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Autore Discussione: I primi 20 anni dell'euro: le cose non dette  (Letto 1726 volte)
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« inserito:: Gennaio 04, 2019, 06:14:37 pm »

01 gennaio 2018

 I primi 20 anni dell'euro: le cose non dette
L’Euro è nato il 1 gennaio 1999, esattamente 20 anni fa.

Da quel giorno il cambio tra le vecchie monete nazionali e l’euro è divenuto irreversibile, e sui mercati si è potuto scambiare solo euro. I nostri stipendi, conti correnti, mutui da quel momento in poi erano in euro. È importante ricordarlo, perché nell’immaginario collettivo la nascita dell’euro è in realtà spostata avanti di 3 anni, all’avvio della circolazione fisica dell’euro, il 1 gennaio 2002. Ma in quei tre anni c’era già l’euro e circolavano diverse frazioni di esso sotto forma di vecchie banconote e monete nazionali sulla base del cambio divenuto irreversibile. Questa discrepanza tra la realtà della nascita dell’euro e la percezione dell’avvio della moneta unica è foriera di molte incomprensioni rispetto agli ultimi 20 anni.

Vorrei celebrare questa ricorrenza mettendo in luce 20 cose spesso dimenticate o non dette sull’euro, sulle sue origini, sul suo significato storico, sui suoi effetti, sui suoi limiti. Alcune positive, alcune meno, ma non per questo meno rilevanti per capire il presente e l’assoluta urgenza di completare l’unione economica e monetaria. È anche un modo per cercare di favorire in Italia l’emergere di una memoria condivisa e di una comprensione adeguata di alcuni dei passaggi storici più importanti della nostra storia recente, rispetto ai quali continuano a imperversare nel dibattito affermazioni prive di senso.

