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Autore Discussione: La sinistra si suicida in nome del multiculturalismo. Intervista a Cinzia Sciuto  (Letto 14979 volte)
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« inserito:: Dicembre 07, 2018, 05:36:43 pm »

La sinistra si suicida in nome del multiculturalismo.

Intervista a Cinzia Sciuto

Matteo Gemolo
11 ottobre 2018

Ad un mese esatto dalla sua prima uscita, il libro di Cinzia Sciuto pubblicato da Feltrinelli con l’accattivante e provocatorio titolo “Non c’è fede che tenga: Manifesto laico contro il multiculturalismo” è già alla prima ristampa. E non è affatto un caso!
Nel panorama politico attuale, dove solo alle destre più conservatrici sembrava essere concesso il diritto di sviluppare un discorso critico sul multiculturalismo, questo testo riesce in un miracolo: alla retorica dell’invasione, dell’emergenza sicurezza e delle radici giudaico-cristiane – tanto cara ai populisti europei – l’autrice contrappone, senza esitazioni ed inutili sensi di colpa, una lettura finalmente laica e illuminista di questo fenomeno.

Mettendo al centro del proprio discorso i diritti fondamentali ed inalienabili dell’uomo, il libro di Cinzia Sciuto ha la forza di un vero e proprio manifesto politico. L’autrice sembra rivolgersi direttamente alla sinistra progressista italiana ed europea nel tentativo di risvegliarne lo spirito critico e riformatore: alla difesa delle comunità religiose, lo Stato laico e democratico deve sempre e comunque anteporre la difesa del singolo individuo. È il singolo cittadino che deve essere tutelato non perché appartenente ad una determinata comunità ma in quanto persona e, se necessario, anche contro quella stessa comunità.

Qui di seguito l’intervista completa che Cinzia Sciuto mi ha gentilmente concesso in merito al suo libro.

MATTEO GEMOLO Prima di entrare nel vivo della nostra intervista, vorrei cercare di inserire il suo libro nel contesto politico e sociale italiano. La prima cosa che un mese fa mi colpì nell’apprendere dell’uscita del suo testo fu il fatto che fosse stato scritto da una pensatrice italiana, collocata apertamente a sinistra – mi correggerà se sbaglio -, redattrice di MicroMega, interessata da sempre a tematiche riguardanti i diritti civili, laicità e femminismo.

CINZIA SCIUTO Non la correggo e confermo: tutto vero!

MATTEO GEMOLO Come ben sa, nei paesi del centro e nord Europa il dibattito su multiculturalismo, Islam e migrazione è da lungo tempo avviato ed estremamente vivace dal punto di vista intellettuale. Molto di più che nel nostro paese. Tuttavia, un pensiero critico genuinamente illuminista fatica ancora ad emergere all’interno della cosiddetta sinistra progressista europea.

Intellettuali francesi laici e progressisti come Michel Onfray, Alain Finkielkraut, Régis Debray, inglesi come Trevor Phillips, Richard Dawkins o svedesi come Göran Adamson affrontano da anni criticamente questi temi con argomenti diversi (ma con fini simili) a quelli di autori che generalmente si collocano a destra, come per esempio Douglas Murray, Ed West nel Regno Unito, Éric Zemmour in Francia, per citarne solo alcuni. A causa di questa trasversalità di opinioni, testate tradizionalmente progressiste come The Guardian o Libération non hanno certo esitato a dipingere questi autori come dei traditori della cause della sinistra. La più emblematica tra tutte, a mio avviso, fu la figura di Christopher Hitchens (morto nel 2011) che da giovane socialista e marxista, finì per essere dipinto come un infedele e reazionario ‘neocon’: la prima di una lunga serie di accuse che la sinistra gli rivolse, fu quella di non aver abbassato la testa di fronte, per esempio, alla fatwa che l’ayatollah iraniano Khomeyni emanò nel 1988 contro l’autore dei Versetti Satanici, l’indiano naturalizzato britannico Salman Rushdie.
All’orizzonte di tutto questo, da italiana prima di tutto, le vorrei chiedere quale sia stato il suo percorso intellettuale e i suoi riferimenti filosofici e politici che l’hanno portata a sviluppare questa sua personale critica al multiculturalismo, senza entrare in contraddizione con la sua appartenenza politica a sinistra?

