Dario FO. -

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Morte accidentale di un anarchico


Il giornalista Pierluigi Battista sul Corriere di qualche giorno fa, mi sferra un attacco a spaccagambe e lo fa in una specie di recensione a un mio testo satirico, Morte accidentale di un anarchico, appena andato in scena per la quarta volta consecutiva negli ultimi cinque anni qui in Italia, con debutto a Milano.

Gli attori, a detta della maggioranza dei critici, sono eccellenti; i registi Elio De Capitani e Ferdinando Bruni, sono riconosciuti direttori scenici di notevole talento. Visto il numero straordinario di repliche effettuate in tutta la penisola da anni, è comprensibile il continuo ripetersi degli allestimenti.

Ma l’autore della stroncatura non se n’è accorto: crede che le continue repliche siano dovute a una mia ostinazione ideologica, non al successo e al gradimento del pubblico.

A dimostrare la tendenziosità esplicita dell’articolo in questione, dove mi si presenta come difensore di un’infamia perpetratasi più di trent’anni fa e autore mancante di pietas, viene subito all’occhio un particolare davvero sconcertante: il Battista non prende in considerazione né la chiave né il tema della commedia, e tanto meno il luogo fisico dove si svolge l’azione.

Nessun recensore di qualità al mondo sarebbe incorso in un simile pacchiano errore. Ma in verità non si tratta di errore. Piuttosto si tratta di una furbizia da Brighella, giacché con questo escamotage, si evita di portare in primo piano la questione fondamentale dell’opera, cioè la tragedia di Pinelli e la morte dell’anarchico dopo un volo dal quarto piano della questura di Milano.

Il Battista, da non confondere col santo del Battesimo a Gesù, non si chiede nemmeno se l’anarchico sia precipitato ancora vivo o già privo di vita, cioè se si sia trattato di un suicidio o di un omicidio. Va da sé che il “povero” Pinelli, come lo chiama il sensibile Battista, si sarebbe dato da sé la morte prendendo una considerevole rincorsa e superando a volo d’angelo la balaustra di 90 centimetri e, in seguito a una parabola adeguata alla forza di slancio, abbia raggiunto il suolo schiantandovisi.

Il Battista mi accusa inoltre di aver cucito la pièce “con materiali inquinati dal pregiudizio e dal fanatismo politico”.
Ora, quali sarebbero i materiali inquinati di cui mi sarei servito? Eccoli: niente meno che gli atti processuali del dibattito svoltosi in aula nel Tribunale di Milano appena qualche anno dopo la strage di Piazza Fontana e la più che sospetta defenestrazione di Pinelli, accompagnati dalla documentazione e dagli atti della revisione dell’inchiesta condotta dai giudici di Milano, in particolare da D’Ambrosio.

Ogni dialogo o dichiarazione nella commedia è tratto quindi da documenti assolutamente autentici e soprattutto sconvolgenti. Come diceva Molière: “la realtà è sempre più impossibile della fantasticheria scenica”.

Tanto per cominciare, in Morte accidentale di un anarchico, già nel primo atto viene riproposta la dichiarazione del questore di Milano, Marcello Guida, che, intervistato dal telegiornale Rai, il 15 dicembre 1969, solo qualche ora dopo l’avvenuta morte di Pinelli, racconta come si sia svolto il suicidio dell’anarchico in questione. Il dottor Marcello Guida, capo superiore della Polizia, davanti alle telecamere recita la propria entrata in scena nell’ufficio dove era “trattenuto” il “povero” Pinelli, invitato amichevolmente in Questura per semplici accertamenti.

Il Guida gli si rivolge perentorio dicendo: “Il suo compagno Valpreda, or ora interrogato, ha ammesso di essere l’autore della strage della Banca dell’Agricoltura di Milano: è lui che ha messo la bomba”. Al che il Pinelli, sbiancando in viso si sarebbe levato in piedi gridando: “E’ la fine dell’anarchia!” e, montando nella disperazione, si sarebbe gettato dalla finestra.

Ora urge condurre una breve analisi. Sappiamo che Valpreda finì in carcere e subì più di un processo; dopo tre anni di detenzione i giudici lo riconobbero assolutamente innocente. Quindi il questore Guida nella sua sparata verso Pinelli aveva spudoratamente mentito: Valpreda non solo non aveva compiuto l’atto criminale, ma fin dall’inizio si era dichiarato completamente estraneo ai fatti, per ciò nella commedia si sottolinea che il questore di Milano si è servito di un’infamia per indurre il Pinelli a una crisi e fargli ammettere d’aver partecipato alla messa in atto della strage.
Non si tratta quindi solo di un espediente poliziesco ma di un vero e proprio crimine.

E ancora, quando fa esplodere l’espressione disperata in Pinelli “E’ la fine dell’anarchia!”, il signor questore lo descrive nell’atto di gettarsi immediatamente dalla finestra, dimenticandosi di due sostanziali dettagli.
Quella notte la temperatura esterna, a Milano, era sotto lo zero, solo un pazzo poteva tenere le finestre spalancate con un gelo simile. Quindi dobbiamo arguire che la finestra fosse chiusa e se la sarebbe aperta da sé solo il Pinelli; ancora, retrocedendo, l’anarchico avrebbe preso una buona rincorsa e prodotto il tuffo letale. Oppure, qualche amabile poliziotto, che casualmente si trovava presso la finestra, lo avrebbe aiutato esclamando: “Prego s’accomodi!”.

Durante il dibattito processuale il giudice chiedeva come mai nessuno dei poliziotti presenti, che per loro ammissione si ritrovavano nei pressi della finestra, non fosse intervenuto cercando di bloccare il gesto suicida del Pinelli. Due dei poliziotti, imbarazzati, non sapevano cosa rispondere, ma un terzo, il brigadiere Vito Panessa, dichiarava: “In verità io personalmente mi sono preoccupato, tant’è che ho afferrato l’anarchico quasi al volo per un piede, ma mi è sfuggito egualmente, lasciandomi però in mano la sua scarpa...”. Il giudice, dopo una veloce inchiesta, scopriva che il Pinelli sfracellato al suolo portava ai piedi ancora tutte e due le scarpe. Quindi bisognava decidere: o Pinelli era tripede o i poliziotti a loro volta mentivano.

