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Autore Discussione: Gabriele Guzzi. Economia, perché ripensarla è ormai una necessità politica  (Letto 2241 volte)
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« inserito:: Dicembre 15, 2018, 11:30:22 pm »

CATEGORIA: VICOLO CORTO

Economia, perché ripensarla è ormai una necessità politica

 Scritto da Econopoly - il 15 Dicembre 2018

L’autore di questo post è Gabriele Guzzi, laurea con lode in Economia alla Luiss e poi alla Bocconi. Ha lavorato per lavoce.info come fact-checker, è stato presidente di Rethinking Economics Bocconi e attualmente è dottorando presso l’Università Roma Tre –

Il 5 dicembre si è tenuto presso il Dipartimento di Economia dell’Università Roma Tre l’evento “Perché ripensare l’Economia? – per una riforma dell’Università”, organizzato da Rethinking Economics Italia. Erano presenti, oltre al sottoscritto, Francesco Saraceno, Francesco Sylos Labini, Pasquale Tridico e il viceministro del Miur, Lorenzo Fioramonti.

Come è facile capire, la domanda che ha dato il titolo all’evento travalica le questione interne alle mura accademiche e ha a che fare con l’intero destino della nostra società. L’urgenza di ripensare l’economia infatti non è solo una rivendicazione di un sempre più largo gruppo di studenti e ricercatori in giro per il mondo, ma una vera e propria necessità politica, che riguarda tutti noi e determinerà le possibilità stesse della nostra civiltà di superare la crisi sociale, ambientale ed economica che stiamo attraversando.

Gravi disuguaglianze, una crescita ingiusta e stagnante, la precarietà che è diventata la cifra di un’intera generazione, emigrazioni di massa, un ambiente sull’orlo del collasso, i popoli in preda a una rivolta sociale. Questi sono solo alcuni dei sintomi che denotano una crisi di portata storica, che nei prossimi anni modificherà radicalmente il profilo delle nostre società, ma di cui l’economia mainstream, ossia quella insegnata e divulgata nelle maggiori università e dai principali mass media, non solo ignora le cause ma sembra anche aver contribuito ad esacerbare gli effetti.

Da questa prospettiva le istanze di cambiamento che sono interne ai dipartimenti di economia e quelle che si esprimono nel segreto dell’urna elettorale non appaiono più così lontane. L’insoddisfazione espressa da migliaia di studenti in giro per il mondo che si sono aggregati nel network Rethinking Economics e l’avanzata dei partiti anti-sistema, seppur nelle loro differenze, sembrano essere legati indissolubilmente alla stessa ondata storica di richiesta di cambiamento. In altre parole, vorrei argomentare, la nostra cultura dovrebbe iniziare a chiedersi con maggiore serietà se non siano i concetti diffusi e studiati nei dipartimenti di economia a costituire parte dei problemi che ci troviamo poi ad affrontare nella nostra quotidianità politica.

Ma procediamo con ordine. Cercherò qui di distinguere due filoni di critica, uno interno all’economia accademica e uno esterno. Entrambi ci serviranno per capire sia la situazione attuale dell’insegnamento universitario sia le radici epistemologiche e politiche che gli sono alla base, da cui quindi si può immaginare di impostare un eventuale ripensamento.

L’economista Hyman Minsky
Hyman Minsky, grande economista statunitense e teorico dell’instabilità finanziaria, già quaranta anni fa esprimeva grande diffidenza rispetto alle modalità ordinarie di insegnamento dell’economia. A suo avviso, e qui entriamo nel primo filone di analisi, i curricula accademici erano strutturalmente anti-intellettuali, costruiti cioè su una fondamentale carenza di pensiero.

La mancanza di corsi di storia del pensiero economico, secondo Minsky, impediva allo studente sia di avere una conoscenza teorica approfondita sia, e a maggior ragione, di maturare su di essa un’interpretazione critica, una sintesi problematica e viva sulle questioni economiche fondamentali. Nulla a che vedere quindi con una mera erudizione accademica. Al contrario Minsky riteneva che ciò invalidasse il nucleo essenziale delle teorie diffuse nelle università, e che questo indebolisse le capacità stesse degli economisti di comprendere e dirigere i sentieri di politica economica rilevanti.

In fondo lo stesso Keynes riteneva che nonostante gli economisti fossero la classe degli intellettuali più importanti dell’epoca, erano anche quelli meno competenti. E questa incompetenza non è certamente un fatto naturale e non deriva in chiave necessaria dal profilo generale dell’economista, ma è un effetto di una ristrettezza didattica che esclude ogni ragionamento storico ed emargina qualunque voce di dissenso.