CINZIA SCIUTO La ragione principale che mi ha portato a scrivere questo libro è innanzitutto personale: un disagio che mi sono ritrovata a vivere direttamente sulla mia pelle ad un certo punto del mio percorso politico ed intellettuale. Nonostante non abbia mai svolto attività politica all’interno di un partito, sono sempre stata in prima linea nelle battaglie per i diritti umani, i diritti civili e i diritti delle donne in particolare. Mi sono cominciata a sentire fortemente a disagio quando ad un certo punto mi è stato detto, da più parti, che parlare di diritti delle donne è giusto solo se si rimane all’interno del nostro orizzonte culturale; al contrario, quando si ha a che fare con orizzonti culturali diversi dal nostro allora non è detto che il nostro sistema di valori e diritti sia sempre valido. Io ho una formazione filosofica di forte matrice illuministica, il mio riferimento filosofico principale è Immanuel Kant con il suo universalismo. Dunque questo approccio relativista a me è sempre parso da un lato logicamente contraddittorio, dall’altro moralmente aberrante.

Sulla questione della contestualizzazione storica e culturale delle battaglie per le libertà e i diritti individuali bisogna distinguere due livelli: una cosa é dire che bisogna conoscere i contesti locali e dunque essere consapevoli che, a seconda dei casi, le battaglie per i diritti dell’uomo possono essere condotte con diversi mezzi e che anche l’ordine di priorità può, delle volte, variare (per esempio, se negli anni ’60 e ’70 in Italia era prioritario il divorzio e l’aborto, non è detto che lo sia in tutti i contesti culturali allo stesso tempo); un’altra cosa, però, è mettere in discussione i princìpi ed i valori stessi in termini assoluti. Quest’ultima è una posizione, a mio avviso, da rigettare perché nasconde un razzismo inconsapevole: come a dire che in “altri” contesti, gli uomini e le donne non sono degni di godere dei “nostri” stessi diritti. Le battaglie per i diritti umani sono battaglie che coinvolgono l’umanità intera; anche noi, in Occidente, dobbiamo quotidianamente continuare a combattere. Nulla è dato per scontato.

Vorrei poi ricollegarmi a quello che lei diceva rispetto al dibattito sul multiculturalismo che si tiene all’estero soprattutto nei paesi anglosassoni: un dibattito che spesso si colloca a destra dello spettro politico. Quello che è fondamentale nella mia visione, e che è sintetizzato nel sottotitolo del libro, è la centralità della laicità che distingue la mia critica al multiculturalismo da quelle provenienti da destra, che invece rivendicano una qualche superiorità della civiltà cristiano-occidentale sulle altre.

MATTEO GEMOLO Nel suo libro, pagina dopo pagina, lei sembra fare a pezzi il vocabolario utilizzato dalla sinistra ‘regressiva’ in difesa del multiculturalismo. Il neologismo ‘sinistra regressiva’ è stato coniato da Maajid Nawaz, scrittore e attivista liberal democratico britannico di origini pakistane, per denunciare quella sinistra che assume posizioni contraddittorie e paradossali, tollerando e promuovendo principi o ideologie non liberali in nome del relativismo culturale.

A più riprese, lei punta il dito contro l’utilizzo dogmatico di termini come ‘islamofobia’, ‘tutela delle minoranze’ e ‘comunitarismo’, spesso impiegati semplicemente per zittire il proprio interlocutore, nel tentativo subdolo di spostare il dibattito dal piano delle ‘idee’ a quello dei ‘comportamenti personali’: secondo quest’ottica deformata si è potuta giustificare la creazione di un sistema giuridico pluralista che tenesse conto della tutela delle varie ‘culture’ (penso ai tribunali della Sharia nel Regno Unito che si esprimono intorno a questioni legate al diritto di famiglia) o la possibilità di limitare l’esercizio della libertà di pensiero nel tentativo di non ‘offendere’ mai le ‘sensibilità’ di determinate comunità (sempre religiose ahimè). Quale è dal suo punto di vista la matrice di questa ‘estrema cautela’ che in Occidente abbiamo nei confronti dei sistemi religiosi e, in tempi recenti, specificatamente dell’Islam?