L’Euro, come ogni moneta, è un’istituzione. È quindi una creazione eminentemente politica, anche se ha poi un fondamentale utilizzo ed impatto nel campo economico e finanziario. È la creazione di una piena sovranità europea in ambito monetario.
Per far funzionare un’unione monetaria è indispensabile anche una qualche forma di condivisione della sovranità economica e fiscale. La soluzione più logica ed efficace sarebbe stata la creazione di un governo europeo dell’economia dotato di poteri fiscali. Ma la Francia si oppose e si scelse quindi la via dei parametri di convergenza, poi il Patto di stabilità e crescita: ovvero di fissare delle regole europee sulle politiche fiscali che avrebbero segnato i confini ed i limiti entro i quali si sarebbe potuta esercitare la sovranità fiscale nazionale, in modo che non mettesse a rischio la moneta unica e quindi i risparmi e i redditi di tutti.
L’unione monetaria è stata il completamento di un percorso che è consistito sostanzialmente nella risposta europea a due grandi shock esterni. Il primo fu l’inconvertibilità del Dollaro in oro nel 1971 – che ha reso possibile lo shock petrolifero del 1973 e portato alla finanziarizzazione dell’economia. La risposta europea fu l’avvio della cooperazione e poi dell’integrazione monetaria con l’ECU e poi il Sistema Monetario Europeo. Il secondo fu la caduta dell’URSS e del Muro di Berlino del 1989 e la prospettiva della riunificazione tedesca. Per accettarla gli europei chiesero alla Germania di rinunciare alla propria sovranità monetaria, al marco, che era la moneta dominante in Europa.
Infatti, contrariamente a quanto sostengono i no-euro contemporanei, nei due decenni precedenti la nascita dell’euro ogni qualvolta la Bundesbank tedesca cambiava i tassi di interesse, le altre banche centrali nazionali seguivano a ruota. Cioè l’unico Paese davvero sovrano sul piano monetario era la Germania. Politicamente l'euro fu la cessione del Marco all'Europa da parte della Germania al fine di garantire se stessa e gli altri che la Germania riunificata ‎non avrebbe comportato un'Europa tedesca ma una Germania europea. I benefici di una moneta stabile, bassa inflazione e bassi tassi, che erano stati alla base del successo economico tedesco venivano condivisi con gli altri europei.
L’euro non è affatto un diabolico disegno egemonico tedesco, ma fu lo strumento europeo per impedire un’egemonia tedesca. E infatti inizialmente con l'euro la Germania divenne "il grande malato" d'Europa. Servirono le riforme di Schroeder per rilanciare la competitività tedesca e la sua economia.
Quando nel dicembre del 1997 furono decisi‎ i Paesi ammessi alla terza fase dell'Unione Economica e Monetaria, tra cui l'Italia, i tassi di interesse sui debiti pubblici iniziarono a convergere rapidamente. In pochi mesi il famigerato spread scese di circa 400 punti. In pratica da quel momento abbiamo risparmiato 4 punti percentuali di interessi l’anno sul debito pubblico italiano. Allora il nostro debito era circa il 120% del PIL, quindi il risparmio era di circa il 4,8% del PIL all'anno. Bastava mantenere le tasse e le spese com'erano, senza fare nulla, senza rigore o austerity, e il debito sarebbe sceso di circa 5 punti percentuali l'anno. E' ciò che ha fatto il Belgio: entrato nell'euro con un debito del 120% del PIL nel 1997, allo vigilia della crisi nel 2007 l'aveva ridotto all'87%.
Tale beneficio fu immediatamente evidente agli italiani: il governo Prodi dapprima fu costretto a imporre la “Tassa per l’Europa” per centrare il parametro del deficit e entrare nella moneta unica, e l’anno successivo la restituì all’80%! Com’era possibile che un anno lo Stato italiano fosse messo talmente male da dover imporre una tassa straordinaria e l’anno dopo fosse invece nelle condizioni non solo di non ripetere tale tassa, ma addirittura da restituirne l’80%? Grazie al primo “dividendo” dell’euro, ovvero la riduzione del costo del servizio del debito pubblico, cioè la discesa dei tassi di interesse.
I tassi bassi favorirono un boom degli investimenti intra-europei e portarono crescita e occupazione. Per la prima volta dopo 30 anni nei primi 10 anni dell'Euro il mercato europeo ha prodotto più posti di lavoro di quello americano. Inoltre i tassi bassi e la moneta stabile hanno permesso a moltissimi italiani - in precedenza abituati a tassi di interesse molto più elevati - di acquistare casa‎ grazie a mutui improvvisamente molto più convenienti e stabili che in passato.
Purtroppo per l'Italia la manna dei tassi bassi fu usata dal centro-destra per aumentare la spesa corrente azzerando l'avanzo primario. Questa prassi si è manifestata costantemente durante tutti i governi Berlusconi dal 1994 al 2011. Così è toccato sempre al centro-sinistra nei brevi periodi al governo di dover risanare i bilanci pubblici per evitare contraccolpi sui mercati. Straordinari al ‎riguardo i disastri provocati dall'ultimo governo di centro-destra durante la crisi. Con il secondo governo Prodi il debito era sceso al 104% e lo spread a 34 punti! In pratica l'Italia pagava di interessi sul debito solo lo 0,34% in più della Germania, che aveva un debito molto più basso. In tre anni di centro-destra al governo, con la maggioranza più ampia della storia della Repubblica e in grado di legiferare come voleva, il debito è risalito al 116% e lo spread a 565, cioè pagavamo 5,65% più della Germania di interessi sul debito: un’enormità. Che ci ha portato a rischio default. Il centro-destra non ha voluto prendersi la responsabilità delle misure di risanamento necessarie e Berlusconi preferì dimettersi lasciando l'ingrato compito al Governo Monti. Monti non solo dovette approvare di corsa una serie di misure lacrime e sangue, per sistemare i conti, ma fu anche costretto a cambiarle in corso d'opera a danno dei ceti popolari, per poter avere il voto in Parlamento del Popolo delle Libertà, il gruppo più numeroso a sostegno del suo governo. Anche se oggi alcuni nel centro-destra fingono di esser stati all’opposizione invece che al governo nella legislatura 2008-2013.