A ‘sto punto chi di noi due, Dario Fo e Pierluigi Battista, possiede il “demone ideologico”? Io che racconto i fatti traendoli dai verbali e dagli atti processuali o il Battista che li ignora, e demonizza chi la pensa in modo diverso da quello ufficiale, che poi è il suo? E a quale altro linciaggio vado incontro se mi permetto di ricordare, che dalle immagini del servizio televisivo, a fianco del grande bugiardo statale, il Guida, si notava proprio il commissario Calabresi che ad ogni dichiarazione del suo superiore, il questore, assentiva col capo e con adeguate espressioni per niente imbarazzato!?

Di questo particolare da niente, che sottintende un’operazione volta a deviare le indagini su un massacro organizzato da forze dell’estrema destra, oggi abbiamo idee più chiare.
E questo, grazie all’inchiesta del giudice Salvini che ha indagato sui corpi dello Stato, occulti e palesi, raccogliendo una straordinaria documentazione che ci svela come il centro operativo, situato nella caserma Pastrengo di Milano, fosse in possesso perfino di aerei privati coi quali trasportare, secondo l’occorrenza, di volta in volta dalla Spagna e ritorno, la manodopera criminale con tanto di passaporto, stipendio e copertura. Manodopera che, giunta nei luoghi preordinati, metteva in atto azioni terroristiche.

Il Battista non fa alcun cenno a questa situazione da fantascienza criminale e taccia me, autore della commedia, che invece ne parlo, di mancanza di pietas. Non è che qualche volta la pietas viene confusa con l’hypocrites?

Ma il Battista, strada facendo si eccita e va giù sempre più pesante. A proposito dell’omicidio Calabresi e dal particolare che, secondo il mio modo di vedere, e non soltanto mio, gli autori del crimine siano da ricercare in tutt’altra direzione, per esempio fra le varie organizzazioni di polizia segreta di cui abbiamo accennato, così vivaci ed efficienti nel nostro Paese, il giornalista mi accusa di disegnare “con furore incomprensibile una dietrologia di seconda mano”.
Ma che vuol dire dietrologia di seconda mano? Forse si allude a un’altra di prima mano più attendibile?

Come vado sostenendo ormai da anni, il delitto Calabresi ha inizio dal momento in cui al commissario tolgono la scorta di protezione: solo dopo tre giorni mettono a punto l’omicidio. Calabresi era conscio che qualcuno si sarebbe giovato del saperlo indifeso e abbandonato, tanto che commentò: “Se qualcuno vuol colpirmi, questo è il momento giusto!”.

E chi poteva essere al corrente di quell’isolamento, se non le polizie segrete e deviate, preoccupate di mantenere il silenzio?!
E tu guarda è proprio a ‘sto punto che il Battista scodella l’accusa di dietrologia fanatica e insensata. Forse gli sfugge il numero impressionante di poliziotti, sottufficiali e ufficiali superiori che troppo sapevano e che nell’ultimo mezzo secolo sono scomparsi attraverso strani suicidi, brutali incidenti o palesemente assassinati, basta ricordarsi l’elenco dei testimoni della strage di Ustica, uomini di coraggio a cui s’è tolta la parola, ultimo addirittura un generale accoltellato a Bruxelles. * Tutti dietrologi ossessionati?

Quindi, al contrario di Battista, io personalmente sono più che convinto che Sofri e i suoi compagni condannati per quel delitto siano assolutamente innocenti e che Leonardo Marino, l’accusatore, unico testimone in forza alla polizia, sia stato letteralmente plagiato, o meglio ammaestrato, dal gruppo speciale di Carabinieri che l’ha tenuto a lezione per più di un mese. Particolare questo che è venuto alla luce soltanto dopo un anno dall’inizio del processo, grazie alla testimonianza, imprevista e imprevedibile, di un sacerdote al corrente dell’operazione di imboccamento di Marino da parte della Benemerita.

Così ecco che al processo Marino testimonia di tutta l’operazione che doveva portare all’assassinio di Calabresi. Soltanto che, ahimé, riferisce particolari che risultano spesso errati o addirittura falsi.
Per esempio il testimone si auto-accusa di due rapine realizzate con l’appoggio di tre suoi compagni di Lotta Continua che vengono prontamente arrestati. Ma i compagni, incriminati per chiamata di correo, di lì a qualche mese vengono assolti per non aver commesso il fatto, invece Marino resta dentro.

Gola profonda Marino testimonia, anzi giura, che una delle ragazze del commando sta preparando nelle valli del Canavese un poligono di tiro: ma nello stesso giorno indicato, si scopre che la ragazza si trovava ricoverata in un ospedale di Torino, intenta a partorire il suo primo bambino.
Inoltre, il testimone descrive con precisione la macchina che personalmente guidava nell’attentato: “Era beige”, assicura. Ma in verità appresso si scoprirà che era blu.

Ma dove ha rubato questa macchina? “Nei pressi delle carceri di San Vittore, lato sinistro del viale” dichiara. Errore: la macchina si trovava sul lato destro della strada. “La portiera che ho forzato – dice ancora – era a destra”. Errore: la portiera forzata era quella di sinistra.