CINZIA SCIUTO Questa questione si inserisce all’interno di una più generale tendenza che ha preso piede negli ultimi decenni in Occidente e che vuole spostare, come lei diceva, il dibattito dal piano politico e delle idee a quello ‘personale’; è una deriva che riguarda in particolare le religioni, ma non solo. Penso anche ad alcune derive del movimento femminista o a quello per i diritti degli omosessuali: quando si passa dalla rivendicazione di diritti universali alla pretesa di un riconoscimento identitario di una determinata comunità (spesso concepita come un monolite), si sta, di fatto, portando avanti una battaglia reazionaria e si impedisce la messa in discussione di qualunque scelta fatta dai membri appartenenti a una determinata comunità perché il rischio di “offendere” la sensisbilità de membri di quella comunità è troppo grande. Questa è una deriva molto pericolosa. Io penso che si debbano distinguere molto nettamente da un lato le idee, le credenze, le convinzioni delle persone, che devono poter essere sempre messe in discussione, e dall’altro le offese personali dirette ai singoli individui. Non è possibile che le critiche, anche le più radicali, alle credenze delle persone vengano tradotte immediatamente in offesa personale; ma anche se volessimo per un momento assecondare questa ottica, rimarrebbe aperto un problema: chi è che stabilisce quando qualcosa diventa offensivo nei confronti di qualcuno? Se a stabilirlo è la stessa persona (o la comunità) che si sente offesa, allora l’ampiezza di questa offesa può raggiungere dimensioni talmente grandi da impedirci sostanzialmente di parlare. Nel dibattito pubblico nulla deve essere sacro; le persone devono avere la maturità per sostenere anche quelle che soggettivamente possono considerare delle offese. D’altro canto, noi atei sosteniamo da secoli accuse infamanti, come per esempio il fatto di non avere una morale, essendo la morale ancora concepita come un’appendice delle religioni. Ma non mi sognerei mai di impedire a qualcuno di esercitare questa critica; tuttavia ciò che rivendico è il diritto di contrastare questa idea sul piano del dibattito pubblico.

MATTEO GEMOLO Facciamo un esempio concreto per mettere in luce la differenza che vi è tra una critica alle idee e un’offesa personale: prendiamo il termine “islamofobia”, che alla lettera andrebbe tradotto come “fobia dell’Islam”, una patologia insomma…

CINZIA SCIUTO La parola “islamofobia” è particolarmente scivolosa perché è creata sul calco di un’altra parola: “omofobia”. L’omofobia si traduce in odio nei confronti delle persone omosessuali: non è dunque una critica a una ideologia ma un atteggiamento di aggressività nei confronti di persone in carne e ossa. L’accusa di “islamofobia” viene invece lanciata contro coloro che non hanno alcun interesse ad attaccare personalmente i musulmani ma vogliono soltanto conservare il proprio diritto di critica nei confronti di una dottrina religiosa, esattamente come di tutte le altre. Pensiamo all’Italia: noi siamo da decenni abituati ad affrontare a viso aperto discorsi anti-clericali; nonostante questo il termine “cristianofobia” non esiste, e speriamo non esista mai.

MATTEO GEMOLO Esattamente! Spesso nei dibattiti pubblici in Italia, anche quelli a cui ho assistito riguardanti la presentazione del suo libro – penso per esempio a quello con Gustavo Zagrebelsky a Trani o da Corrado Augias su Rai 3 – quando si parla di difesa della laicità si è abituati a puntare automaticamente il dito contro le gerarchie ecclesiastiche e a denunciare giustamente le ingerenze tra Stato e Chiesa. Se questo è giustificato da ragioni storiche ben precise, soprattutto in Italia, in un quadro più ampio che tenga conto della presenza attuale dell’Islam come di una delle fedi religiose con il tasso più alto di diffusione al mondo e in netto controtendenza con l’affievolirsi delle altre pratiche religiose (tra tutte quella cristiana, almeno nel continente mitteleuropeo), come si spiega questa incapacità ancora così diffusa a sinistra nel riservare lo stesso trattamento critico che si è avuto per anni (e si continua giustamente ad avere) nei confronti del Cristianesimo all’Islam contemporaneo?