Dal punto di vista‎ economico un mercato unico e una moneta unica obbligavano a competere attraverso l'efficienza dei sistemi-Paesi e l'innovazione di prodotto e di processo. Obbligava alla competizione verso l'alto, invece che verso il basso sul costo del lavoro. Perché veniva meno la scorciatoia della svalutazione, che avvantaggia pochi esportatori e impoverisce tutti i cittadini e i risparmiatori. Ecco perché l'attenzione e il dibattito si sono spostati‎ sulle riforme strutturali. L'adesione all'euro permetteva all'Italia - e agli altri Paesi - di competere su un piano di parità. Era l'iscrizione alla gara e  ora bisognava iniziare a correre, come inutilmente predicò Ciampi dal Quirinale. Ma nel centro-destra e in gran parte del Paese l’ingresso nella moneta unica fu percepito come l'aver vinto la gara. E ci sedemmo, stanchi e soddisfatti, cogliendo i primi frutti dell'euro: i vantaggi dei tassi bassi di cui ho detto prima. Oggi paghiamo i costi della miopia della classe dirigente italiana di‎ allora con una competitività decrescente e la crisi economica.
È un mito che il problema dell'adesione italiana all'Euro‎ sia stata una inadeguata negoziazione del tasso di cambio tra la lira e l'euro alla sua nascita il 1 gennaio del 1999. In realtà per tutte le monete fu utilizzato lo stesso criterio: la media del cambio dei 3 anni precedenti. Ogni polemica su questo è pretestuosa.
È una clamorosa bugia che l'aumento dei prezzi seguito all'avvio della circolazione fisica dell'euro, il 1 gennaio del 2002, sia dovuto al cambio o alla moneta unica in sé. Infatti tale aumento non si verificò nella stessa misura in altri Paesi. Il problema fu che il cambio non venne osservato. Questo fu dovuto ad una scelta politica ben precisa del centro-destra, che avendo vinto le elezioni del 2001 tra i suoi primi atti al governo abolì l'obbligo del doppio prezzo per sei mesi e gli osservatori sul change over (il passaggio della circolazione fisica dalla Lira all’Euro) che erano già stati creati presso tutte le province. Il centro-destra smantellò deliberatamente gli strumenti di controllo già predisposti dai governi precedenti, ovvero da Ciampi e Letta, scegliendo di non applicare le indicazioni dell'Unione Europea rispetto alla gestione del change over. In pratica Forza Italia, Lega e Alleanza Nazionale decisero di usare il change over per realizzare una massiccia redistribuzione del reddito nazionale dai percettori di redditi fissi (lavoratori dipendenti e pensionati) a favore di tutti coloro che potevamo cambiare liberamente i propri prezzi e tariffe, ovvero commercianti‎, categorie produttive, partite iva, che consideravano la loro base elettorale. Che proprio le forze del centro-destra ora attacchino l'euro e gli attribuiscano l'aumento dei prezzi è davvero paradossale. È bene che gli italiani sappiano chi devono ringraziare per l'erosione del loro potere d'acquisto.
La percezione sociale dell'euro fu anche vittima di una sfortunata concomitanza. L'avvio della circolazione fisica dell'euro il 1 gennaio 2002 è infatti avvenuta nel pieno dell'impennata del prezzo del petrolio dopo l'attacco alle Torri gemelle dell'11 settembre 2001. Il greggio aumentò progressivamente da 18 fino a 144 dollari al barile, per poi stabilizzarsi per un po’ intorno ai 100 dollari e attualmente intorno ai 70 (sempre più di 3 volte il prezzo prima dell’11 settembre). Ovviamente ciò ha comportato un aumento dei costi di produzione e trasporto e quindi dei prezzi di tutti i beni.
Eppure non abbiamo l'espressione "shock petrolifero" per indicare questo periodo. Perché il petrolio si paga in dollari. Alla nascita l'euro valeva 1,16 dollari. E all’inizio si è progressivamente svalutato, favorendo le esportazioni europee, fino ad un minimo intorno a 0,70 dollari. Ma quando il greggio ha iniziato a salire, l’euro si è apprezzato, fino a 1,45 dollari, cioè praticamente raddoppiando il suo valore e assorbendo buona parte dello shock petrolifero. In sostanza l'euro ci ha salvato dallo shock petrolifero, ma ne è rimasto vittima nella percezione sociale a causa della concomitanza tra l’avvio della circolazione fisica dell’euro e l’avvio della fase di aumento del prezzo del petrolio.
