LA-U dell'OLIVO
Marzo 29, 2024, 02:29:37 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Enrico MARRO. Debito pubblico: come, quando e perché è esploso in Italia  (Letto 2478 volte)
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.754


Mostra profilo
« inserito:: Febbraio 03, 2019, 09:06:21 pm »

Debito pubblico: come, quando e perché è esploso in Italia

Di Enrico Marro 19 ottobre 2018

Se l’Italia si ritrova sempre nel mirino di mercati e agenzie di rating nonostante le dimensioni della sua economia e l’avanzo primario è per due motivi: una crescita stentata e un debito pubblico colossale, con la conseguente spesa per interessi. Ma come, quando e perché si è formato questo macigno che pesa da trent’anni sulle nostre vite?

Quattro fasi di boom del debito
Un interessante studio di Roberto Artoni, ex commissario Consob e docente emerito di Scienza delle finanze all’Università Bocconi di Milano, analizza l’andamento del rapporto debito-Pil individuando quattro fasi di impennata: le prime tre riassorbite nel giro di qualche anno, l’ultima (quella che stiamo vivendo da trent’anni) ormai cronica, nonostante gli sforzi compiuti.

Debito pubblico, i risparmi dei cittadini salveranno lo Stato?
Il primo boom del debito italiano si verifica nel 1897, con la crisi economica di fine Ottocento, quando raggiunge il 117% del Pil nonostante un saldo primario positivo. Solo con la tumultuosa crescita economica del periodo giolittiano torna a scendere a quota 70% (nonostante le spese legate alla guerra di Libia). Le altre due impennate del debito si verificano durante i conflitti mondiali. Nel primo dopoguerra, in particolare, l'enorme debito contratto per lo sforzo bellico tocca il 160% del Pil, a livelli non lontani da quelli attuali della Grecia.

La Grande Guerra e il dopoguerra
Come nota Artoni, il rapporto debito-Pil sale infatti dal 71% del 1913 al 99% del 1918, per poi impennarsi nel “biennio rosso” 1919-1920, raggiungendo il massimo storico di 160% nel 1920. Riuscire a ridurlo è un’impresa: quattro anni dopo è ancora al 142%. Solo con la sistemazione, o la cancellazione di fatto, dei debiti di guerra, oltre che con una rilevante caduta del debito interno, la seconda crisi di finanza pubblica viene superata.

La seconda guerra mondiale
Gli effetti della crisi del 1929 e della Grande Depressione tornano a far gonfiare il debito portandolo all'88% del Pil nel 1934, con una spesa costante in termini nominali ma una rilevante diminuzione delle entrate. Nella seconda metà degli anni Trenta, tuttavia, il buon andamento economico consente al Regno d’Italia di ridurre il passivo al 79% del prodotto interno lordo, nonostante l’aumento delle spese militari. L’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale torna però ovviamente a gonfiare il debito, che raggiunge il 108% nel 1943. Negli ultimi due anni del conflitto e nell’immediato secondo dopoguerra un’inflazione spaventosa sbriciola il debito, riportando il rapporto con il Pil al 40% (nel 1946).

Una foto dell'esplosione di oggetti in moplen, marchio registrato della nuova materia plastica - il polipropilene isotattico - scoperta negli anni cinquanta dal chimico imperiese Giulio Natta, che gli valse il premio Nobel per la chimica del 1963. E' l'Italia degli anni della ricostruzione e del boom economico-scientifico (ANSA)
Vent’anni di debito ai minimi
Nelle prime tre occasioni, quindi, inflazione e parziali ristrutturazioni del debito hanno contribuito a riportare la situazione sotto controllo: nel secondo dopoguerra il debito italiano si ritrova poco al di sopra del 20% del Pil. Ancora nel 1964, in pieno boom economico, quando l’economia italiana cresce in media del 5% annuo sostanzialmente senza inflazione, il rapporto debito-Pil si trova al 33%. Per quale motivo? Semplice: perché il costo del debito è inferiore al tasso di crescita e la politica fiscale si mantiene molto equilibrata, un po’ per scelta ma soprattutto per effetto del boom economico. «Se il debito aumenta ma aumenta anche la crescita non è un problema – spiega l’economista Alessandro Tentori, di AXA - perché il Paese può ripagarlo. Il problema si pone se la crescita nominale è più bassa del tasso dinteresse nominale sul debito perché, in questo caso, tende ad aumentare». Queste condizioni favorevoli continuano bene o male fino alla fine degli anni Sessanta. Attenzione però, perché nel 1968 il rapporto debito-Pil già è aumentato dal 33% di cinque anni prima al 41%, mentre emergono le prime tensioni finanziarie ed economiche, sia sul piano interno che su quello internazionale.