Afferma che in macchina non c’era nulla, vuota. E invece i poliziotti ritroveranno la vettura abbandonata qualche ora dopo ingombra di oggetti, i più disparati: palle da tennis in quantità, un paio d’occhiali, un ombrello, una pipa, un cappello, una lampada a pila, delle riviste, carte geografiche di aree orientali, una radio ricetrasmittente truccata in grado di ascoltare le frequenze della polizia (aggiustamento che può essere in grado di realizzare solo un tecnico d’alta professionalità, probabilmente legato a organizzazioni militari), una scatola di fiammiferi, un impermeabile, uno specchietto retrovisore - optional - e sul tetto della macchina, ben evidente, si scopre una lunghissima antenna radio, inarcata, lunga un paio di metri, ma lui non l’ha vista. Non ha visto nemmeno tutta la mercanzia di cui era ingromba la macchina…
Ma come mai questo svarione?

È semplice, poliziotti della PS che hanno ritrovato la macchina del delitto, hanno tenuto celata la presenza di oggetti nell’interno del reperto, quindi non essendone a conoscenza i Carabinieri, come potevano essi procurare l’informazione a Marino?
Ecco il perché della scena muta davanti al giudice.

Ad ogni modo, per concludere questo frammento d’indagine, è chiaro che Marino in quella vettura non c’è mai stato, non ha mai guidato quella macchina. L’unica cosa certa è che gli assassini con quell’auto hanno compiuto il delitto Calabresi. Ma senza di lui. Lui non c’era. Lui è completamente innocente. Un innocente venduto!

Proseguendo, la macchina, secondo gli inquirenti della PS, è stata ritrovata intieramente pulita, e quindi priva di impronte. Inoltre, il proprietario della macchina, al momento di ritirare la vettura a lui rubata, si è reso conto, che le due ruote anteriori erano state sostituite con pneumatici nuovi di zecca. Roba da specialisti del crimine! Ma a queste notizie Marino cade dalle nuvole.

Il tragitto ricostruito dalla polizia in seguito alle testimonianze dei passanti sulle varie strade percorse dalla macchina in fuga dopo l’attentato, non ha niente a che vedere con quello disegnato dal Marino. Anzi, è completamente diverso. Ma gli inquirenti badano bene di non contestare l’evidente diversità… Per carità, se si cominciano ad analizzare tutti gli errori commessi e le frottole raccontate da Marino non la finiamo più!
Altro particolare interessante: grazie a varie testimonianze, alla guida della macchina, c’era una donna, bionda, e dall’aria elegante.
Non c’è traccia di lei.

Quindi, sedici anni dopo l’efferato delitto, appare Marino e gli inquirenti esclamano: “Eccolo! È lui la signora bionda, elegante!” Di certo, ne è una prova la folta capigliatura fortemente arricciata di foggia negroide che gli decora il capo!
Altro grosso particolare, meglio dire grossolano, è il fatto che Marino, scelto come autista della macchina dell’attentato, non conosce Milano, ci è stato poche volte; egli vive a Torino, sua città d’origine. Ma non importa. Importanti sono l’istinto e l’ideale!
Durante l’interrogatorio, il giudice chiede al testimone il nome e le sembianze del personaggio determinante, cioè il basista, ovvero colui che avrebbe dovuto dirigere l’intiera operazione. Marino non ricorda né nome né figura, ma qualcuno gli offre una dritta: si chiama Luigi. “Adesso mi viene in mente! – esclama il Marino – Si tratta di Luigi Bobbio!” Ma, bumpete!, non può essere lui: ha un alibi perfetto. Poi annaspa su altri nomi ma sono tutti inattendibili. Finalmente s’imbatte nell’uomo giusto: Noia, Luigi Noia. I Carabinieri accompagnano il Marino, meglio lo portano nella casa che lui dovrebbe conoscere bene, ma non se la ricorda. Il Noia viene comunque incriminato.

Gli inquirenti esultano: “Finalmente abbiamo il basista!”. Secondo la testimonianza del Marino, al tempo dei fatti, il Noia era privo di baffi e barba, sempre ben rasato. Ma il fratello del Noia, fotografo dilettante, aveva scattato una foto, esattamente nei giorni del delitto, in cui appariva il presunto basista con baffi e barba fluenti, intento a leggere un giornale. Il giornale è il “Corriere della Sera”.

Il fratello si reca allora all’archivio del Corriere; analizzando i titoli che appaiono nella foto e alcune immagini scopre che la data di quel quotidiano è esattamente il 18 maggio 1972, il giorno dopo dell’omicidio Calabresi. Quindi doveva possedere quella barba fluente anche il giorno prima, una barba del genere non ricresce in una notte, ergo non è lui. Gli inquirenti devono forzatamente riconoscere la sua innocenza. Il Noia non è il basista.
Qualcuno si è inventato tutto. Ma senza quella foto oggi il Noia sarebbe stato condannato a vent’anni di carcere con i suoi compagni di Lotta Continua. E ci starebbe ancora, forse, in carcere.

Questo ci dice della serietà di tutto quel processo, dove il perno dell’accusa ruota intorno alla figura di
Marino un personaggio che i giudici di Torino avevano dichiarato testimone assolutamente inattendibile.
In seguito a tutte queste lacune e incongruenze che mal occultano un vero e proprio complotto, nel processo d’Appello del 1993 i giudici popolari, all’unanimità si rifiutano di ritenere colpevoli del delitto i tre imputati di Lotta Continua e il loro voto è determinante per la sentenza finale: Sofri, Pietrostefani e Bompressi sono da ritenersi innocenti, quindi da liberare.

Ma qui, entra in campo l’orrenda trappola: pur di ribaltare il verdetto, i giudici della Cassazione decidono di mettere in atto la cosiddetta sentenza suicida, cioè a dire, il giudice estensore espone, nel documento finale, la cronaca del processo e le motivazioni della sentenza in modo caotico e confuso, così da rendere tutto inattendibile. A questo punto il giudice superiore è tenuto ad annullare non solo il processo, ma anche la sentenza, quindi tutto da capo e i tre di Lotta Continua tornano sul banco degli imputati. Una truffa giuridica maestrale!

Che ne dice il Battista? Si tratta o no di una sindrome di ostinazione machiavellica, anzi demoniaca, quasi criminale vissuta dentro una stagione politica tetra e asfissiante?