CINZIA SCIUTO Questo credo abbia a che fare col fatto che l’Islam in Occidente sia percepito ancora come una religione minoritaria, ovvero la religione di gruppi minoritari che subiscono discriminazioni o che occupano dei ruoli sociali subordinati e secondari rispetto agli “autoctoni”. A sinistra si subisce quello che potremmo chiamare “il complesso del colonizzatore”, una sorta di senso di colpa che dobbiamo espiare (non si sa ancora per quanto tempo), legato al fatto che l’Occidente ha dominato il mondo, distruggendo le risorse di altri paesi, occupandoli, con tutto quello che ne è conseguito. Non avremmo dunque il “pedigree” in ordine per impartire lezioni a nessuno e quando persone provenienti da altri paesi vengono a vivere da noi, non avremmo il diritto di interferire con la “loro” cultura. A me questo sembra, ancora una volta, una contraddizione perché non si può essere laici nei confronti del cristianesimo e multiculturalisti nei confronti di tutte le altre religioni. E soprattutto è un ragionmento che dà per scontato che “noi” abbiamo conquistato quel che c’era da conquistare, come se invece non dovessimo combattere ancora ogni giorno per la laicità. Le religioni monoteiste, nessuna esclusa, sono dei sistemi dogmatici ed autoritari; al loro interno esistono movimenti che cercano di interpretarli in senso liberale o di “modernizzarle”; tutti tentativi apprezzabili e da seguire con interesse ma che, secondo me, non scalfiscono il loro nucleo dogmatico e autoritario. Da un punto di vista laico, non dovrebbe cambiare nulla se si parla di Cristianesimo, di Islam o di Ebraismo.

MATTEO GEMOLO Nonostante l’efficacissima propaganda Salviniana sull’emergenza migranti in Italia, se confrontato con altri paesi del centro e nord Europa, il nostro bel paese ospita un numero relativamente basso di popolazione di fede religiosa islamica. Nel resto d’Europa le cose sono invece un po’ diverse. Secondo una stima del Pew Research Centre, nel 2050 ci saranno, senza contare i nuovi migranti, almeno 35,8 milioni di residenti musulmani in Europa, il 7 per cento della popolazione, che potrebbero arrivare a 75 milioni, cioè al 14 per cento della popolazione totale, se si registrasse un’elevata immigrazione. Le punte di questo fenomeno si registrerebbero in Svezia dove la popolazione musulmana potrebbe costituire il 30,6 per cento della popolazione globale, mentre l’Italia sarebbe ferma al 14 per cento. A suo avviso quale sarebbe dunque una maniera sana di intraprendere una critica al multiculturalismo senza ricadere nella retorica dell’invasione tanto cara alle destre che, come dimostrano questi dati, in Italia non sembra verificarsi?

CINZIA SCIUTO A sinistra non si riesce ancora a fare una netta distinzione tra le politiche di accoglienza dei migranti che devono giustamente essere aperte e solidali, e l’accettazione passiva di tutto il sistema culturale e religioso che alcune di queste persone si portano appresso. Bisogna distinguere nettamente le due cose: da un lato, aprire dei canali legali di migrazione, cercando di mettere fine alla tratta degli esseri umani che si verifica semplicemente perché non vi sono ancora delle vie alternative efficaci. Dall’altro, una volta che nuovi sistemi di credenze si impongono nel nostro territorio, bisogna poterli laicamente criticare.

MATTEO GEMOLO Nel suo libro lei punta spesso giustamente il dito contro i cosiddetti “fondamentalisti”, da una parte musulmani, dall’altra politici di estrema destra europei e cattolici (penso a Viktor Orbán, ora al suo secondo mandato in Ungheria, o al partito Libertà e Giustizia polacco che, di fatto nelle elezioni del 2015 ha triplicato le sue preferenze). Nel contesto geo-politico attuale la differenza tra fondamentalisti musulmani e cristiani, tuttavia, a me pare si possa sintetizzare in questa maniera: mentre i fondamentalisti islamici sembrano voler rivendicare le proprie idee a suon di bombe e attentati (effettuati a cadenza giornaliera nelle teocrazie del Medio Oriente e con visite saltuarie nelle capitali europee ed occidentali), quelli cattolici nascono e si sviluppano in seno ad una Europa democratica, seppur fragile e giovane. Anche se spesso nel suo libro lei rivendica giustamente il suo disinteresse dal punto di vista laico nei confronti dei contenuti di fede delle tre diverse religioni monoteiste (su cui lei preferisce non esprimere giudizi di merito), non crede che almeno sul piano strettamente geo-politico vi siano delle differenze sostanziali tra, per esempio, l’ideologia islamica (sia essa sciita o sunnita, poco importa in quest’ottica) che a livello fattuale produce nella gran parte dei paesi a maggioranza musulmana delle vere e proprie teocrazie (dove la legge di stato deve coincidere con la sharia, e le Costituzioni vengono modellate sul Corano, sulla Sunna e sugli Hadith), e quella cristiana che, volente o nolente, ha dovuto subire un processo di secolarizzazione in Europa che ha portato di fatto a rinunciare, almeno sulla carta (costituzionale), al potere temporale?

