramsci ed è quindi quasi paradossale scoprire che il primo a credere nel valore universale delle opere del più importante intellettuale del Partito comunista si sia rivelato proprio Togliatti. Egli mirava a fare di questo suo antagonista il teorico di una "riforma intellettuale e morale" in continuità con il Risorgimento. Il punto massimo dell’assurdo di questa operazione sta nel fatto che Togliatti intendesse realizzare un’azione di politica culturale “finalizzata ad attenuare la vocazione proletaria del Pci” e per far questo aveva pensato di servirsi del maggior sostenitore del valore inarrivabile della cultura popolare.
Un paradosso, appunto, giacché è risaputo che il contenzioso che determinò l’irrisolvibile diverbio furono proprio le idee “costituzionali” di Gramsci - il suo cosiddetto “comunismo liberale” -, ritenute fortemente eretiche in quanto oltretutto in contrasto con la linea cosiddetta del “social-fascismo” imposta da Mosca, e fu proprio quella drastica censura a produrre quell’isolamento in carcere che gli causò la fine d’ogni contatto umano: una situazione che lo portò alla più dolorosa delle condizioni. "Potevo preventivare i colpi degli avversari che combattevo - scrive in una lettera alla cognata Tania nel 1930 - non potevo preventivare che dei colpi mi sarebbero arrivati anche da altre parti, da dove meno potevo aspettarli".
Ad ingigantire questa situazione giunge in carcere una serie di lettere inviate a tutti i detenuti politici in attesa di processo: in queste missive a firma di Ruggero Greco, lo scrivente compie una gaffe madornale poiché indica Gramsci, Terracini e Scoccimarro come i massimi capi del partito. Insomma, si tratta di una autentica delazione, uno sgambetto mortale. Gramsci si sente tradito, messo con le spalle al muro. Di certo è un tale colpo basso che gli crea una vera e propria débacle fisica e morale: la sua salute peggiora a vista d’occhio.
Inoltre possiamo ben dire che questa trappola infame allontanò per sempre Gramsci dal partito, proprio lui che con tanta forza aveva lottato per farlo nascere.

DARIO FO
da radicalsocialismo.it
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« Risposta #10 inserito:: Aprile 13, 2009, 09:34:58 am »

La statua vivente multata a Milano

Dario Fo: "Pagherò io quei 100 euro"


Il mimo aveva cominciato a lavorare in anticipo e a qualche metro dalla porzione di strada assegnata dal Comune (il giovane voleva ripararsi dal sole).

I passanti avevano contestato la decisione dei vigili protestando vivacemente


di Franco Vanni
 
Dario Fo si farà carico dei 100 euro di multa dati dai vigili a un mimo in corso Vittorio Emanuele a Milano.

La statua vivente è un ragazzo romeno di 19 anni con regolare permesso da artista di strada. «Il fatto che il giovane sia stato multato - dice il premio Nobel - è indegno di una società democratica e dimostra in modo esemplare l’ottusità di questa amministrazione comunale».

Al giovane gli agenti hanno contestato il fatto di avere cominciato a lavorare mezz’ora prima dell’orario consentito. Inoltre, il mimo si trovava a qualche metro di distanza dalla postazione che il Comune gli ha assegnato: si era spostato per evitare di stare sotto il sole.

«Al mimo va tutta la mia solidarietà - aggiunge Fo - Il rispetto delle regole è fondamentale, ma in questo caso si va molto oltre. Ho viaggiato per tutta Europa e non mi è mai capitato di vedere o sentire nulla del genere.

Hanno fatto bene i milanesi a difendere il giovane contro quella che è stata una vera ingiustizia».


(12 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Maggio 02, 2009, 11:28:52 am »

SPETTACOLI & CULTURA     

Il Nobel ha scritto un ricordo del comico di cui esce un libro+dvd con gli sketch migliori
 
Nella sua comicità c'è la miseria, la fame, Napoli e la cattiveria che non edulcora il mondo

L'Arlecchino del Novecento con lui la vittima diventa re

di DARIO FO



 Ci eravamo conosciuti Totò ed io di persona. Era l'inizio degli anni Cinquanta, sessant'anni fa. Io ero un ragazzo. Ero Torino con Il dito nell'occhio che stava riscuotendo un notevole successo all'Alfieri. Lui venne a vedere lo spettacolo con il suo manager e subito dopo volle conoscere me, Franca, Giustino Durano, Franco Parenti... Rimase in piedi per un lungo tempo prima di parlare. Non avrei mai pensato che quel comico tanto scatenato sul palcoscenico, fosse così timido e riservato nella vita. "Complimenti" ricordo che ci disse" avete fatto una gran bella cosa". "È anche grazie a lei", rispondemmo noi. "Abbiamo sempre presente il suo lavoro di comico". E lui: "Io sono il passato. Voi siete il domani. Anzi il dopodomani. State attenti a non farvi raggiungere, bisogna stare sempre un passo avanti".