Ma il botto finale del censore, pardon del recensore, è la messa in campo, nel suo articolo pubblicato sul Corriere, di un personaggio davvero terrorizzante.
Renato Farina, che suggerisce l’intervento censorio del Governo nei riguardi di questa mia pièce. Ma chi è Renato Farina, che il Battista usa come ariete da sfondamento nei nostri riguardi?

È un giornalista arruolato nei servizi segreti, il SISMI, nome in codice Betulla; è stato indagato insieme a Niccolò Pollari, alto ufficiale, direttore del SISMI, per il rapimento di Abu Omar, trasportato dall’Italia in Egitto a disposizione della Cia che l’avrebbe addirittura torturato. Per questo la Procura della Repubblica, qualche mese fa, ha radiato Renato Farina dall’albo dei giornalisti! Ma lui continua a collaborare con Libero, come opinionista, Feltri lo protegge.
Bene, caro Battista, ognuno ha le conoscenze che merita!

Dario Fo

da www.dariofo.it

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SVEZIA: DARIO FO SARA' SUI FRANCOBOLLI




L'omaggio il  13 novembre in Svezia!

Da autore di francobolli (suo è il 550 lire sammarinese per Carlo Goldoni, inserito nella serie del 17 settembre 1993), a protagonista di un intero foglietto. E' disponibile dal 13 novembre il blocco con cui la Svezia ricorda il Nobel per la letteratura Dario Fo.

L'autore, attore e regista italiano, che per il lancio è atteso a Stoccolma, viene citato in due tagli da 11 corone, uno con il busto e l'altro con l'immagine che caratterizza il diploma, dovuta da Bo Larsson e che richiama i giullari medievali. Venne creata in vista della prestigiosa cerimonia di consegna del riconoscimento, poi svoltasi il 10 dicembre 1997. Altre tre significative espressioni di Dario Fo sono presenti sui bordi della confezione.

Nato il 24 marzo 1926, fu -ammette in un'intervista raccolta da Sweden post- collezionista di francobolli da ragazzino, senza soffermarsi su un tema preciso. “Sono stato affascinato da tutti i diversi disegni, che suscitavano la mia curiosità”. Dall'attenzione per le vignette, alla consapevolezza del valore economico. “Quando gli antifascisti fuggirono in Svizzera, non poterono portare soldi con loro, invece presero francobolli italiani da vendere per sopravvivere”. Il paese dove viveva, Sangiano (Varese), si trova sul confine. In quella situazione “ho compreso il valore dei francobolli e come siano facili da trasportare”.

By Franca Rame at 2008-11-14 00:13 | blog di Franca Rame |

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LE IDEE


Morte ai fanatici ambientalisti

di DARIO FO


PROPRIO ieri 24 febbraio il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha presentato a camere riunite il suo progetto riguardo la produzione di energia e ha specificato che la produzione sarà pulita e rinnovabile. Inoltre, ha annunciato la quota di denaro che lo Stato americano ha intenzione di stanziare a cominciare da subito. Ha aggiunto: "Il nostro primo obiettivo è quello di riuscire ad abbattere drasticamente l'inquinamento atmosferico e l'effetto serra".

Il giorno stesso, a Roma, il nostro primo ministro Berlusconi firmava un accordo per attuare nel nostro paese l'impianto di ben quattro centrali nucleari di terza generazione, e non ha assolutamente parlato dei problemi di riscaldamento globale. Segnaliamo a questo proposito che l'inquinamento della città di Milano per ben 35 giorni sui 55 dall'inizio dell'anno ha superato il livello di inquinamento atmosferico, raggiungendo i 171 microgrammi di polveri sottili, contro i 50 del limite europeo. Ma il Governo italiano e il Comune di Milano non fanno una piega.

Tornando al nucleare, Berlusconi ci dà notizia dell'avvenuto accordo sfoderando un sorriso compiaciuto. E aggiunge che finalmente si è "abbattuto il fanatismo ecologico di una parte politica che già vent'anni fa ci aveva impedito di terminare la costruzione di due nuove centrali". Quindi si torna al nucleare? Ma come, ci siamo battuti tanto, il 70% degli italiani nel referendum sulle centrali ha votato contro, e lui ci definisce in massa fanatici dell'ecologia? E specifica che quello nucleare è un metodo ormai controllabile e sicuro. Ma come sicuro? Silvio, ti sei scordato che non più tardi dell'anno scorso in Francia succedeva un disastro: dall'impianto nucleare più importante della nazione, fuoriuscivano scorie tossiche che colpivano dieci operai. "Ma, calma!" dice il ministro francese, "degli operai sono stati colpiti dalle esalazioni, è vero, ma solo leggermente". Cosa significa "leggermente"? Significa che i danni procurati alla salute di quei dipendenti sono insignificanti: gli son diventati i capelli un po' azzurri, gli occhi fluorescenti e la pelle leggermente squamata. Qualcuno ha anche le branchie, ma gli stanno bene.

Ma io mi chiedo, questo nostro presidente è disinformato naturale o ha studiato per diventarlo? Nessuno gli ha detto che, a parte il pericolo continuo di disastro tipo Chèrnobyl, per il nucleare esiste il problema delle scorie? E che noi, in Italia, per il solo fatto di aver messo in funzione un paio di centrali nucleari cinquant'anni fa, ancora oggi abbiamo scorie che non sappiamo dove sbattere? E lo stesso accade anche in Francia, Il presidente ha dichiarato che entro il 2020 da noi sarà già attiva la prima delle quattro centrali previste. Ma quel cervello incandescente di governante sa cosa costa montare una centrale nucleare? In Finlandia ne stanno costruendo giusto una di ultima generazione. Avevano previsto che sarebbe costata un miliardo di euro, ma a metà percorso si sono accorti che il miliardo previsto s'era raddoppiato, due miliardi. Ora i responsabili della centrale, gente preparata e onesta, hanno avvertito che il valore dell'energia che riusciranno a produrre con quella loro centrale non riuscirà a coprire neanche la metà dei costi di fabbricazione ed impianto. Non solo, ma che la perdita aumenterà a dismisura quando, fra una ventina d'anni, come di norma, dovranno smontare tutto l'impianto e preoccuparsi di imballare ogni elemento dentro un enorme container in cemento armato, e poi andare a sistemarlo in uno spazio scavato nella roccia a un minimo di dieci metri sotto il livello del suolo.

