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« inserito:: Febbraio 17, 2019, 11:25:14 pm »

UNO NON VALE UNO

Massimiliano Panarari racconta le strategie comunicative del M5S: dalla piattaforma Rousseau, alla politica della scatola vuota. E a Salvini – Zelig

Di Michele Boroni

Massimiliano Panarari, sociologo della comunicazione, saggista, consulente di comunicazione politica e pubblica, docente della Luiss e della Bocconi, editorialista su La Stampa e su altri quotidiani. Nella neolingua del 2019 “quelli là” direbbero che è uno della casta.

Ultimo libro di Panarari per i tipi di Marsilio: Uno non vale uno. Democrazia diretta e altri miti d’oggi. Il volume smonta e analizza nel dettaglio il gergo populista e sovranista – che chiama in confidenza pop-sov – partendo proprio da uno dei suoi cardini.   

Uno non vale uno: sembra che anche molti attivisti pentiti dei 5 Stelle se ne siano accorti
Il fatto che “uno non vale uno” sta diventando sempre più chiaro anche a coloro che avevano pensato di trovare all’interno del MoVimento 5 Stelle, ma anche di altre formazioni neopopuliste, la possibilità di far valere quest’idea di una totale orizzontalizzazione. In pratica “uno non vale uno” perché, come nella Fattoria degli animali di Orwell, all’interno del MoVimento 5 Stelle esiste un centro di potere, una gerarchia non dichiarata, una filiera di comando che prende le decisioni.

La Casaleggio Associati
Naturalmente. È un inner circle di cui fanno parte dei soggetti privati e questo rende praticamente l’idea dell’impraticabilità dell’orizzontalizzazione. Quindi uno vale uno, tranne che per la Casaleggio Associati.

Però anche nei vecchi partiti c’erano le correnti
Sì, la politica del “correntismo” ha prodotto una serie di degenerazioni; tuttavia negli altri partiti vi erano sempre una condizione di dibattito e di conflitto palesi. Mentre sulla base de l’“uno vale uno” del MoVimento 5 Stelle diventa impossibile poter esprimere il dissenso. Nella discussione del decreto sicurezza e delle politiche migratorie si è visto chiaramente che un dissenso esiste, ma fatica a esprimersi e a trovare una posizione visibile e dichiarata.

La loro dichiarazione “uno vale uno” è di fatto un rifiuto alla diversità e al pluralismo che sono, per un verso, un dato di realtà e, per l’altro, il fondamento della civiltà occidentale e delle società socialdemocratiche. L’idea forzata, omologatrice e riduzionistica dell’“uno vale uno” intende soffocare tutto questo.

A proposito di omologazione: se è vero che “uno vale uno”, allora tutti sono sostituibili?
Esatto, i partiti neopopulisti dichiarano l’uno vale uno dei propri eletti in tema di interscambiabilità, ma anche di facile rimozione. Questo rafforza il fatto che il centro di potere che governa il decision making del partito neopopulista – la Casaleggio Associati – risulti ancora più forte e inscalfibile.

E in tutto questo la Lega come si pone?
La Lega, come del resto gli altri partiti della destra radicale a tendenza neocomunitarista e xenofoba che si stanno affermando in tutta Europa, richiama il valore de l'”uno vale uno” e dell’omologazione come forma di opposizione alla tolleranza e convivenza tra i diversi, ovvero il pilastro delle società aperte liberal-democratiche. In questo caso anche sulla base di un’idea di radici etniche e di un “uno vale uno” che si basa su chi sta all’interno di una comunità di sangue o di legami etnici.

Prima gli italiani, quindi?
Esattamente, ma anche prima gli americani. Il fenomeno è decisamente globale.