Che lezione! Parte da qui il mio Totò, di cui il nuovo cofanetto Einaudi ci mostra una ricca selezione di scene e di bravura. Io credo che se fosse vissuto oggi, Totò ci avrebbe divertito con qualche farsa su Berlusconi, perché era come Molière: amava le situazioni in cui il comico scimmiottava il personaggio centrale e da mortificato diventava mortificatore. L'esempio è la famosa scena dello scompartimento del treno in cui Totò deve contendersi la cuccetta con l'onorevole Trombetta: prima lo blandisce, poi lo ridicolizza, gli fa il verso, gli starnutisce perfino addosso, butta le sue valigie giù dal finestrino, finendo per avere la meglio. Oppure quell'altra scena in cui fa il ciabattino.

Il cliente lo maltratta, lui comincia a battere sulla scarpa da risuolare, accelerando il ritmo in maniera esagerata, terribile. Tutti gli inquilini delle case intorno si affacciano imprecando ma Totò accelera ancora il ritmo e sferra l'ultima mazzata sulla scarpa infilata nel piede del boss del rione. A quel punto: urlo e applausi del vicinato.

La costante scenica è che Totò è la vittima che riesce a ribaltare la situazione. C'è qualcosa di ribelle nella sua maschera. Questo perché all'origine della sua comicità c'è la miseria, la fame, il dolore, il tradimento, la guerra. C'è la tragedia. C'è Napoli. Io ho sempre pensato che il modello di Totò fosse Raffaele Viviani, a mio avviso il più grande teatrante del Novecento: a lui Totò si è ispirato per il mamo, il mimo di spalla che non capisce, si confonde e viene bastonato ma fa di tutto per apparire scaltro. Come Arlecchino. Totò è infatti l'Arlecchino del Novecento.

Una maschera. Totò può interpretare personaggi diversi, ma ci si ricorda solo di lui. Perché Totò è la vera maschera. La maschera non è travestimento, né nasconde l'attore. Lo svela. È la sintesi magica, non di un personaggio, ma di un mito. E infatti Totò che faccia l'arabo o il gangster Totò Le Moko, il povero o il ricco è sempre se stesso.

E come le maschere, anche quella di Totò è asessuata. Non c'è mai in lui un atto di erotismo smaccato, né allusioni esplicite alla sessualità. E dirò di più, Totò non arriva mai all'osceno. La maschera Totò è, invece, spietata. In certi film fa cose cattivissime, al limite del crudele, come quando interpreta il chirurgo che con la faccia sadica esegue interventi macabri. Totò non possiede pietà, nè si fa scrupolo di montare sulla testa di disgraziati come lui.

Ma questa è la grande differenza che lo distingue da altri comici del mondo. In Totò non c'è mai la favoletta ed è una delle ragioni per cui anche i ragazzini lo amano. In lui c'è sempre il crudele, il dramma, lo ha capito bene, negli ultimi film, quel grande autore che era Pasolini che lo chiamò per La terra vista dalla luna e Uccellacci e Uccellini dove Totò appariva sublime non solo nella celebre camminata da marionetta ma anche nel dialogo con il corvo. Una scena di altissimo livello. Che imbecilli i critici cinematografici, i quali, lui in vita, lo snobbavano. Non avevano capito che lui non edulcora la violenza del mondo, non dipinge un mondo di sogno. Non avevano capito che, in certi momenti, Totò era perfino più avanti di Charlot .

(6 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #12 inserito:: Giugno 14, 2011, 11:03:14 pm »

E il popolino disse: «Caro Re alle tue balle non crediamo più»

di Dario Fo

Cosa succede?