E il nostro presidente, sempre lui, Silvio Eta Beta, assicura che l'energia nucleare è la più economica e produce ampi vantaggi e viene smentito immediatamente da ogni scienziato onesto e informato che lo sbeffeggia: "Ma che dici, Eta? Attento a te, i reattori funzionano solo grazie all'uranio arricchito. Ora devi sapere che negli ultimi anni il prezzo di questo propellente è aumentato di addirittura sette volte, per la semplice ragione che le riserve stanno per finire; e giacché il governo italiano ha appreso che per soddisfare l'intiero bisogno della nazione si dovrebbero realizzare, sul vostro territorio, almeno sessanta centrali dell'ultima generazione, dove andate a sbattere? Vi è sfuggito il particolare che per raggiungere questo numero abbisognano almeno trent'anni, con una spesa da fantascienza? E poi c'è il guaio che proprio in ragione dell'enorme numero di centrali che ogni paese cosiddetto civile ha in programma di costruire, entro quindici anni di uranio fruibile non ce ne sarà più e allora con cosa le fai andare le sessanta centrali, con le noccioline? O col popcorn?! E poi, cervellone mio, ci spieghi in quale zona o territorio hai in mente di costruirle queste centrali? Nessuno ti ha detto che l'Italia è un paese a forte incidenza tellurica? E che dal nord al sud più profondo non c'è luogo dove sia pensabile montarci un impianto nucleare? L'unico sicuro sarebbe Roma, anzi il Vaticano è proprio il punto ideale... io insisto e firmo per una soluzione del genere.

(25 febbraio 2009)
da repubblica.it

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«Io giullare, ho sconfitto tutti gli economisti: sotto paga, non si paga!»


di Luigina Venturelli


Il giullare ha già stracciato gli economisti in fatto di previsioni azzeccate. Dario Fo contro gli analisti finanziari di mezzo mondo: per il momento siamo sul due a zero, ma la grande crisi continua, le sue ricadute si aggravano, dunque la partita non ancora è chiusa. Conviene tenere sott’occhio il premio Nobel, unico economista sui generis ad aver dimostrato lucidità e attendibilità di giudizio su recessione e dintorni: a trentacinque anni dall’esordio, stasera torna in scena Sotto paga, non si paga! al Piccolo teatro di Milano.

Spettacolo profetico Il cronista parlerebbe di grande attualità, il filosofo ragionerebbe di corsi e ricorsi storici, il drammaturgo si arrende semplicemente alla continua competizione tra arte e vita: «Spesso la realtà copia dall’immaginazione scenica, qualche volta la supera anche».
Profezia numero uno: negli anni Settanta, nel bel mezzo dell’austerity da choc petrolifero, Dario Fo scrisse e mise in scena Non pago! Non pago!, un testo per raccontare la lotta delle massaie italiane per far quadrare i bilanci familiari nonostante i prezzi fuori controllo. Poche settimane dopo, in un supermercato milanese, la commedia divenne cronaca: «Quando debuttammo nel 1974, la storia di questa commedia appariva piuttosto surreale: raccontavamo di avvenimenti che non erano ancora accaduti, in sala il pubblico ascoltava molto perplesso e ci guardava come fossimo dei pazzi».

Il copione parlava di donne che nella periferia di Milano, andando a fare la spesa, si ritrovavano con i costi aumentati a dismisura e, furenti per l’iperinflazione, decidevano per la disobbedienza civile, pagando metà prezzo rispetto alla cifra imposta. «Il nostro racconto era pura fantasia, ma ci ispiravamo alle lamentele che sentivamo dalle donne per la strada a proposito dell’arbitrio ladresco dei commercianti. E di lì a qualche mese ci rubarono l’idea che avevamo messo in scena nella commedia».

Arte e realtà La chiave dello spettacolo si ripropose nella realtà con una similitudine impressionante: donne e uomini presero d’assalto due supermercati e pagarono la loro spesa esattamente la metà della cifra che si ritrovarono sullo scontrino. «Leggemmo sui giornali che un centinaio di donne partecipanti all’azione reale avevano addirittura ripetuto le stesse battute che Franca recitava ogni sera sulla scena. Pensammo anche di chiedere i diritti d’autore» scherza l’artista. «Poi il nostro copione fu addirittura superato in immaginazione: qualcuno andò via portandosi appresso qualche pacco di riso e qualche bottiglia senza pagare, in molti furono arrestati e il processo fu istruito in brevissimo tempo».
Ci fu addirittura un quotidiano - il Giornale Nuovo, allora diretto da Indro Montanelli ed edito da Silvio Berlusconi - che accusò l’artista di essere il vero ispiratore morale del reato: «Ad ogni modo durante il processo venne riconosciuto che i prezzi imposti dal supermercato erano delle vere e proprie rapine. Alla fine furono tutti prosciolti da ogni accusa, perché il fatto non costituiva reato. In poche parole, il tribunale stabilì che quei clienti avevano pagato il giusto valore della merce».

La crisi va in scena Profezia numero due: circa un anno fa, riflettendo sulla progressiva perdita del potere d’acquisto di lavoratori e pensionati, l’autore ha deciso di riprendere in mano quel testo e, fatti i dovuti aggiornamenti, riportarlo sulla scena. Pochi mesi dopo c’è stato il tracollo della finanza internazionale.