CINZIA SCIUTO Certamente vi sono delle differenze sullo stadio di secolarizzazione a seconda dei contesti geografici. Non credo però vi siano religioni in sé più o meno predisposte a questo processo di secolarizzazione. Prendiamo ad esempio la Polonia, dove si stanno facendo dei passi concreti verso una democrazia a libertà limitata a causa della destra cattolica al potere. Tutte le religioni, in quanto sistemi di credenze dogmatici, sono in un certo senso incompatibili con la democrazia. In questo momento storico è innegabile che alcuni dei paesi a maggioranza musulmana siano i paesi in cui i diritti umani sono tra i più calpestati; penso per esempio al reato di apostasia che viene punito con la morte solo in alcuni paesi a maggioranza musulmana, ma creare un nesso tra queste considerazioni storiche contingenti e l’essenza delle singole religioni è una operazione anti-storica. Basterebbe cambiare il periodo storico osservato e le carte in tavola cambierebbero a loro volta. Questo processo di secolarizzazione che, oggettivamente allo stato attuale è più avanzato nei paesi occidentali, non è un processo irreversibile. In alcuni periodi storici e in alcuni contesti geografici le religioni sembrano ritirarsi dallo spazio pubblico ma appena c’è uno spiraglio politico favorevole, come avviene in Polonia, ma anche in Italia con questo governo, sollevano la testa e rivendicano le proprie istanze. E noi laici non dobbiamo mai abbassare la guardia.

MATTEO GEMOLO Se non le dispiace vorrei che commentasse a questo punto un evento che mi riguarda personalmente – anche se per fortuna indirettamente- alla luce di quello che scrive nel suo libro rispetto ai cosiddetti ‘moderati’ musulmani.
So che vive in Germania da anni con la sua famiglia. Anche io vivo all’estero, da 8 anni in Belgio, a Bruxelles. Ci sono venuto per ragioni di studio nel 2010, per poi rimanerci, lavorarci e infine sposarmi alla fine del 2015 con quello che oggi è mio marito. Ho vissuto in diversi quartieri, uno di essi, Molenbeek, celebre per essere stato definito ‘la capitale del jihadismo europeo’.

Attualmente invece vivo a Schaerbeek dove la comunità musulmana di seconda e terza generazione (principalmente di origini turche e marocchine), secondo l’ultimo studio demografico a disposizione del 2010, rappresenta quasi il 40 per cento dell’intera popolazione. Questo comune è il secondo più popoloso di tutta la regione di Bruxelles Capitale.

La comunità turca che ci vive, nonostante i suoi rappresentati in Belgio siedano in largo numero tra le fila del Partito Socialista francofono, è nota per le sue posizioni conservatrici in materia di politica nazionale turca. Il 74,9 per cento di questa comunità di elettori dalla doppia nazionalità, votò a favore del referendum costituzionale voluto da Erdogan nel 2017, che trasformò di fatto la Turchia in un regime presidenziale, e hanno confermato ancora una volta la propria passione sfrenata nei confronti del loro presidente-sultano nelle più recenti elezioni del 2018, votandolo con il 73,6 per cento.