Un altro punto essenziale da sottolineare è la preoccupante carenza di pluralismo teorico e metodologico all’interno dei curricula accademici. Come diretta conseguenza dell’assenza della storia del pensiero, l’economia mainstream viene oggi presentata nei caratteri di una scienza esatta, basata su leggi naturali, indipendenti dal contesto storico e istituzionale, tecnicamente strutturate e matematicamente deducibili. Più simile alla fisica che alla sociologia. Le nozioni economiche vengono insegnate come un blocco monolitico di conoscenze, fondate su una visione cumulativa della ricerca che procede unanimemente alla frontiera e che non ammette teorie differenti, e che non necessita perciò di alcuna analisi critica sulle assunzioni fondamentali.

I presupposti teorici circa il comportamento dell’uomo, la sua razionalità, le sue interazioni, le proprietà emergenti da tali relazioni, il funzionamento del lavoro, della moneta, e tutte le altre assunzioni critiche, come direbbe Milton Friedman, non vengono discussi e talvolta neanche onestamente esplicitati, sebbene influenzino radicalmente le conclusioni analitiche e le implicazioni politiche della teoria mainstream.

Naturalmente con questo non si vuole dire che all’economia manchino le metodologie per rendere esatta la sua analisi. Il problema emerge quando ad una particolare scuola di pensiero viene assicurata, per motivi extra-scientifici, una presunzione di esattezza maggiore delle altre teorie, sebbene queste ultime abbiano superato in maniera più efficace il processo di falsificazione empirica.

La mancanza di pluralismo si deduce quindi non solo dall’assenza nei curricula di filoni alternativi di pensiero ma anche dalla rigidità con cui la teoria tradizionale viene presentata. Il problema è che questa concezione epistemologica non solo è falsa ma ha anche pesanti ripercussioni sulle capacità esplicative dell’economia, ossia sulla comprensione dei fenomeni reali, che vengono spesso quindi mal compresi se non addirittura del tutto ignorati. Mi torna alla mente allora la frase di un mio professore di economia che diceva che la realtà è solo una delle teorie e neanche la più interessante.

E arriviamo ora al secondo filone di critica, quello che riguarda i rapporti esterni all’economia accademica. Per comprendere meglio il funzionamento della scienza economica dobbiamo infatti ricordarci, grazie alla grande lezione degli economisti classici, che l’economia è quella particolare disciplina che regola il conflitto tra interessi economici differenti. Utilizzando la metafora culinaria di una torta a fine pasto, possiamo dire che gli economisti sono quegli studiosi che devono stabilire le modalità migliori per suddividere la torta tra tutti gli invitati. Non c’è da scandalizzarsi nell’ipotizzare che ognuno cercherà di massimizzare la fetta di torta che spetta a lui e ai suoi cari, a scapito degli altri invitati. E che ognuno cercherà quindi di appoggiare la teoria di quello o quell’altro economista che lo legittimerà davanti a tutti gli altri a prendersi la fetta più grande.

È qui che capiamo il nesso indissolubile tra l’economia come disciplina e l’economia come conflitto tra interessi divergenti. L’economia politica, quindi, come direbbe Marx, è quella disciplina che regola questo conflitto attraverso un’interpretazione politica di questo conflitto. Nulla di tecnico, quindi, come sosterrebbe la teoria neoclassica, o naturalmente necessario.
Se comprendiamo tale aspetto, capiamo anche che la scienza economica e la politica economica si influenzano e si legittimano a vicenda in un circolo pericolosamente vizioso. Una politica economica infatti cercherà di supportare il filone teorico che meglio convaliderà le sue scelte distributive, come il filone teorico difenderà le ideologie politiche che seguiranno più pedissequamente i suoi suggerimenti.

Non appare quindi strano ad esempio che le politiche economiche di liberalizzazione, flessibilizzazione del lavoro e di tagli alla spesa pubblica siano avvenute proprio mentre prendeva piede, come dice il professor Francesco Saraceno nel suo libro “La scienza inutile”, l’emersione del monetarismo e del nuovo consenso macroeconomico e la sconfitta delle idee keynesiane. L’economia è quindi più che una scienza sociale una scienza politica, che dipende strettamente dai rapporti di forza e di potere interni alla società.