Il ventennio perduto del debito (1974-94)
La quarta fase di boom del debito è quella di cui stiamo ancora pagando le conseguenze. «È il problema veramente aperto», sottolinea Artoni, visto che per la prima volta nella storia d’Italia non stiamo riuscendo a riassorbirlo. Gli sforzi non sono mancati: il nostro Paese è stato l’unico in Europa a chiudere in attivo (al netto degli interessi sul debito) 22 bilanci pubblici su 23 tra il 1995 e il 2017. Nel 2007 siamo riusciti a riportare il “mostro” al di sotto del confine del 100%, ma la Grande Crisi l’ha fatto ripiombare al di sopra del 130% del Pil. Zavorrati verso il fondo dalla spesa per interessi e da una crescita economica anemica, non riusciamo a uscire da questa palude del debito creata in un’altra epoca. Ma vediamo in dettaglio come si sono create le sabbie mobili nelle quali siamo imprigionati.

Gli anni Settanta
Dal 1968 al 1983 la situazione delle nostre finanze pubbliche inizia a precipitare. La crescita per fortuna resta buona, intorno al 3% medio annuo (anche se siamo lontani dalle performance del “miracolo economico”) ma con la crisi petrolifera del 1973 esplode un’inflazione galoppante (da noi ulteriormente “pompata” dalle svalutazioni della lira). In Italia il carovita vola dal 5,2% del 1972 al 19% del 1974, mantenendosi attorno al 15% fino alla fine del decennio, quando si impenna di nuovo fino a toccare uno spaventoso 21,7%. In questo periodo va però sottolineato come i tassi reali siano fortemente negativi grazie a una politica monetaria statunitense molto permissiva. Intanto il miglioramento del welfare, processo in atto dal decennio precedente, provoca un aumento della spesa pubblica che si combina con la stagnazione delle entrate dando vita a un mix fatale che dal 1973 in poi ci porta a chiudere bilanci in pesante deficit (fino al 10%, più del triplo rispetto alle soglie del Trattato di Maastricht).

Il debito però non esplode, aumentando sì nei primi anni Settanta per via della recessione ma restando poi sostanzialmente stabile: nel 1981 si trova ancora al 60% del Pil. Per quale motivo? Perché dal 1975 la Banca d’Italia si impegna a garantire il successo delle aste dei titoli di Stato, stampando moneta per comprare le obbligazioni rimaste invendute (dal 1975 al 1981 gli interessi che pagavamo infatti erano in media inferiori del 10% rispetto all’inflazione, quindi collocare “carta” governativa era un’impresa ardua). In questo modo il costo dell’aumento del debito sparisce dai conti pubblici ma si scarica sulla lira, che non a caso nella seconda metà degli anni Settanta si svaluta di un impressionante 40% rispetto al dollaro.

LA CRESCITA DELLA SPESA DAL 1950
Gli anni Ottanta
Nel 1981 esplode la bomba nucleare che condanna l’Italia a morire di debito, complice la cronica avversione dei Governi dell’epoca alla disciplina di bilancio. Viene innescata negli Stati Uniti dal nuovo presidente Ronald Reagan e dal Governatore della Federal Reserve Paul Volcker, che decidono di dichiarare guerra all’inflazione (allora al 14% negli Usa). La Fed dà vita a una memorabile stretta sui tassi, passati in sei mesi dal 9% a quasi il 19%, abbattendo il carovita (nel 1983 oltreoceano al 3,2%) ma innescando una mini-recessione prima del boom economico. Tutte le altre banche centrali del pianeta sono costrette a inseguire la Fed, compresa Bankitalia.


Il divorzio Tesoro-Bankitalia
È in questo contesto che nel luglio 1981 il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e il Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi avviano il “divorzio”: via Nazionale, come altre banche centrali, si libera dall’obbligo di acquistare i titoli di Stato invenduti, tornando a essere indipendente nelle sue scelte di politica monetaria. La decisione, avversata da tutti i principali partiti politici, permette alla lira di restare all’interno del Sistema monetario europeo, la banda di fluttuazioni tra le valute del Vecchio Continente introdotta nel 1979 e destinata a diventare il nucleo della futura Unione monetaria.

IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO NELLA STORIA
Rapporto percentuale debito/Pil. (Fonte: Banca d'Italia)

Il 1982
Il nostro Paese arriva al 1982 in condizioni sudamericane: l’inflazione viaggia intorno al 17% divorando il potere d’acquisto di stipendi, risparmi e pensioni, i tassi d’interesse all’inizio dell’anno superano il 25%, lo spread tra i decennali italiani e quelli della Repubblica federale tedesca tocca l’inimmaginabile record di 1175 punti base. Una vetta mai più raggiunta nemmeno durante Tangentopoli e la crisi della lira (769 punti base), o nella crisi del debito sovrano del 2011 che costò il posto a Berlusconi e spianò la strada a Monti (574 punti base).

Gli avvertimenti di Ciampi
Proprio nell’anno in cui gli azzurri alzano al cielo la Coppa del Mondo a Madrid, Banca d'Italia mette in guarda i Governi dall’usare l'arma della spesa pubblica con eccessiva disinvoltura, rischiando di creare quel colossale debito che poi si è materializzato e che da trent’anni ci pende, affilatissimo, sul collo, rubandoci il futuro. «Nel biennio 1981-82 il prodotto interno lordo è rimasto stazionario - scrive il Governatore Ciampi - ma il settore pubblico ha aumentato del 14% il suo debito in termini reali, mentre il debito del Paese verso l’estero è aumentato di 9 miliardi di dollari». Il disavanzo delle amministrazioni pubbliche italiane nel quinquennio 1977-82 ha superato il 10% del Pil, notava preoccupata Bankitalia, contro l’1% degli Stati Uniti.

Cordoni della spesa allargati
Su spesa pubblica, deficit e debito bisogna correggere la rotta, sottolinea Ciampi: «La correzione deve affrontare il problema della spesa, modificandone l’angolo di rotta. I progressi nel campo della funzione sociale potranno essere salvaguardati e resi duraturi solo se saranno posti in una vera cornice di giustizia distributiva, di stabilità monetaria, di efficienza». Ma la realtà è un’altra: nell’Italia del 1982 vengono allegramente «introdotti sistemi di intervento pubblico che comportano nel presente, e ancor più nel futuro, spese incompatibili con le più ottimistiche previsioni di crescita - conclude amaramente il futuro presidente della Repubblica - promettendo la distribuzione di un reddito non prodotto e non producibile in tempi brevi».

L'ANDAMENTO DEL RAPPORTO DEFICIT-PIL
Dati in percentuale dal 1960 al 2000. (Fonte: Bankitalia)

L’esplosione del debito: 1983-1990
Le parole di Ciampi cadono nel vuoto. I Governi italiani che si succedono negli anni Ottanta continuano a mantenere saldi primari negativi al limite dell’indecenza (si sfiora il 15%), sorvolando allegramente sulla disciplina di bilancio. È in questi anni che il debito decolla, anche perché con un'inflazione che non scende sotto il 10% fino al 1985, per trovare acquirenti di BoT e BTp il tasso medio dei nostri titoli di Stato resta sempre a doppia cifra. Il mostro del debito diventa spaventoso: nel 1980 era appena sotto il 60%, ma dieci anni dopo è già volato al 100% del Pil.

Bettino Craxi e Giulio Andreotti negli anni Ottanta (Agf).
E pensare che quello degli anni Ottanta è un periodo di crescita economica apprezzabile, nota Artoni, e soprattutto di incremento delle entrate, che aumentano di otto punti percentuali. Il grande problema restano i tassi di interesse reali che dobbiamo pagare sul debito. Spaventosamente alti. Viaggiano intorno al 5%, con un’incidenza della spesa per interessi sul debito pubblico che nel 1994 raggiungerà il 12% del Pil. «In questo periodo deve essere sottolineata la passività delle nostre autorità di politica economica - accusa Artoni - che hanno assistito inerti all’evoluzione della nostra finanza pubblica, forse soddisfatte del fatto che a tassi di interesse reali così elevati fosse comunque possibile il finanziamento del Tesoro».

Il finanziere George Soros (Ap).
La spallata di Soros
Nell’estate del 1992, pochi mesi dopo la firma del trattato di Maastricht, arriva la spallata sui mercati: il finanziere George Soros mette alla prova la tenuta dello Sme con un violento attacco speculativo, spingendo sterlina britannica e lira quasi fuori dal sistema e costringendo Bankitalia a una svalutazione brusca del 7%. Nel 1994 il debito pubblico raggiunge il 124% del Pil. Da allora è passato quasi un quarto di secolo, ma siamo ancora all’anno zero. Anzi in condizioni peggiori, con un passivo superiore al 130% del Pil. Condannati a morire di debito.