E' il 2 giugno, Festa della Repubblica e Giorgio Napolitano, il nostro Capo dello Stato, ha dato una gran festa. Ci sono fra gli invitati Ministri e Presidenti venuti da molti paesi del mondo, ci stanno anche capi di governo arabi abbigliati come raja` e perfino qualche Re.

Fra tutti quegli uomini di potere si intravvede anche il nostro Berlusconi che vaga fra quella folla spaesato, stordito: con i risultati di queste ultime elezioni ha proprio preso una botta pesante! Ogni tanto si ferma come imbesuito. Ma ecco che all’istante Silvio spalanca gli occhi: ha scoperto seduto fra i notabili il Re di Spagna. «Oh, quello e` mio!». Subito lo raggiunge, gli si siede vicino, lo agguanta ad un braccio e lo scuote come si fa con un vecchio amico. «Ma che fa? E` fuori dal protocollo!» esclama indignato qualcuno. «Non si toccano i Re. E neanche le Regine!».

Napolitano, che sta accanto all’importuno, gli fa cenno di non insistere con quel gesto confidenziale: «E` un insulto all’etichetta!».
Lui non capisce subito. Poi s’allontana. Qualcuno sta avvertendo i presenti che fra poco ci sara` la cerimonia davanti al Milite Ignoto.
C’e` una gran folla che applaude fe-stosa Napolitano. Adesso tocca anche a lui, a Berlusconi, godersi il tripudio della gente.
Ma il Presidente del Consiglio ottiene solo un modesto battimani seguito da qualche fischio e due pernacchi. Poi esplodono in coro molte grida di rifiuto tipo «vattene! Non c’e` festa per te!».

Silvio si guarda intorno incredulo: «Ma con chi ce l’hanno? Ma perche´ invitano i comunisti?». Anche una suora sollevando le braccia lo dileggia. «Sara` un travestito!». Berlusconi si fa da parte e cerca di nascondersi dietro due imponenti corazzieri. Ma questi con calma si scostano e lo rifanno apparire imbranato come si trova. Il piccol’uomo e` frastornato: «Ma cosa sta succedendo?». All’istante, come in un refrain grottesco si ricorda di qualche sbragata commessa qualche giorno fa durante i soliti interventi televisivi prima del fatidico voto: «Si`, E` vero... ho gridato: questa non e` una normale consultazione amministrativa, ma politica! O Silvio o il caos! La gente viene a votare, per me e sara` come in una ovazione, un tripudio! Potrete sfottermi a pernacchi se il mio gradimento non sara` doppio rispetto a quello che ho guadagnato l’ultima volta! Per Dio! E invece guarda tu che catastrofe! Nelle ultime elezioni ha sempre funzionato ‘sto trucco del terrore! Ma stavolta che e` successo? Dove ho toppato? Non ho fatto altro che ripetere il bau bau dell’apocalisse delle invasioni barbariche, come sempre. Attenti gente! Se vincono i rossi vedrete straripare da ogni lato i rom, gli zingari che vi ruberanno i bambini. E appariranno musulmani a frotte. Spunteranno enormi moschee e torri con i muezzin che urlano incitando alla guerra santa. A sto punto m’aspettavo che questi miei sudditi allocchiti abboccassero in massa e si precipitassero ai seggi elettorali gridando: «Alle urne! Alle urne! Fermiamo gli invasori!». E invece per tutta risposta mi han gridato: «Piantala, bugiardaccio! Non ci freghi piu` con ‘ste panzane! E anzi sai cosa c’e` di nuovo... che per te non andremo piu` a votare, piuttosto daremo la nostra preferenza agli estremisti, tie`».

«Ma perche`? Che ho fatto?» «O niente, ci hai solo promesso bu- fale infinite! Faro` questo e quello! Basta con le tasse! In galera gli evasori e i politici corrotti! Dimezzero` gli stipendi a Ministri, Sottosegretari, Senatori e Manager! Daro` lavoro a tutti i meritevoli! Scuole ai giovani! Sistemazioni ai disperati! Pensioni dignitose! E questa solfa ce l’hai cantata per un sacco di volte e noi come pecore allocchite «Grazie Silvio! Come sei buono tu! Tu con noi sei come il Buon Pastore! Tu ci tieni nel gregge al calduccio, ci coccoli!
Ci fai tosare di dosso la lana! Ci sgozzi i piccoli per farne abbacchi succulenti! Ci assicuri che ci proteggerai dai lupi», ma poi scopriamo che quelli son parenti tuoi e tuoi amici coi quali fai a mezzo del bottino! Ma sai che succede? Che da tosati si resta nudi e ci si accorge della fregatura! Cosi` accade che dai e dai le pecore allocchite si svegliano e dicono: «Ma Vaffanculo!».