Il suo libro è organizzato come Miti d’oggi di Roland Barthes, in questo caso legato all’egemonia linguistico-politico e culturale dei pop-sov. Popolo, autenticità, tecnologia, disintermediazione e democrazia diretta sono i “miti” coinvolti. Ho l’impressione però che alcune di queste parole stiano franando, penso agli ultimi cambiamenti di rotta sul referendum. È così?
Nel caso del referendum propositivo deve obbligatoriamente prevedere un quorum: un’occasione di democrazia diretta senza quorum è una mitologia antitetica all’idea della partecipazione civica e mobilitazione delle persone. Tornando alla domanda, qui il mito si sta scontrando con la realtà: in questo confronto-scontro con il dato di realtà, la cronaca politica italiana ci sta restituendo l’immagine strumentale di questi miti – perché, non dimentichiamocelo, stiamo parlando di mitologie strumentali consensus oriented – come appunto la disintermediazione e la democrazia diretta, conseguenza della ipostatizzazione che “uno vale uno”.

Qual è la reazione dell’elettorato di fronte a questo confronto?
Generalmente disillusione e disincanto, un tipico passaggio dall’utopia alla distopia. Gli elettori si accorgono che la mitologia è irrealistica e non praticabile. Ma c’è anche la possibilità che le mitologie vengano rilanciate, ed è quello che vediamo della democrazia diretta nell’evoluzione del pensiero politico del MoVimento 5 Stelle, ovvero il fatto che ogni volta che sono costretti a recedere rispetto all’impianto originario, costruiscono altri miti collaterali o danno vita a una comunicazione che è un elemento strutturale della diversione e distrazione di massa. 

 Massimiliano Panarari © Vito Maria Grattacaso / LUZ
Anche il tema della tecnologia e della piattaforma Rousseau sta traballando: il potere logora la rete?
Il potere logora la rete quando la rete stessa è finalizzata alla conquista del potere. Se tutto emerge nella condizione di strumentalità e nella dimensione consapevole del rifiuto delle regole per impedire la tutela del pluralismo, il risultato è quello di generare alcune forme di disillusione. La vera questione è che nel momento in cui le istanze antisistemiche diventano sistema, comincia a diventare chiaro che una parte significativa di queste istanze avesse un presupposto di conquista del consenso e prescindesse da tutta una serie di dati concreti come il fatto che governare sia molto complicato.  Si è visto bene nella discussione della manovra di bilancio.

I 5 Stelle sono nella stanza dei bottoni ma comunicano come se stessero ancora all’opposizione, magari schierandosi con i gilet gialli
Già, ma c’è di più. La Casaleggio Associati, soggetto privato detentore della piattaforma Rousseau, attraverso un rappresentante delle istituzioni democraticamente eletto – Luigi Di Maio – ha messo a disposizione la piattaforma a un movimento ribellistico nei confronti di un altro politico alleato e democraticamente eletto – Emmanuel Macron – generando un cortocircuito devastante in maniera lucida e razionale.

Prima parlava di diversione e distrazione di massa. È in quest’ottica che si spiega il ritorno di Di Battista?
Il richiamo in servizio del riservista Di Battista, essenza del populismo movimentista barricadero, serve per ammaliare l’anima più pseudo-rivoluzionaria e contestatrice del movimento, cioè quella che ha garantito gran parte del consenso al MoVimento 5 Stelle.

Quale sarà secondo lei il suo ruolo nel futuro?
È difficile capire cosa succede e cosa succederà dentro il MoVimento 5 Stelle, dal momento che non esiste un dibattito pubblico, non ci sono correnti o sensibilità formalizzate. In fondo il Movimento fondato da Grillo è la cosa più vicina a un serial postmoderno. E come nella capacità degli showrunner di costruire caratteri o cambiare la sceneggiatura in relazione all’audience, in questo caso il richiamo di Di Battista corrisponde a un calo di consenso per l’esperienza governativa, così affiancherà il protagonista Di Maio e si dedicherà alla funzione di ristrutturare l’offerta di populismo movimentista e antisistemica del MoVimento 5 Stelle tenendo un piede dentro e un piede fuori.