Qui a Schaerbeek, qualche mese fa, una coppia omosessuale di miei vicini di casa, nel rientrare dal lavoro è stata attaccata verbalmente prima e fisicamente poi da una delle famiglie turche che vivono lì, mamma, papà e due figli. Tutti e quattro li attendevano alla porta. Sono volati prima insulti omofobi dalla madre stessa che incitava i propri figli a far vedere ‘”come si combatte da vero uomo”. E, come se questo non bastasse, dopo pochi minuti ai pugni e ai calci di questa famiglia si sono aggiunti quelli di un gruppo di uomini che, inizialmente omertosi e spettatori silenti dal bar turco di fronte, hanno deciso infine di intervenire violentemente contro la coppia, dando man forte alla famiglia turca loro compatriota. Violenze omofobe come queste si registrano in Belgio ormai regolarmente. A Bruxelles un paio di settimane prima, in pieno centro storico dietro la Grand Place, qualche giorno dopo il Gay Pride nazionale, un’altra coppia è stata attaccata da un gruppo di giovani magrebini, a due passi dalla cosiddetta ‘gaystreet’. Tutti questi attacchi non sono perpetrati da fondamentalisti religiosi, da bombaroli col kalashnikov in tasca o da terroristi col macete tra i denti, ma da giovani – e meno giovani -, quasi sempre uomini che con i fondamentalisti però, condividono qualcosa di molto importante, come per esempio, considerare l’omosessualità un abominio. Ecco vorrei chiederle cosa ne pensa di questo Islam europeo dal volto ‘moderato’?

CINZIA SCIUTO … che di moderato non ha nulla! Io credo sia importante in ambito laico criticare non solo le derive più estreme e concretamente violente ma anche e soprattutto i dogmi e le credenze stesse che ne sono alla base e che alimentano di fatto episodi come questi. Il problema non è soltanto evitare la violenza di per sé ma sviluppare un dibattito pubblico in cui si condanni senza se e senza ma omofobia, misogina e qualsiasi altra forma di discriminazione. Anche a Verona, qualche settimana fa, la casa di una coppia di ragazzi gay stava per essere messa a fuoco da un gruppo di neofascisti con delle taniche di benzina. Un atto di una gravità inimmaginabile fino a qualche tempo fa in Italia. E questi erano degli italianissimi neofascisti. I fascismi si somigliano tutti. Ed è il contesto culturale in cui questi nuovi fascismi crescono che deve essere contrastato, prima di tutto sul piano culturale.

MATTEO GEMOLO Da questo punto di vista scuola ed istruzione sono fondamentali. Nel suo libro ne parla approfonditamente, sottolineando più volte come queste, solo se genuinamente laiche, possono aiutare a sviluppare lo spirito critico degli individui indipendentemente dalla propria religione di appartenenza. Lei crede che la scuola da sola abbia i mezzi necessari per realizzare pienamente questa missione laica anche di fronte a famiglie e comunità intere che rimangono ostili a questo processo di laicizzazione?

CINZIA SCIUTO La scuola da sola non può ovviamente fare miracoli: essa tuttavia rimane il principale luogo da cui partire, nella speranza che gli atteggiamenti delle comunità e delle famiglie si modifichino nel corso delle generazioni a venire. Fornire ai bambini di oggi gli strumenti che li aiuteranno da adulti a non replicare a loro volta nelle loro famiglie le ideologie più conservatrici e reazionarie da cui provengono è la missione della scuola. Questo è il ruolo della scuola pubblica e la funzione dell’obbligo scolastico. La scuola deve essere il luogo in cui trovare strumenti culturali e materiali per emanciparsi dalle proprie stesse comunità di appartenenza. Ma la scuola non basta. Vi sono altri interventi che lo Stato può metter in campo: se la parità tra uomini e donne è un diritto acquisito che non vogliamo più rimettere in discussione, allora non si possono accettare, per esempio, orari separati a seconda dei sessi per l’accesso alle piscine pubbliche. Non si possono accettare deroghe a principi che riteniamo universali.

MATTEO GEMOLO In un contesto come quello europeo dove spesso le moschee vengono finanziate direttamente da monarchie assolute come quelle dell’Arabia Saudita o del Qatar, teocrazie che esportano una tra le visioni più estreme e pericolose dell’Islam (ovvero quelle dell’ideologia wahhabita salafita), la religione sembra offrire uno dei pochi elementi identitari ad una popolazione disgregata che vive in Europa da due o tre generazioni ormai, in alcuni casi con difficoltà note di integrazione, lontana dalle proprie terre di origine e dimentica di tutta una serie di altri elementi identitari di appartenenza, quali per esempio quelli nazionali, etnici o persino politici. Come descriverebbe dunque il processo tutto europeo che ha portato ad accantonare il potenziale laico di questi valori plurali, a favore di un solo elemento congregativo dogmatico e anti-illuminista che è quello dell’appartenenza alla medesima religione?