© Riproduzione riservata

Da - https://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-10-18/debito-pubblico-come-quando-e-perche-e-esploso-italia-172509.shtml?uuid=AEMRbSRG&cmpid=nl_morning24
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.754


Mostra profilo
« Risposta #1 inserito:: Settembre 12, 2019, 11:12:50 am »

LO SCENARIO ITALEXIT

Uscire dall’euro? Cosa succederebbe a stipendi, pensioni, mutui e bollette

Di Enrico Marro

Nel 2017 liquidate oltre 124mila pensioni pubbliche, il 51% anticipate

Cosa accadrebbe se l’Italia uscisse dall’euro? Quale sarebbe il contraccolpo su stipendi, risparmi, pensioni, mutui, inflazione e spesa al supermercato?

Proviamo per un attimo a mettere da parte i colossali e pressoché insolubili problemi iniziali, dal quadro giuridico all’inevitabile fuga dei capitali (menzionata anche dal famoso “piano B” firmato da Paolo Savona , che ha studiato seriamente gli esempi della dissoluzione dell’Impero Austro-ungarico e dell’Unione Sovietica), fino alla possibilità più che concreta che l’Italia finisca in default.

Senza contare gli almeno 350-400 miliardi di euro che il nostro Paese dovrebbe pagare immediatamente perché in enorme deficit nel Target 2, il sistema di pagamenti delle banche centrali dell’eurozona. Fino alla prospettiva della stessa disgregazione dell’Unione monetaria.

Scogli insuperabili, prospettive sudamericane che nessuno vorrebbe vivere sulla sua pelle. Ma facciamo un piccolo esercizio d’accademia per capire come sarebbe l’Italia nella fantascientifica ipotesi di un ritorno alla lira, pianificata e composta anche se organizzata all’improvviso per non creare crisi di liquidità (come prevedeva il “piano B”).

Uscire dall’euro: cosa succede all’inflazione
Libera dai vincoli comunitari, Bankitalia inizierebbe a stampare selvaggiamente moneta per sostenere il debito pubblico. Con un primo importante risultato: ritorneremmo all’inflazione a doppia cifra, quella che chi ha i capelli grigi ha già toccato con mano negli anni Settanta e Ottanta (quando sorpassò il 21%). Il caro vita farebbe volare i prezzi dei generi di consumo, schiacciando a terra il potere d’acquisto degli italiani, come potrebbero agevolmente raccontare i poveri venezuelani che pagano una sigaretta circa il 12% del loro stipendio minimo mensile. I prezzi di generi alimentari e materie prime importate andrebbero infatti alle stelle.


Uscire dall’euro: cosa succede a stipendi e pensioni
Il carovita rappresenterebbe insomma una colossale tassa patrimoniale sul collo degli italiani, soprattutto quelli con entrate fisse, facendo a pezzi il potere d’acquisto di stipendi e pensioni. Sempre che gli stipendi esistano ancora, poiché l’impennata dei costi di finanziamento delle aziende manderebbe al tappeto investimenti e imprese stesse, con il risultato di far impennare la disoccupazione. Della nuova lira ipersvalutata, infatti, incasserebbero qualche misero vantaggio solo le imprese che esportano prodotti a basso valore aggiunto, le quali comunque dovrebbero fare i conti con la perdita del potere d’acquisto delle famiglie italiane e la crisi dei consumi (ma anche con la necessità di adeguare gli stipendi alla corsa dell’inflazione, problema attuale del presidente argentino Macri). Chiunque desideri raccogliere capitali sui mercati internazionali a tassi accettabili, probabilmente sposterà l’azienda all’estero.

Visco: destino Italia è in Europa, taglio debito no scorciatoie
Uscire dall’euro: cosa succede a immobili, mutui e bollette
Anche i mutui immobiliari, dovuti a banche che probabilmente sarebbero state in buona parte nazionalizzate per garantirne la sopravvivenza, esploderebbero per l’effetto inflazione, per l’effetto tassi ma anche per l’effetto cambio: essendo stati stipulati in euro, diventerebbero sempre più cari perché la nuova lira difficilmente riuscirebbe a mantenere il passo con la vecchia moneta unica, resa forte dalla presenza della Germania nell’unione monetaria.

