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Autore Discussione: «Il Bauhaus, una volta realtà, oggi è favola», scriveva Tomás Maldonado  (Letto 1322 volte)
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« inserito:: Gennaio 08, 2019, 11:48:13 pm »

Anniversari
 1. La rivoluzionaria scuola d’arte, architettura e design venne fondata da Walter Gropius nel 1919:
in arrivo mostre, pubblicazioni e festival per celebrarlo. E ben tre musei sul tema sono pronti ad aprire i battenti

Bauhaus, scoppiettante centenario

«Il Bauhaus, una volta realtà, oggi è favola», scriveva Tomás Maldonado nel 1970. Nel 2019, anno del suo centenario, il Bauhaus – rivoluzionaria scuola d’arte, architettura e design fondata da Walter Gropius nel 1919 – è addirittura un mito, e come tale sarà glorificato in tutta la Germania. Si comincerà danzando, con un grande festival di musica e teatro a Berlino, e poi via con un tripudio di mostre, pubblicazioni e spazi espositivi dedicati: ben tre sono infatti i nuovi musei in costruzione, uno per ognuna delle città che l’ospitarono.
A Weimar, dove tutto nacque, aprirà il 6 aprile un nuovo Bauhaus Museum, concepito dall’architetto Heike Hanada per sostituire il vecchio, ormai inadeguato per contenere la ricca collezione locale. L’edificio (da 23 milioni di euro) è un parallelepipedo di vetro satinato con grandi aperture sul verde del Weimarhallenpark. Nella città di Dessau, dove Gropius spostò nel 1925 la Scuola, procedono i lavori per un altro museo, firmato dai catalani Addenda Architects, che è quasi una citazione delle strutture in vetro e metallo di Mies van der Rohe, ultimo direttore. Sarà pronto a fine 2019. A Berlino, ultima sede della Scuola (1930-33), è invece in cantiere l’ampliamento del Bauhaus-Archiv, archivio/museo progettato da Gropius nel 1963: l’architetto Volker Staab riorganizzerà gli spazi e costruirà una torre vetrata; per completare il progetto ci vorrà però qualche anno.
Nicht nur Bauhaus: non solo Bauhaus (è il titolo di uno dei tanti convegni del 2019). Il centenario sarà infatti l’occasione per valorizzare le collezioni di design e l’architettura moderna di tutto il paese. Ad esempio a Stoccarda, che possiede le opere di Schlemmer, noto per l’attività teatrale; o nella regione del Nordreno-Vestfalia, dove sono previsti approfondimenti su Mies e un’installazione dell’artista Thomas Schütte. Per la lista completa: www.bauhaus100.de.
La portata delle celebrazioni fa riflettere. Per quanto la storia del Bauhaus sia stata eccezionale – si pensi ai nomi dei suoi maestri e allievi: da Klee a Kandinskij, da Marcel Breuer a Marianne Brandt –, essa non basta a spiegare perché oggi il centenario riesca a muovere tante risorse. Per capire come mai una piccola scuola – durata appena 14 anni e con un totale di circa 1250 studenti – sia diventata leggenda, bisogna analizzarne la fortuna mediatica e critica postuma.
Gropius fu fin da subito impegnato a diffonderne l’immagine tramite manifesti, fotografie (studiate e ritoccate), mostre e libri; addirittura con francobolli celebrativi e feste sulle note della «Bauhaus Band». La chiusura obbligata dai nazisti nel 1933 – epilogo sacrificale e quindi epico – portò alla diaspora e alla diffusione internazionale delle sue idee. Negli Stati Uniti, innanzitutto, dove i Maestri furono accolti a braccia aperte: Gropius ad Harvard, Mies a Chicago, Josef e Anni Albers al Black Mountain College; Moholy-Nagy avviò il «New Bauhaus» di Chicago. Nel 1938 il MoMA di New York allestì la mostra della consacrazione (Bauhaus 1919-1928), per poi dichiarare i debiti verso la Scuola nell’organizzazione multidisciplinare dei suoi dipartimenti. E proprio il MoMA festeggiò con una grande esposizione il 90esimo compleanno, nel 2009. Ma non solo Stati Uniti. Dal prossimo marzo, a Berlino la mostra Bauhaus Imaginista ci spiegherà infatti come il verbo abbia attecchito anche altrove (Giappone, Cina, Russia, Brasile, India, Marocco, Nigeria), restituendo il complesso mosaico della global history del Bauhaus.
Al contrario, nella DDR il fenomeno fu relegato in un angolo fino agli anni Sessanta, in quanto espressione di una cultura borghese: emblematico è il caso della villa di Gropius a Dessau, che fu sostituita da una scialba casetta col tetto a punta. Dall’altra parte del Muro, Max Bill (ex studente) cercò invece di ricreare un’esperienza simile con la Scuola di Ulm, mentre in Italia nel 1951 Giulio Carlo Argan dedicava al Bauhaus una storica monografia edita da Einaudi. Oltre oceano, la fama continuò a prosperare almeno fino alla morte del suo fondatore (1969) e all’arrivo del vento postmoderno: famoso è il pamphlet di Tom Wolfe intitolato From Bauhaus to Our House (1981) – in italiano Maledetti architetti – in cui lo scrittore attaccava il colonialismo intellettuale di Gropius e compagni, causa della «perdita della qualità della vita» in America.
Intanto, ai giorni nostri, il mito si espande oltremisura. Lo scorso aprile la città cinese di Hangzhou ha aperto il China Design Museum per esporre 7mila pezzi legati al Bauhaus, acquistati nel 2010, segnando un allargamento della geografia del collezionismo legato al design. Altro fenomeno interessante è la cosiddetta «trivializzazione» del nome della Scuola, sfruttato per iniziative lontane dallo spirito originale: negozi di bricolage, giocattoli, annunci immobiliari, birrifici e anche la band post-punk britannica «Bauhaus», fondata nel 1978. «La crescente autonomia del nome Bauhaus – si chiedeva Annemarie Jaeggi, direttrice dell’Archivio berlinese – ha forse reso la scuola vittima della sua stessa stilizzazione, un oggetto di riferimento immortale ma sempre più vuoto di contenuto? E si riuscirà a convertire anche questa forma di attenzione in una fonte di ricerca?».
Ma la domanda centrale in questo giubileo riguarda il valore attuale del Bauhaus come esperimento pedagogico e riferimento progettuale. Quali aspetti stimolano ancora oggi artisti, designer e architetti? La Scuola tedesca, riformista e antiaccademica, offrì molte lezioni: l’esaltazione della creatività individuale, la complementarietà delle pratiche artistiche, il valore della sperimentazione e del lavoro collettivo, l’ambizione sociale del progetto, l’importanza di tecniche e materiali, la ricerca dell’essenzialità, l’apertura internazionale. Concetti affascinanti, parte di ciò che il critico Reyner Banham definì «il Vangelo del Bauhaus», ma anche soggettivi e interpretabili in molti modi, come vedremo nei prossimi mesi. Il mito è servito: in tutti i sensi.
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Gabriele Neri

Da - https://www.quotidiano.ilsole24ore.com/edicola24web/edicola24web.html?testata=S24&issue=20190106&edizione=SOLE&startpage=1&displaypages=2
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