Il professor James Heckman
Sarebbe inoltre ingenuo nel 2018 ritenere che il ripensamento dell’economia passi esclusivamente attraverso una lotta tra keynesiani e neoclassici. Come ha detto giustamente il viceministro Lorenzo Fioramonti, nuove urgenze sono entrate nella nostra quotidianità politica. Il dramma ambientale ad esempio mette a dura prova i modelli di crescita tradizionale, nei quali l’esaurimento delle risorse naturali e l’inquinamento dell’atmosfera non vengono trattati se non marginalmente e sempre con metodi insufficienti. L’economista vede infatti con cattivo occhio le tematiche ecologiche, ritenendole secondarie o comunque poco rilevanti. Tuttavia i dati che stanno emergendo in questi ultimi anni, ad esempio sull’aumento medio delle temperature, richiedono un’attenzione massima e un’integrazione sempre maggiore tra le giuste esigenze di occupazione e di mantenimento dei diritti sociali con la rivoluzione tecnica e politica necessaria ad affrontare il dramma ambientale che metterà a rischio la sopravvivenza stessa della razza umana sulla Terra.

Ecco allora che la scienza economica e il destino delle nostre società non sembrano più campi così indipendenti. Al contrario, la disciplina economica richiede a mio avviso un ripensamento globale e molto profondo. Che sappia aprirsi alla ricchezza di altre scuole di pensiero e le sappia integrare con le nuove esigenze della contemporaneità, e che sappia quindi riformulare molto di ciò che oggi viene dato per scontato nelle università, compresi i criteri di valutazione della ricerca. Non bisogna dimenticarsi infatti che i metodi con cui vengono valutati i ricercatori e stabiliti gli avanzamenti di carriera, come dice il premio Nobel James Hackman, hanno la piccola controindicazione di omologare il pensiero alle teorie mainstream e di asfissiare la libertà intellettuale degli economisti.

Twitter @GabrieleGuzzi

Da - http://www.econopoly.ilsole24ore.com/2018/12/15/perche-ripensare-economia/?uuid=96_tGjnls0Z
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 02, 2019, 11:11:51 am »

Congiuntura, oroscopi e tarocchi: come andrà l’economia nel 2019?

 Scritto da Econopoly il 26 Dicembre 2018

SISTEMA SOLARE

Pubblichiamo un post di Fedele De Novellis, partner ed economista senior di REF Ricerche –

È tradizione a fine dicembre interrogarsi sulle prospettive dell’anno che sta arrivando. I quesiti variano dalle questioni più personali a quelle di interesse generale, gli strumenti spaziano dagli oroscopi, ai tarocchi, sfere di cristallo, maghi.

Per i più tristi, uno dei temi di interesse è il quadro economico che si prospetta per il prossimo anno. Si tratta di un punto particolarmente incerto, alla luce soprattutto del fatto che nel corso degli ultimi mesi abbiamo osservato una continua revisione al ribasso delle previsioni di crescita per le maggiori aree. Nelle scorse settimane, anche le principali banche centrali, la Fed e la Bce, hanno ridimensionato di alcuni decimi le attese sulla crescita dell’economia Usa e dell’eurozona.

Purtroppo, da settembre in avanti la revisione delle stime è stata sistematicamente superata dalla realtà: in successione, le tendenze al peggioramento si sono manifestate inizialmente negli andamenti dei mercati azionari, venendo seguite poi da evidenze sempre più nitide negli indicatori congiunturali anticipatori e, infine, nei dati dell’economia reale. I previsori hanno adeguato, buoni ultimi, le valutazione delle prospettive, inseguendo una realtà in peggioramento mese dopo mese.

Senza entrare nel merito dei singoli punti, le tensioni sulle borse sono oggetto di dibattito quotidiano nelle ultime settimane, e per il resto può bastare il grafico che mostra l’andamento dell’indicatore anticipatore del ciclo globale costruito dall’Ocse.

Se le cose stanno così, non ci si dovrà meravigliare se le stime di crescita per il 2019 vedranno nuove revisioni al ribasso nei prossimi mesi.

Non vi è tuttora un consenso sulle cause della cattiva evoluzione del quadro economico dei mesi scorsi. Fra gli aspetti sui quali si punta l’attenzione vi sono però soprattutto le caratteristiche delle scelte di politica economica adottate nel corso dell’anno.
Innanzitutto, vi era da tempo consapevolezza delle difficoltà del processo di normalizzazione delle politiche monetarie da parte delle principali banche centrali; un passaggio complesso, che ha avuto riflessi sull’andamento dei mercati azionari.