«Oh pecore triviali!» «Eh si`, quando ce vo`, ce vo`! Ma non e` finita, caro tirabidoni!», urlano dal gregge. «Il bello, t’accorgerai, arrivera` proprio adesso che si va a votare per i quattro referendum!» «No, non son quattro, son solo tre, perche´ ho richiesto alla Consulta che venga dichiarata nulla la sentenza della Cassazione!» «Eccolo li`, un altro dei tuoi trucchi!» «Il referendum sul nucleare non conta nulla?»
«E invece contera` eccome, insieme a quello dell’acqua e sul legittimo impedimento!»

«Ma illusi cari! Non ce la farete mai col quorum! Quella diga sara` come una montagna contro la quale andrete a sbattere tutti!»
«No! Hai fatto male i conti! Hai sbagliato a farci arrabbiare! Guai a far incazzar le pecore e i montoni imbesuiti! Diventiamo delle bestie! Ti faremo franare tutto addosso, compresi tutti i tuoi tirapiedi, i servi e i ruffiani!» «E no, cazzo!» «Ecco questa imprecazione la puoi anche urlare! E` l’ultimo diritto che rimane al Principe abbattuto!».

6 giugno 2011
da - unita.it/italia/e-il-popolino-disse-caro-re-br-alle-tue-balle-non-crediamo-piu-1.300979
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« Risposta #13 inserito:: Settembre 10, 2011, 09:33:23 am »

L'INTERVISTA

Dario Fo: "Povero sindaco Pisapia E' assediato dalla vecchia politica"

Il bilancio del premio Nobel a 100 giorni dall'insediamento. "La cultura del Pd è sempre quella"

E su Penati: "Non è certo un caso che fosse il braccio destro di Bersani. Era lui a consigliare"

di RODOLFO SALA

Giuliano Pisapia è sindaco da cento giorni, e Dario Fo, suo grande sostenitore, adesso un po’ lo compiange: «Non vorrei essere al suo posto».

Perché?
«Deve tirare calci come un cavallo imbizzarrito per scacciare la gramigna che gli sta attorno».

Gramigna, erba infestante. Forse è il caso di spiegare la metafora botanica.
«Giuliano è stato capace di suscitare un movimento straordinario, e ha vinto perché ha saputo dare un taglio netto a un certo modo di fare politica tipico della sinistra, anzi del Pci milanese. Gli è andata — ci è andata — bene perché la cultura del Pd è rimasta sostanzialmente quella. E non parlo solo della vicenda Penati».

E allora andiamo con ordine: di quale cultura politica parla?
«Prima degli aspetti giudiziari, che contano eccome, bisogna considerare quello che è successo alle primarie del centrosinistra».

E cioè?
«Si è ripetuto lo schema del 2006, quando mi candidai alle primarie: stessa logica di potere, il partito che cerca di imporre il proprio uomo in una competizione che invece dev’essere il più possibile libera. Certo, Boeri era meglio del questurino Ferrante. Aggiungo anche che non faccio accostamenti tra lui e Penati. Ma la logica è stata quella».

Ecco, veniamo al caso Penati.
«Pisapia si è
trovato a gestire una situazione in cui un uomo politico indicato come poco onesto gli è stato messo vicino. Anche se di lato: anzi, contro. Questo non è certo bello».

E secondo lei come si è comportato il sindaco?
«L’ho detto: ha scalciato. Insomma, ha deciso di non farsi tirare dentro in quello che io chiamo il mercato dei gestori economici della Lombardia, cercando di farla finita con un andazzo che a Milano ha una storia tragica. Quella della commistione tra una certa sinistra e il potere. Con grossi speculatori che hanno fatto scempio della città, comprandosi i terreni e costruendo grattacieli. C’è da diventar matti».

In che senso?
«Giuliano vince contro queste persone, ma poi qualcuna se la ritrova dentro».