Stendiamo un velo pietoso sul capitolo bollette, visto che non siamo autosufficienti dal punto di vista energetico e che comprare elettricità e gas sui mercati esteri, con una lira svalutata, costerebbe un capitale (che poi finirebbe nelle bollette).

Uscire dall’euro: cosa succede a risparmio e investimenti
Anche i titoli di Stato perderebbero rapidamente valore, divorati dall’inflazione, mentre ovviamente il debito pubblico italiano diventerebbe sempre più difficile da collocare, con i mercati in grado di imporre tassi d’interesse enormi per prestare soldi all’Italia della nuova lira. Una valuta a livelli di fragilità simili a quelli del peso argentino e della lira turca, in caduta libera proprio nelle ultime settimane. Diventeremmo insomma un Paese emergente, in un triste tango a braccetto con Buenos Aires.

Riproduzione riservata ©

Da - https://www.ilsole24ore.com/art/uscire-dall-euro-cosa-succederebbe-stipendi-pensioni-mutui-e-bollette-AExLxGxE?fbclid=IwAR1ltABQDi3FgCpJNkg7t52cYz5QiEKoryC8LyJHw4CNi1DTonHShOAwXbI
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.754


Mostra profilo
« Risposta #2 inserito:: Ottobre 06, 2019, 09:07:16 pm »

320 KM

Banksy, la mappa delle opere per un viaggio on the road in Gran Bretagna

TomTom ha creato un itinerario ad hoc, da Port Talbot a Londra passando per Bristol, per osservare da vicino i graffiti del misterioso maestro della street art

Di Enrico Marro
Non cercateli nei musei o nelle gallerie d’arte: i capolavori di Banksy, sconosciuto e irriverente maestro della street art, sono post-graffiti che trovano espressione solo nella dimensione pubblica dello spazio urbano. Ovvero in strada. La sola possibilità di vedere le sue sarcastiche opere, così intriganti nel manipolare i codici comunicativi della cultura di massa, è cercarle nel luogo dove sono state create. Difficile ma non impossibile, anche perché TomTom ha creato un itinerario di un fine settimana per gli appassionati di arte alla ricerca di Banksy, presentato alla recente Design Week di Londra.

Il punto di partenza perfetto è nel Galles, dove nel dicembre del 2018 l’opera “Season’s Greetings” ha fatto la sua prima apparizione sul muro di un’autorimessa a Port Talbot: il bambino raffigurato sembra catturare dei fiocchi di neve con la bocca, ma se si guarda l’intera prospettiva si tratta in realtà di cenere proveniente da un cassonetto in fiamme. L’opera è già stata acquistata da un mercante d’arte, ma c'è ancora tempo di vederla nella sua nuova sede, la vecchia stazione di polizia di Port Talbot a Station Road, nel centro cittadino.

Da Port Talbot in meno di due ore si raggiunge Bristol attraversando il fiume Severn, dove l’itinerario di Tom Tom porta al cospetto di “Hung Lover”, un amante nudo appeso a una finestra per nascondersi dal marito arrabbiato, di “Mild Mild West”, un orsacchiotto che lancia un cocktail molotov a tre poliziotti antisommossa, oltre naturalmente alla “Girl with the Burst Eardrum”, irriverente citazione della “Ragazza con l’Orecchino di Perla” di Vermeer.

La tappa a Londra
La via più breve è l'autostrada M4, ma è molto più piacevole prendere la vecchia A4, una strada che sotto molti aspetti è precedente alle vie Romane che collegano la zona sud-occidentale alla capitale. A parte Bristol, probabilmente Londra ospita più opere di Banksy di qualunque altra città. Due opere da non perdere sono state create a settembre del 2017 sui muri esterni del Barbican Exhibition Center, omaggio all’artista americano Jean-Michel Basquiat, e ora dotate di una protezione permanente.

Bristol Street Art tour
Dopo avere lasciato il Barbican Centre, si prosegue in direzione nord-est per poco meno di tre chilometri, fino a raggiungere Pollard Street, strada modesta dove una delle prime opere famose di Banksy sta gradualmente svanendo: si tratta di “Yellow Lines Flower Painter”, che raffigura un operaio stradale mentre dipinge delle righe gialle che si allontanano dalla strada, continuano sul marciapiede e sul muro e formano un grande fiore giallo.
24 settembre 2019

Riproduzione riservata ©
Da - https://www.ilsole24ore.com/art/banksy-mappa-opere-un-viaggio-on-the-road-gran-bretagna-AC2y8Dm?cmpid=nl_lifestyle
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!