Dopo la firma del Trattato di Maastricht le maggiori critiche all’architettura dell’unione monetaria furono quelle dei federalisti, che sostenevano l’insostenibilità di un’unione monetaria senza un’unione economica, fiscale e politica. All’epoca vi era un grande consenso su questo. In una serie di dibattiti promossi dall’Istituto degli Affari Economici di Londra l’euroscettico conservatore Portillo ammetteva che la moneta unica avrebbe permesso un miglior funzionamento del mercato unico, ma lui era comunque contrario perché avrebbe portato inevitabilmente all’unione politica, che lui aborriva. Mentre l’economista europeista tedesco Issing (poi membro del Board della Banca Centrale Europea) sosteneva che certo l’unione monetaria disegnata a Maastricht era incompleta e non avrebbe potuto funzionare nel lungo periodo, ma lui era comunque favorevole, perché avrebbe costretto a completare l’unione economica e politica. Paradossalmente, contro tutte queste previsioni, i primi 10 anni dell’euro sono stati un grande successo e ciò ha fatto perdere quella consapevolezza.
Di fronte alla crisi finanziaria del 2008 i limiti dell’architettura di Maastricht sono emersi nuovamente. L’assenza di una capacità fiscale europea, e quindi di strumenti per la stabilizzazione macro-economica, per affrontare crisi asimmetriche, e per mettere in campo una politica economica anti-crisi sono divenute evidenti. E la convergenza economica si è deteriorata.
Tutti sanno cosa serve. Il Blueprint della Commissione del 2011, il Rapporto dei Quattro Presidenti delle istituzioni europee del 2012, quello dei Cinque Presidenti (includendo stavolta anche il Parlamento europeo) del 2015, e le successive proposte della Commissione Juncker mettono in chiaro che senza l’unione bancaria, fiscale, economica e politica la moneta unica nel lungo periodo non può funzionare. Ciò che manca è la volontà politica, la leadership politica a livello europeo.
Ciò non significa che non siano stati fatti passi avanti, con la creazione di alcuni strumenti per affrontare le crisi, come l’unione bancaria, il rafforzamento delle competenze e dei poteri della BCE sulle banche sistemiche, il Meccanismo Europeo di Stabilità, e il recente accordo per utilizzarlo come backstop del Fondo di Risoluzione dell’unione bancaria. Così come il Fiscal Compact e il semestre europeo abbiano rafforzato il coordinamento delle politiche fiscali nazionali a livello europeo. Ma i passi compiuti non sono sufficienti. E non sono stati nemmeno comunicati e spiegati adeguatamente all’opinione pubblica.
Almeno c’è stato un cambio negli orientamenti di politica economica. La prima reazione alla crisi del 2008 è stata la politica di austerità, anche perché non esistendo strumenti d’azione a livello europeo era l’unica su cui ci si potesse facilmente accordare. Dal 2014 in poi il focus è diventato invece la crescita, grazie alla Commissione Juncker con la sua Comunicazione sulla flessibilità, che reinterpretava il Patto di stabilità e crescita, e con il Piano Juncker, ovvero il Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici, che doveva mobilitare 315 miliardi entro la fine della legislatura e ne ha già mobilitati oltre 350, di cui 50 in Italia. Un grande successo e il principale motore di investimenti nell’UE, nonostante il bilancio dell’Unione sia appena lo 0,9% del PIL.
In ogni caso è importante rendersi conto che tutti i Paesi che hanno chiesto un sostegno finanziario dall’UE – Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia e Cipro - e che si sono impegnati nelle riforme strutturali, oggi crescono a ritmi elevati e sono tornati autonomi sui mercati finanziari. Tranne la Grecia che ci ha messo molti anni, tutti gli altri sono usciti rapidamente dal programma di aiuti e oggi crescono molto più dell’Italia. Chi dice che le politiche europee hanno fallito mente. Il problema è che l’Italia ha preferito non chiedere il sostegno finanziario dell’Unione per non doversi impegnare ad una serie di riforme strutturali, magari impopolari inizialmente, ma in grado di rilanciare la produttività e la competitività del Paese. Il triste risultato è sotto gli occhi di tutti.
Il fatto che manchi una consapevolezza diffusa di tutto ciò è drammatico. Ed è parte della mancata comprensione del significato storico dell'euro dal punto di vista politico ed economico. Se ci si rendesse conto di tutte queste cose, non avremmo surreali discussioni su un'eventuale uscita dall’euro o dall’UE, che sono possibili solo se non se ne comprendono bene le conseguenze. E nonostante le immagini dei pensionati greci in lacrime - impossibilitati a ritirare i propri soldi dalle banche quando c’è stato il rischio di un’uscita della Grecia - dovrebbero essere ancora fresche nella mente di tutti. Dovremmo invece concentrarci sul completare l’unione economica e monetaria, affiancando alla moneta unica e alla Banca Centrale Europea un governo federale dell'economia con un bilancio e un Tesoro europeo adeguati. Aldilà delle responsabilità della classe dirigente italiana, il nodo vero da cui dipende una ripresa stabile e duratura degli investimenti e dell'occupazione è la creazione di bilancio europeo fondato su risorse proprie in grado di promuovere investimenti, politiche di stabilizzazione macro-economica e solidarietà.

Queste sono le riforme su cui dovrebbe vertere il dibattito in vista delle elezioni europee, che saranno il momento decisivo in cui gli europei potranno scegliere con il loro voto se dare un mandato a rafforzare l’Unione completando l’unione economia e monetaria, o se rafforzare chi vuole indebolire l’Unione e ritornare alle sovranità nazionali ottocentesche.

@RobertoCastaldi
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