Non crede che occorra distinguere?
«Non sto dicendo che tutto il Pd è Filippo Penati. Resta il fatto che questo partito, almeno alle primarie, ha fatto una campagna contro Pisapia. Che poi ha vinto, facendo diventare vincitore anche il Pd. Un Pd che tuttavia non si accontenta di aver contribuito alla vittoria: continua a fare la sua politica».

Tornando a Penati?
«Non è certo un caso che fosse il braccio destro di Pier Luigi Bersani. Era lui a consigliare, contribuiva a dare la linea. Questo per dire che la logica degli affari andava avanti».

Nel merito, come giudica i primi cento giorni di Pisapia?
«Ultimamente sono stato lontano da Milano, prima di rispondere voglio documentarmi, e soprattutto parlare con lui».

Ma secondo lei il "vento nuovo" della primavera milanese soffia ancora?
«Io lo spero. Ma è dura, quando sei continuamente messo di mezzo da certi personaggi e da una certa politica. Lui non c’entra niente, ma deve fare un lavoro della madonna per buttare alle spalle logiche e comportamenti che perpetuano vecchi schemi».

Insomma, bisogna salvare il soldato Giuliano?
«Confido sia capace di salvarsi da solo. Ma, ripeto, è dura, se il panorama è questo. Prenda D’Alema, che ha brigato per avere un titolo onorifico dal Vaticano. Poi va in tv, e quelli gli chiedono anche che cosa pensi della situazione politica... Uno così dovrebbe essere solo sbeffeggiato, e invece nel Pd conta ancora moltissimo».

(10 settembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://milano.repubblica.it/cronaca/2011/09/10/news/dario_fo_povero_sindaco_pisapia_e_assediato_dalla_vecchia_politica-21453994/?ref=HREC1-4
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« Risposta #14 inserito:: Marzo 07, 2013, 05:15:34 pm »

Dario Fo: "Governo di personalità. Via i marpioni dei partiti"

Intervista al premio Nobel, che fa i nomi di Rodotà, Settis, Hack.

Quella pantomima che sta accadendo è una pre-battaglia.

Grillo sa che c'è una massa di persone che hanno l'abitudine del basso gioco politico, della corruzione


di FABRIZIO RAVELLI


MILANO - Dario Fo, dopo le elezioni in Italia siamo sull'orlo di un disastro o questa è l'alba di un nuovo giorno?
"Il disastro è lì fermo, purtroppo con l'urgenza di risolvere le cose. Però quella pantomima che sta accadendo - facciamo il governo, no aspettiamo, facciamo quello tecnico, aspettiamo, no fatelo voi - è una pre-battaglia".

E quando si farà questa battaglia?
"Magari non la si farà neanche, se si arriva a capire che non si può più farla con le strutture normali della politica, coi partiti come è andata avanti fino a ora. Caspita, avevano da fare quattro leggi importanti e le hanno tenute bloccate per anni, e le hanno buttate a monte con i rimandi".

Quindi la responsabilità dei partiti è stata non solo quella di non rappresentare, ma di non ascoltare.
"Vedi il Pd: dov'è che ha preso la grande legnata? In Val di Susa il Movimento 5Stelle ha preso fino al 45 per cento. E al Sud è uguale: dove c'è stata una disattenzione, chiamiamola così, davanti alla distruzione del territorio, e si è lasciato correre".

Quindi nella situazione attuale prevale la speranza e non lo spavento?
"Per me sì. Ma in tutti questi posti d'Italia durante la campagna elettorale si lamentavano: non abbiamo visto nessuno. In una situazione folle nessuno è venuto a farci un discorso, soltanto
Grillo. La Sicilia, la Sardegna dei minatori, Taranto. A questa gente non ha dato solo una speranza: gli ha fatto capire che fa sul serio".

Grillo lei l'avrà sentito. Dopo questo successo non sarà anche un po' preoccupato?
"Ovvio, ma lo era anche prima. La sua battuta è stata: oddio, che cosa ci sta capitando. Mica aveva bisogno di fare i sondaggi. Arrivava in una piazza dove per anni al massimo s'erano viste 50 mila persone, e ce n'erano 200 mila".