CINZIA SCIUTO Questo è un processo che in alcuni paesi è stato consapevolmente perseguito: rafforzare le identità religiose serviva a spezzare, per esempio, la solidarietà di classe, molto più pericolosa. In Il Multiculturalismo e i suoi critici, citato più volte nel mio libro, Kenan Malik, autore di origini indiane naturalizzato britannico, ci racconta come in Gran Bretagna negli anni ’70 lui stesso non si fosse mai considerato un musulmano ma piuttosto un ‘lavoratore nero’: quindi l’elemento identitario era giocato su un piano di lotta di classe da un lato (in quanto lavoratore) e dall’altro, su di un piano transnazionale che lo assimilava ai neri d’America. Il processo che ha portato a spezzare i legami solidali di classe o appartenenza etnica o nazionale, è lo stesso che ha rafforzato l’identità religiosa perché era più funzionale ad un sistema economico che preferisce aver a che fare con tante comunità religiose che può tenere buone con finanziamenti e sostegni vari ai luoghi di culto invece di aver a che fare con cittadini liberi che lottano per i propri diritti in un contesto di solidarietà di classe. Come sottolineava lei a proposito delle moschee finanziate da alcuni stati teocratici del Medio Oriente, uno degli interventi pratici che lo Stato laico può mettere in campo per indirizzare in un verso piuttosto che in un altro lo sviluppo di queste comunità̀ riguarda direttamente la scelta del proprio interlocutore. Si tratta di individuare le comunità più liberali e laiche che sposano e portano avanti i principi liberali. Per esempio quando un comune, una regione o un ministero chiama ad un tavolo le comunità̀ religiose per fare una ‘conferenza sull’integrazione’, nello scegliere chi deve sedere a quel tavolo lo Stato ha già fatto una determinata scelta politica. Molto spesso le associazione piú̀ importanti e grandi sono quelle finanziate dai paesi che lei citava. In Germania questo è il caso per esempio della DITIB (l’Unione Turco-Islamica per gli affari religiosi), associazione dei turchi tedeschi direttamente sostenuta dal governo turco, oggi sotto osservazione dell’Ufficio federale della Protezione della costituzione. Da un punto di vista laico, lo Stato si dovrebbe relazionare con i singoli cittadini e non con organizzazioni e comunità̀ intermedie. L’integrazione non si dovrebbe attuare per il tramite delle comunità̀ religiose ma sulla base della garanzia dei diritti fondamentali di ciascun cittadino.

MATTEO GEMOLO Per concludere, vorrei tornare all’argomento con il quale abbiamo aperto; il suo libro è uscito il 13 settembre, attualmente alla prima ristampa, viene largamente dibattuto e sta riscontrando un meritatissimo successo: ad un mese di distanza dalla sua prima pubblicazione quali sono a suo avviso gli elementi all’interno del suo testo più difficili da far digerire alla sinistra italiana e perché́?

CINZIA SCIUTO Devo ammettere che non mi aspettavo questa accoglienza calorosa, spesso accompagnata da profondi sospiri di sollievo. Non sono state poche le persone che mi hanno avvicinata dicendomi: ‘Grazie finalmente anche noi a sinistra possiamo discutere di questi argomenti senza aver paura di finire nel calderone dei razzisti e degli islamofobi’. C’era un vuoto. Questo argomento è stato troppo a lungo affrontato solo da pensatori di destra. La riscoperta della laicità come chiave critica al multiculturalismo fa a mio avviso la differenza. Quello a cui tengo soprattutto è sottolineare questo: il multiculturalismo va affrontato come una contingenza storica, prodotto del fatto che ci troviamo in società disomogenee e che dunque rappresenta un argomento a cui non possiamo sottrarci. Ma il mio libro ha al centro la laicità, che è un valore universale e che non si impone solo perché abbiamo a che fare col multiculturalismo. Anche se fossimo in contesto totalmente omogeneo, la laicità sarebbe un valore essenziale perché rappresenta la condizione prepolitica per garantire a ciascuno autonomia e libertà.
TAG: Cinzia Sciuto, Crisi della sinistra, islam, laicità, multiculturalismo, sinistra
CAT: diritti umani, Questione islamica

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