La commedia - al Teatro Strehler, dal 24 marzo al 5 aprile 2009 - continua a parlare di piaghe e fardelli quotidiani, sempre gli stessi, benchè aggiornati ad usi e costumi del nuovo millennio: il mutuo come emblema dei problemi economici da affrontare e la precarietà come sintesi delle dannazioni sociali da scontare. Protagonisti sono Marina Massironi e Antonio Catania nei ruoli che furono di Franca Rame e Dario Fo: la disoccupata Antonia, il marito operaio precario Giovanni, affiancati dall’amica di lei, precaria in un call center, e da un viavai di poliziotti e carabinieri che indagano sulle razzie al supermarket.

«Questa commedia nasce come un lavoro paradossale, la distruzione della logica, il cataclisma dentro il normale. Eppure per ben due volte è stata raggiunta e sorpassata dalla realtà» spiega Dario Fo. «Dopo le prime rappresentazioni della scorsa primavera, ho dovuto riscrivere parti intere, reinventarmi il finale, studiare in continuazione per non perdere il contatto con le notizie del giorno». Un lavoro mai interrotto dallo scorso settembre, da quando la frana dell’economia mondiale si è staccata dai piani alti di Wall Street ed ha iniziato il suo cammino verso valle, travolgendo migliaia di aziende e di lavoratori.

«La situazione è già cambiata rispetto a due mesi fa, a dicembre si annunciava il disastro, oggi lo stiamo vivendo sulla pelle: finora in Italia sono fallite 400 industrie, senza contare le piccole imprese di cui non abbiamo notizia, e sono milioni le persone rimaste senza posto di lavoro» lamenta il premio Nobel. «Prima gli imprenditori hanno avvisato gli operai che dovevano aspettarsi tagli in busta paga e una pioggia di licenziamenti, ora i più fortunati sono in cassa integrazione e gli altri sono in mezzo a una strada».

In effetti, uno scenario molto simile a quello del 1974, tanto simile che il drammaturgo si è sentito «obbligato dall’attualità a riportare in scena questa farsa» e sul palcoscenico ha deciso di rispolverare un vecchio classico, una gigantografia del Quarto stato di Pellizza da Volpedo ridipinta dallo stesso Fo, che ingloba i proletari di oggi.

Il governo della follia Solo una cosa è cambiata in questi trentacinque anni, una sola, ma dall’impatto devastante: «La follia del potere, l’ignoranza e l’incoscienza di chi racconta che va tutto bene, che la recessione non è tanto grave se s’impara a riderci sopra». La critica al governo è radicale, come sempre nell’analisi del premio Nobel. Ma stavolta le parole del giullare rischiano di farsi triste profezia, come quelle del matto a cui tante volte il drammaturgo ha affidato un ruolo chiave nella sua produzione teatrale: quello di dire verità scomode, che nessun bravo borghese vuole pronunciare o ascoltare.

«Prima o poi la gente potrebbe dare i numeri, potrebbe decidere di pagare la metà del prezzo al supermercato o potrebbe decidere di rubare per disperazione. Qualche dato già registra un preoccupante aumento dei furti di beni alimentari». Le menzogne di chi sta al potere non dureranno a lungo, il cielo di carta dell’ottuso ottimismo si straccerà e la gente chiederà conto dell’indifferenza ammantata da positività. «Il pericolo è che la loro follia diventi la follia del paese. Se il centrodestra continua a sragionare, presto potrebbe raccogliere quanto va seminando: la perdita della ragione, la psicosi della peste e l’assalto ai forni, per usare parole di manzoniana memoria».
lventurelli@unita.it

24 marzo 2009
da unita.it

Admin:
Dario Fo per MRS

- GRAMSCI: "GLI OPERAI SONO I VERI PRODUTTORI" 

Scritto da DARIO FO     

lunedì 06 aprile 2009 
 


Oggi tutto il popolo della sinistra discute sull’esigenza assoluta di ripristinare il senso morale e riproporre, se non vogliamo assistere al totale sfascio del movimento riformista, una svolta radicale del comportamento e di tutto il nostro programma sia organizzativo che culturale. Ed è proprio in conseguenza a questo impellente cambiamento che si fa il nome di due grandi dirigenti della sinistra storica: Berlinguer e Gramsci.
Ed era tempo che ci si riferisse al loro esempio e agli insegnamenti proposti sia con lo scritto che con l’azione diretta; in particolare mi capita spesso, dialogando con studenti anche impegnati nella politica, di parlare di Gramsci e mi devo render conto che essi della vita e delle lotte affrontate da questo grande personaggio, caposaldo della nostra storia sociale e civile, sono quasi completamente all’oscuro. Un uomo di enorme valore intellettuale e morale i cui testi sulla storia degli intellettuali, le sue Lettere e i Quaderni dal carcere sono stati tradotti in tutte le lingue del pianeta e studiati in ogni università di prestigio, dimenticato.
Com'è possibile? La memoria di una vita bruciata giorno per giorno dentro le carceri e nelle isole penitenziarie, ingoiata dalla polvere dell’oblio.

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Tanto per cominciare a Milano, capitale della regione più attiva e produttiva d’Italia, Antonio Gramsci è un estraneo, ricordato solo dai vecchi operai scaricati nella più anonima periferia mentre i giovani quasi lo ignorano, eppure varrebbe la pena almeno ricordarlo se non altro per aver fondato in questa città nel 1924 il quotidiano più famoso del Partito comunista, l’Unità. Il suo approccio intenso seppur drammatico con Milano lo realizza nel 1926, anno in cui viene arrestato a Roma e dopo una breve permanenza a Regina Cœli viene trasportato a Ustica per qualche settimana, quindi sempre nello stesso anno raggiunge Milano accolto nelle carceri di San Vittore, un penitenziario davvero monumentale a pianta centrale e struttura stellare con le celle disposte su tre piani a vista. Michel Foucault, in uno studio sulle carceri del 900, indica questa di San Vittore come una delle opere di costrizione strutturalmente più moderne. Per Antonio Gramsci è forse l’unico incontro con la cultura architettonica della metropoli lombarda. Ci rimane tre anni durante i quali imposta uno studio sui maggiori protagonisti della cultura italiana. Di qui viene tradotto nella colonia penale di Turi, presso Bari, pare per motivi di salute: evidentemente il clima e l’ambiente carcerario di Milano non gli erano molto propizi. Queste sono le uniche notizie di cui disponiamo riguardo il rapporto con la capitale lombarda.