Lei ha detto in questi giorni che il M5S ora deve anche prendersi qualche responsabilità per mettere insieme un governo.
"Certo, e Grillo se le prende. Tant'è vero che la prima discussione che hanno avuto è stata sul che fare, a proposito del governo. Ma quello che hanno avuto subito chiaro è che loro, i partiti, stanno giocando alla solita manfrina atavica. Cioé tentare, fare le solite promesse, tirarsi indietro, disdire, mettersi d'accordo. E tutto non alla luce del sole".

Bersani ha detto: io andrò a proporre queste cose, e le ha elencate.
"Certo, ma la vedi la gente di Bersani, e la gente che c'è in cima alla nomenklatura? Tutt'intorno, i più grossi marpioni del partito. Tutti quelli che hanno fallito, che hanno fatto proposte che sono andate a monte, che si sono ritirati e poi ritornano. Guardali, tutti in fila come falchetti sui fili della luce".

Quindi lei dice: si può discutere delle proposte di Bersani, ma il problema sono quelli che gli stanno intorno.
"Ma nemmeno lui è credibile. Chi è che ha deciso di dare agli americani la nuova base del Dal Molin a Vicenza? Un'intera popolazione contro, e dov'erano quelli del Pd? Dall'altra parte, a dire ormai abbiamo firmato e non ci tira indietro nessuno. Ma come, tu hai una popolazione intera che era di destra cattolica, e ti elegge addirittura un sindaco Pd, e li tratti come degli ignoranti che non sanno niente, che guardano alle loro piccole cose".

E dunque come si esce in Parlamento da questa situazione?
"Si esce con questa proposta. Trovare una persona, e ce ne sono tante, che è magari di sinistra per carità, ma che non è dentro al gioco dei partiti, che s'è schifata a sua volta".

Per esempio chi?
"Ma ce n'è tanti. Si parla di Rodotà. E poi c'è Settis, una scienziata come Margherita Hack, o Carlin Petrini. Ci sono centinaia di uomini che hanno senso dell'organizzazione, scienza, credibilità. Tu li metti lì, e formi un gruppo di tecnici, che non si possono chiamare tecnici perché non vivono soltanto sul prodotto della sapienza ma hanno una coscienza civica. Si fa un governo di questo genere, di personalità, e si va via come dei treni. Senza uomini dei partiti".

Ha visto la prima riunione dei nuovi parlamentari di M5S?
"Sì, ce n'erano alcuni molto giovani e molto svegli, belli puliti, chiari. Tutti quanti avevano un'aria piacevole che ti dava fiducia. Pensa rispetto agli altri: sono stato molte volte ad accompagnare Franca in Senato, madonna che personaggi c'erano. Questi hanno freschezza, naturalmente avranno dei limiti. Ma io sono stato alle loro riunioni, li ho sentiti parlare, e qualcuno mi ha impressionato per la preparazione".

Colpisce una cosa. Molti di loro hanno una competenza specifica, concreta. Il movimento invece, soprattutto in Casaleggio e Grillo, sembra avere una componente messianica. Non c'è un contrasto?
"No, guarda quel libro che ho scritto con loro, "Il grillo canta sempre al tramonto", che sta diventando una specie di vademecum del movimento, e dove si parla di argomenti che normalmente vengono taciuti, anche da gente del movimento. A qualcuno magari hanno dato fastidio certe stronzate che ha detto Grillo, e che poi si è rimangiato. Come a proposito di immigrati, che sono qui da moltissimi anni, e lui non era d'accordo che divenissero cittadini italiani. Ma nel libro c'è, a proposito, una dichiarazione mia, che è stata accettata senza drammi".

E Grillo adesso ha paura che questi nuovi parlamentari a Roma sbandino, che vengano contaminati.
"Sanno che c'è una massa di persone che hanno l'abitudine del basso gioco politico, della corruzione, delle prebende, dei posti di potere. Danno 3 milioni a uno come De Gregorio per farlo passare dall'altra parte. E Scilipoti, e gli altri. È normale, la corruzione è normale".

Lei dice: corruzione imperante, giusto che Grillo si preoccupi.
"Ma certo. Siamo nella merda fino al collo, e c'è chi dice: guarda Grillo come è prepotente. Quanti si sono salvati dalla corruzione in Italia? Prima si incazzano perché Grillo fa del sarcasmo, e urla. E quando fa una cosa seria, per mettere al riparo gli eletti del suo gruppo, allora si incazzano".

(07 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/07/news/intervista_dario_fo-54018557/?ref=HREC1-2
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