Di Battista è il cliffhanger…
Esattamente. È precisamente questo, è l’esportatore del modello rivoluzionario ritornato dal sudamerica che si propone ai movimenti dei gilet gialli e rispetto ad altre realtà ribellistiche e insurrezionali. Una sorta di commesso viaggiatore della rivoluzione.

C’è da dire che tutto questo ha una sua logica perversa: funziona davvero?
Il lavoro che il MoVimento 5 Stelle fa sulla comunicazione, o meglio sull’istantaneità della comunicazione, è estremamente efficace.

In questo forte mutamento del clima di opinione, di grande confusione collettiva e di riduzione d’impatto del dato di realtà, i partiti pop-sov si propongono come scatole vuote nei quali ciascuno può scegliere l’istanza o l’elemento ritenuto curativo o che può sublimare le frustrazioni individuali.

In questo il MoVimento 5 Stelle è un esperimento fortemente riuscito che risponde al bisogno di autocomunicazione del narcisismo individualista di massa, come dice Castells, dove ciascun mittente appartenente alla massa elabora in modo autonomo il messaggio e lo trasmette alle sue reti di destinatari attraverso i social.

L’istantaneità della comunicazione ha contribuito a tagliare le gambe alla sinistra, che ha già i suoi problemi congeniti e assenza di leadership
Questo tipo di comunicazione ha in effetti soffocato il dibattito parlamentare, basato sul dialogo e sul compromesso. La sinistra è strutturalmente in difficoltà perché ha mancato l’appuntamento con la postmodernità.

Quali sono oggi gli elementi richiesti dalla postmodernità in politica?
Sono principalmente cinque: una leadership adeguata, una capacità di comunicazione in grado di reggere la comunicazione della società, efficacia ed efficienza rispetto ai processi e alle trasformazioni sempre più rapide, capacità di costruire una forma organizzativa e infine capacità di definire l’agenda non da inseguitore ma da precursore. Di fronte a tutte queste trasformazioni della postmodernità la sinistra è rimasta completamente spiazzata e la possibilità di restare oggi nel mercato politico richiede un’offerta che sia in grado di risultare forte rispetto a queste dimensioni.

Renzi ci aveva provato?
Renzi ha adottato modalità e tecniche di populismo soft. Ha intercettato il cambiamento, però la brevità di questa sua esperienza è legata al fatto che probabilmente il modello progressista in generale non è a proprio agio con queste trasformazioni.

Durante le presentazioni si è mai trovato di fronte interlocutori che confutavano le sue riflessioni e analisi? Penso che un potenziale rischio del suo libro, come altri del genere, sia quello del confirmation bias e che quindi venga letto e commentato da chi già è convinto di questo
Per adesso di presentazioni ne ho fatte davvero poche e tutte abbastanza in una dimensione di confirmation bias. Sono d’accordo con lei. Anche in questo caso l’America è stata l’apripista riguardo a dibattiti pubblici in cui non si riescono a confrontare posizioni differenti. La polarizzazione è la conferma dell’esattezza del direttismo tecnologico e che abita nelle filter bubble, un contesto in cui i partiti neopopulisti costruiscono varie e diverse isole di discorso e dibattito pubblico. Tornando alla domanda, da parte mia ovviamente c’è la massima disponibilità.

In un suo libro del 2010 L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip lei critica l’ideologia dominante di una sottocultura televisiva formata dai vari Ricci, Signorini, Vespa e Maria De Filippi. Qual è la situazione oggi?
La prima considerazione che mi viene da fare è che gli anni ’80 non sono mai finiti in Italia, e questo confermerebbe la tesi per cui oggi viene utilizzata la rete in una modalità neotelevisiva. L’utilizzo della rete di Grillo specie nel momento antecedente all’ascesa è stato un utilizzo fondamentalmente verticale. La tv degli anni ’80 ingloba il pubblico, ne fa un attore importante ma non primario, cioè lo introietta, ne apprende delle istanze, costruisce un meccanismo di rispecchiamento che però è già scritto, sceneggiato, controllato al suo interno.