Tutti sappiamo che Gramsci è nato in un piccolo paese della Sardegna meridionale: nel 1902 consegue la licenza elementare, quindi nel 1908 frequenta il liceo classico a Cagliari e si appassiona allo studio delle lettere, della storia e della matematica. Quest’ultimo è un particolare poco conosciuto. In un suo breve scritto dal carcere commenta questa sua “attenzione” verso la matematica (da non confondere con l’aritmetica che è altra cosa) e la abbina alla geometria analitica e proiettiva: si tratta di una scienza che costringe a scoprire la logica e a superare il concetto di "terminato", cioè concluso. In analisi logica geometrica nulla è definitivo: tutto ha un suo svolgimento che spesso capovolge il primo aspetto geometrico per cui un punto nello spazio, se appena sposti la tua posizione o meglio punto di vista, puoi renderti conto che in verità si tratta di una retta tagliata in sezione. E questo è il presupposto della logica e della dialettica.

Quasi appresso c’è un altro commento di Gramsci a proposito di geometria e matematica: si tratta del metodo davvero geniale impiegato da Eratostene di Cirene nel III a.c. per analizzare i fenomeni astronomici. Il giovane studioso greco arrivò a misurare la circonferenza della Terra servendosi di due aste di un braccio e mezzo l’una: una conficcata alla periferia di Siene, l’altra in un prato presso Alessandria. In quel momento a Siene il Sole si trovava allo zenit, quindi proiettava i propri raggi perfettamente in verticale quindi il bastone infisso non produceva ombra alcuna, mentre nello stesso giorno l’altro bastone conficcato nel prato di Alessandria produceva un’ombra di mezzo palmo. Grazie a queste due misure il giovane Eratostene riuscì a calcolare appunto la circonferenza della Terra in termini quasi esatti e perfino la distanza dalla Terra al Sole. E qui Gramsci fa notare che a chi conosce il metodo dell’analisi proiettata è sufficiente una breve asta per calcolare distanze immense o addirittura infinite.
Più tardi trovandosi egli in carcere, grazie a una lettera del novembre del 1929 alla moglie Giulia, possiamo cogliere il modo del tutto inconsueto con cui Gramsci pensa di proporre uno studio sulla “storia degli intellettuali”, quale testimonianza di un popolo e di una nazione.

Antonio Gramsci dichiara esplicitamente: "I libri, le riviste, danno solo idee generali, abbozzi di correnti non definite della vita del mondo giacché e' difficile riescano dare l’impressione immediata, diretta, viva della vita di Pietro, Paolo o Giovanni, cioè di singole persone reali, senza capire i quali non si possono neanche capire i loro comportamenti quotidiani e da cosa siano determinati e quindi di ciò che è universalizzato e generalizzato".

La città del nord Italia che ha veramente segnato la formazione umana e culturale di Gramsci non è quindi Milano, ma Torino. Egli giunse in quella città grazie a una borsa di studio che lo introduceva nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università del centro industriale più importante d’Italia. Il capoluogo piemontese in quel periodo viveva in pieno il boom economico e industriale. La Fiat e la Lancia con i loro stabilimenti hanno chiamato dal Sud più di sessantamila immigrati in cerca di lavoro.

E’ il tempo in cui gli operai organizzano imponenti lotte di fabbrica e nascono le prime associazioni sindacali; è il tempo in cui gli operai riescono a imporre la loro presenza nelle decisioni fondamentali del lavoro insieme ai rappresentanti dei padroni. In questo periodo della sua vita, Gramsci, studiando i processi produttivi nelle fabbriche, si impegna per far acquisire alla classe lavoratrice "la coscienza e l’orgoglio di produttori". Collabora con alcuni giornali quali il Grido del popolo, foglio comunista di Torino e più tardi con l’Avanti!. Scrive su argomenti di lotta e di prassi politica, ma si appassiona anche al mondo dello spettacolo fino a diventare critico teatrale. E’ uno dei primi a capire che il dividere in categorie distinte la tragedia e la commedia, la farsa e il dramma è un errore che produce un concetto del tutto conservatore se non addirittura reazionario.

“L’umorismo e il senso del grottesco - sostiene - sono espressioni di altissimo valore e solo una cultura ottusa e bassamente classista può pensare di catalogare a livelli inferiori tutto ciò che produca riso e divertimento". Anzi dichiara: "Il primo valore di un’opera teatrale è l’attenzione che sa suscitare e il divertimento è l’aggancio più efficace perché si produca l’ascolto e l’attenzione”. Sappiamo che per lungo tempo Gramsci tenne in gran considerazione il teatro e le novelle di Pirandello. Oltretutto, lo dichiara esplicitamente, la sua origine culturale nasce dallo studio di Benedetto Croce, ma questo suo modo di giudicare e considerare il valore del filosofo e del commediografo siciliano subiranno una sterzata a capovolta in conseguenza della sua terribile esperienza dentro le carceri del fascismo.

Un primo importante effetto lo acquisì presso l’isola di Ustica grazie al rapporto con i carcerati, alcuni politici, ma altri condannati per crimini comuni coi quali ebbe subito un rapporto particolare. Sapendolo colto e disponibile, i detenuti politici gli chiesero di organizzare una serie di lezioni alle quali avrebbero potuto partecipare anche i cosiddetti comuni. La richiesta di partecipazione fu superiore al previsto cosicché si decise di dividere i corsi a livelli diversi secondo il grado di preparazione degli allievi.