Tanto più che proprio in virtù delle difficoltà della congiuntura si sta gradualmente allentando l’enfasi rispetto alla “forward guidance”; le banche centrali nelle proprie decisioni si troveranno giocoforza nella condizione di seguire un percorso orientato sempre più dal cambiamento nelle congiuntura economica. La politica monetaria navigherà dunque “a vista” anziché rispettando un percorso annunciato, divenendo quindi meno prevedibile. E anche questo contribuisce a aumentare l’incertezza.

L’azione delle banche centrali avrebbe meritato certamente un buon grado di cooperazione da parte degli altri principali attori della politica economica. Non sempre questo è accaduto. Difatti, se ripercorriamo i fattori all’origine delle tensioni del 2018, l’impressione è che un ruolo non secondario sia stato giocato proprio da alcune misure di politica economica.

Limitandoci ai punti principali, un primo aspetto è stato rappresentato dall’adozione di politiche di bilancio pro-cicliche negli Stati Uniti, che hanno probabilmente contribuito ad accelerare il percorso di crescita dei tassi d’interesse: uno dei problemi del 2019 è adesso l’esaurimento dell’impulso espansivo della politica di bilancio americana, e l’eredità scomoda di un deficit pubblico Usa vicino al 6 per cento del Pil.

Allo stesso modo, un altro stimolo ai tassi d’interesse è derivato dall’aumento del prezzo del petrolio verificatosi nel corso del 2018, quando le altre materie prime stavano già cadendo, prima del crollo repentino degli ultimi giorni, anche sulla scorta delle evidenze di frenata della domanda globale. Anche qui un peso rilevante l’ha avuto la politica Usa, e in particolare la decisione di Trump di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano del 2015, voluto da Obama, innescando il timore di una caduta delle esportazioni di greggio da parte dell’Iran.

Un terzo passaggio importante delle politiche del 2018 è stato poi l’avvio delle “guerre tariffarie”, lanciate ancora da Trump, e che, sebbene circoscritte a un numero limitato di prodotti, sono bastate per generare incertezza sulle politiche dei prossimi anni, determinando una brusca frenata degli investimenti delle imprese multinazionali. Ne vediamo gli effetti dalla caduta degli ordinativi di macchinari all’industria tedesca, con conseguenze anche sulle imprese italiane che operano in queste filiere.

Questi tre momenti della politica economica Usa, hanno avuto certamente l’effetto di accentuare le difficoltà dei mercati finanziari. Dal canto loro, le politiche fuori dagli Usa non hanno certo fornito contributi significativi al miglioramento del quadro economico. Tra gli aspetti più significativi si può ricordare l’iter tutto molto incerto del percorso verso la Brexit, quello molto tortuoso che ha portato finalmente alla definizione delle misure della manovra di bilancio italiana, passando per l’entusiasmo con cui in Francia sono state accolte le politiche di Macron, per arrivare più di recente alle “politiche dei redditi” (si fa per dire) di Orban in Ungheria e a altri esempi che potrebbero essere approfonditi (Turchia, Venezuela, Brasile…).

È chiaro che stiamo attraversano una fase molto confusa dal punto di vista delle politiche economiche. Un tentativo di misurare il grado di incertezza sulle politiche è quello illustrato nel grafico che mostra l’indicatore sintetico di incertezza delle politiche economiche a livello globale.

La maggiore incertezza sulle politiche economiche ha naturalmente riflessi sulle aspettative e sugli investimenti. A un quadro economico più incerto deve corrispondere difatti un valore atteso superiore dei rendimenti degli investimenti effettuati.

L’incertezza sulle politiche economiche può naturalmente anche condizionare l’andamento dei mercati finanziari. Il problema è che l’incertezza politica potrebbe da un lato essere causa di debolezza della congiuntura, ma anche venire essa stessa amplificata da un peggioramento del quadro congiunturale. Un tema rilevante del quadro economico del 2019 sarà difatti rappresentato dal fatto che, sulla base delle tendenze che si stanno materializzando da alcuni mesi, l’appuntamento con le elezioni europee di maggio avverrà in un contesto di economia stagnante, e questo potrebbe contribuire a rendere se possibile ancora più instabile il quadro politico del vecchio continente.

In conclusione, anche il 2019 vedrà materializzarsi uno scenario economico condizionato da diversi elementi fra i quali, come e forse più che negli altri anni, le scelte della politica economica.

Date le premesse, c’è da preoccuparsi.

Twitter @fdenovellis1

Da - http://www.econopoly.ilsole24ore.com/2018/12/26/congiuntura-politiche-2019/?uuid=96_kmZSlCKv
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