Massimiliano Panarari intervista
Massimiliano Panarari © Vito Maria Grattacaso / LUZ

Esiste già un’egemonia mediatica?
La piattaforma Rousseau. È un’apparente dimensione di interazione che è la grande richiesta del web dal 2.0 alle numerazioni successive, ma in cui tutto è particolarmente controllato, dove gli spazi di libertà sono definiti nel loro percorso e rispetto all’esito finale.

È come il Bandersnatch di Black Mirror, tutto è scritto: quanto meglio è scritto, tanto più è possibile percepire e vivere una dimensione di libertà e di scelta da parte del consumatore /spettatore / fruitore. Non è un caso che Grillo venga dalla tv anni ’80 e che uno dei suoi principali autori sia Antonio Ricci.

Cosa c’entra Ricci?
Guardi, lungi da me qualunque dimensione vagamente dietrologica e complottistica, che è peraltro tipica dei pop-sov. Tuttavia quello che è avvenuto è una sorta di grande vittoria postuma del situazionismo: la tv berlusconiana è una tv in cui la componente ricciana è puramente situazionista, come ad esempio lo è oggi anche Freccero.

Il mondo e l’opinione pubblica neopopulista è immersa in una sorta di grande blob dove l’“uno vale uno” e l’orizzontalizzazione danno la sensazione dell’impossibilità di ordinare messaggi e contenuti.

Ed è quello che accade precisamente sulla rete: potremmo dire che la rete è una sorta di grande realizzazione dell’idea del Rizoma del 1977 e della punta finale del situazionismo. Mi pare che l’ecosistema mediatico odierno vada molto in questa direzione e in questo c’è la realizzazione delle premesse che c’era nella tv anni ’80, berlusconiana in particolare, anche con una dimensione nostalgica.

Erano gli anni delle grandi aspettative individuali, c’era un ottimismo di fondo
Quella dimensione ottimistica dell’autorealizzazione degli individui porta oggi a un contesto di totale individualizzazione con le premesse che sono venute a mancare, per cui rimane solo rabbia, rancore, l’impossibilità di realizzarsi e la possibilità di comunicare e di autocomunicare. Però secondo me, o meglio, secondo fonti più autorevoli di me, quello è il turning point, cioè non si può pensare l’Italia oggi senza il berlusconismo culturale, la trasformazione profondissima che ha impresso. Oggi l’Italia è il Paese in cui rispetto a certi indicatori la distanza tra realtà e percezione è il più elevato dell’intero UE. Questo è l’inevitabile effetto del berlusconismo.

Chiudiamo: e la comunicazione di Salvini – Zelig con le divise e testimonial-consumatore di prodotti di largo consumo?
In termini di plausibilità possiamo dire che c’è per un verso una dimensione di comunicazione molto attenta e forte e che ha prodotto il consenso che conosciamo. C’è sicuramente un talento individuale e una capacità di interpretare e di essere ricettivi rispetto allo spirito dei tempi.

È chiaro che il personaggio Matteo Salvini è un personaggio costruito, si capisce dalla sua evoluzione da giovane comunista padano che era fino al campione della destra europea che è diventato.

La sua caratteristica di Zelig nell’indossare con costanza le uniforme delle forze dell’ordine ci dicono che la forma è sostanza e che la divisa delle forze dell’ordine è la divisa di tutti: questi cortocircuiti comunicativi tendono a far coincidere il ruolo di capi politici, uomini di governo e istituzione. Ma il tema principale è quello del principio maggioritarista, cioè scambiare il governo non per l’esecutivo che ha la responsabilità del “corpo della nazione”, ma l’idea che il governo corrisponda alla maggioranza che lo ha eletto. Questo è il segnale più preoccupante.

Da - https://luz.it/spns_article/massimiliano-panarari-intervista/
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