Gramsci ha scritto alcuni commenti a proposito di questa esperienza rendendosi conto che durante quelle sedute spesso si trovava ad apprendere più che a procurare insegnamenti. Scoprì che alcuni di quei carcerati conoscevano canti popolari della loro più antica tradizione che ripetevano forme poetiche con ritmi e cadenze che Gramsci aveva appreso studiando i novellatori medievali e del Rinascimento.
A questo proposito accenna ad una ballata che propone lo stesso andamento di doppio settenario o endecasillabo con un novenario nel mezzo dei canti prodotti nella corte di Federico II di Svevia.

Credo di aver indovinato di che strambotto si tratti: un canto in cui l’innamorato fa l’elogio della sua donna alla maniera dei poeti arabi che operavano nell’VIII secolo in Sicilia. Il cantore popolare a sua volta ci presenta la sua bella che si sta affacciando al balcone: la ragazza splende come la luna ed i suoi occhi sono due stelle della sera. Piu' o meno il canto dovrebbe essere questo:

A na fenestra se spontao la luna
intrammezza a du stidde Diana:
su tanti li baliori che me duna,
pari lu lampu de la tramontana.

Cioè:

A una finestra è spuntata la luna
con intrammezzo due stelle Diana:
son tali i bagliori che mi dona,
pare il lampo della tramontana.

Gramsci a questo proposito ricorda la definizione di Benedetto Croce davanti ai canti popolari: “Si tratta - dichiara il filologo - di ripetizioni meccaniche di poemi della cultura superiore e - ribadisce - la cultura dominante è sempre espressione della classe dominante”. Ma ecco che Gramsci si rende conto forse per la prima volta che questa definizione è del tutto falsa giacché quel canto in volgare siculo certamente è di origine più antica delle ballate prodotte dai poeti di corte di Federico imperatore e quindi anche la metrica e i ritmi espressi dal popolo nascono qualche secolo prima di quelli che ritroviamo sui libri di testo della poesia aulica del Duecento, testi che ci hanno sempre insegnato essere all’origine della poesia italica.
Ma l’emozione più alta Gramsci la prova assistendo sempre ad Ustica, forse nell’ora d’aria, quindi nel campo interno al carcere, ad un’esibizione di due carcerati originari delle valli montane della Calabria, molto probabilmente dediti alla pastorizia. Essi armati ciascuno di un bastone si producono in un duello feroce e nello stesso tempo di un’eleganza straordinaria: più che lottare con l’intento di colpirsi, i due contendenti si producono in danze fatte di scatti agilissimi nei quali fanno roteare i bastoni cozzando l’un contro l’altro i legni a velocità inaudita. Muovono rovesciando il corpo e passando i bastoni da una all’altra mano compiendo vere giravolte con le quali sfuggono a botti tremendi seguiti da grida secche e cantate quasi a sfottò.
Egli commenta: “Non era di certo quella un’esibizione fine a se stessa: la bravura dei due contendenti non era tanto espressa dal tentativo di colpire duramente l’avversario, quanto piuttosto quello di riuscire non colpirsi l’un l’altro dando al contrario l’impressione di volersi massacrare a vicenda. Ad un certo punto ho intuito che quella pantomima era parte di un rito molto antico prodotto con lo scopo di allenamento ad un conflitto vero dove il nemico non era solo da considerarsi un essere umano, ma poteva tradursi in orso o lupo o addirittura in branco di lupi. Quel roteare vorticoso del bastone e quello sfuggire con salti e affondi rovesciati era certo il prodotto di un agire per cercare di sopravvivere ad attacchi di morte”.
Tutto il popolo di sinistra è di certo a conoscenza delle diatribe e dei conflitti che allontanarono definitivamente Palmiro Togliatti da Gramsci ed è quindi quasi paradossale scoprire che il primo a credere nel valore universale delle opere del più importante intellettuale del Partito comunista si sia rivelato proprio Togliatti. Egli mirava a fare di questo suo antagonista il teorico di una "riforma intellettuale e morale" in continuità con il Risorgimento. Il punto massimo dell’assurdo di questa operazione sta nel fatto che Togliatti intendesse realizzare un’azione di politica culturale “finalizzata ad attenuare la vocazione proletaria del Pci” e per far questo aveva pensato di servirsi del maggior sostenitore del valore inarrivabile della cultura popolare.
Un paradosso, appunto, giacché è risaputo che il contenzioso che determinò l’irrisolvibile diverbio furono proprio le idee “costituzionali” di Gramsci - il suo cosiddetto “comunismo liberale” -, ritenute fortemente eretiche in quanto oltretutto in contrasto con la linea cosiddetta del “social-fascismo” imposta da Mosca, e fu proprio quella drastica censura a produrre quell’isolamento in carcere che gli causò la fine d’ogni contatto umano: una situazione che lo portò alla più dolorosa delle condizioni. "Potevo preventivare i colpi degli avversari che combattevo - scrive in una lettera alla cognata Tania nel 1930 - non potevo preventivare che dei colpi mi sarebbero arrivati anche da altre parti, da dove meno potevo aspettarli".
Ad ingigantire questa situazione giunge in carcere una serie di lettere inviate a tutti i detenuti politici in attesa di processo: in queste missive a firma di Ruggero Greco, lo scrivente compie una gaffe madornale poiché indica Gramsci, Terracini e Scoccimarro come i massimi capi del partito. Insomma, si tratta di una autentica delazione, uno sgambetto mortale. Gramsci si sente tradito, messo con le spalle al muro. Di certo è un tale colpo basso che gli crea una vera e propria débacle fisica e morale: la sua salute peggiora a vista d’occhio.
Inoltre possiamo ben dire che questa trappola infame allontanò per sempre Gramsci dal partito, proprio lui che con tanta forza aveva lottato per farlo nascere.

DARIO FO
da radicalsocialismo.it

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