30 affermazioni di Bernardo Bertolucci
Il regista "sognatore" attraverso alcune delle sue parole più celebri
Di GABRIELE FAZIO
26 novembre 2018, 17:48
BERNARDO BERTOLUCCI
È morto Bernardo Bertolucci, non soltanto uno dei grandi di sempre del cinema italiano, ma anche un appassionato spettatore. Del cinema una volta disse:
"lo chiamerei semplicemente vita. Non credo di aver mai avuto una vita al di fuori del cinema; e in qualche modo è stato, lo riconosco, una limitazione".
Figlio di un poeta, amico e allievo di un intellettuale illuminato come Pasolini, cui deve l’esordio dietro la macchina da presa, Bertolucci ha sempre dato ampio spazio all’introspezione.
"La solitudine può essere una tremenda condanna o una meravigliosa conquista".
E anche il concetto stesso di cinema diventa la visione di qualcosa di più profondo:
"Filmare è vivere, e vivere è filmare. È semplice, nello spazio di un secondo guardare un oggetto, un volto, e riuscire a vederlo ventiquattro volte".
"Non occorre organizzare nulla perché, a partire dal momento in cui si monta un piano dopo l'altro, ecco che si incontrano delle metafore".
Un artista, comunque, non privo di umorismo:
"Io non credo in Dio, ma se ci credessi sarebbe un chitarrista nero e mancino".
"Sono ateo, grazie a Dio. Come diceva Buñuel"
30 affermazioni di Bernardo Bertolucci
L’amore per il cinema sboccia da piccolo ma alla fine del liceo i genitori gli regalano un pò di soldi e lui decide di utilizzarli per andare a Parigi per visitare ogni giorno la Cinematheque Francaise, dove si formarono i suoi idoli, per i quali ha sempre conservato un amore viscerale:
"Godard, che girava due o tre film all'anno, era l'autore che ci rappresentava meglio, con la sua severità un po' calvinista e la sua capacità di tenere il mondo e quel che scorreva intorno nell'incavo delle sue mani".
"Io avevo un amore per Godard così aggressivo, in fondo, che avrei davvero picchiato qualcuno a cui non piaceva Questa è la mia vita o Fino all'ultimo respiro"
"Con Jean-Luc eravamo molto vicini prima del 1968, poi in quell'anno ci dividemmo un po' perché lui era legato alla Guardia rossa maoista e io invece ero un tetragono comunista vicino al partito. Su questo un giorno avemmo una discussione forte e poi, quando Il conformista uscì in Francia, io lo invitai ad andare a vedere il mio film alla prima. Lui mi diede un appuntamento verso mezzanotte, a seguito della proiezione, in un drugstore. Si presentò senza dirmi nulla e mi diede un foglietto, per poi andarsene via immediatamente. Quando lo aprii, scoprii che c'era un ritratto di Mao disegnato a mano con scritto sotto con un pennarello rosso: "Bisogna lottare contro l'egoismo e l'individualismo". Mi arrabbiai al punto che strappai immediatamente il bigliettino. Sarebbe bello però oggi avere ancora quel foglietto di Godard”.
Nelle interviste non ha mai risparmiato di raccontare se stesso, dal rapporto col fratello…
"Eravamo talmente figli, lo eravamo stati tanto a lungo, che è stato impossibile, per tutti e due, riuscire ad accettare di diventare padri".
…a quello con Pasolini:
"Lavorare con Pasolini era imparare a dirigere. Vedevo un uomo fantastico, un genio che scriveva poesie, romanzi, saggi. Era fantastico, non so come facesse... era immenso, incredibile. Lavorava come un matto ma non sembrava che lavorasse. E la cosa più bella è stata vedere quest’uomo inventare il suo cinema".
Fino ad aprirsi totalmente anche per quanto riguarda se stesso e i suoi problemi di salute:
"Io sono borghese fino alle cellule più infinitesimali, sono socialmente un borghese, e questa frase mi intrigava molto: "chi non ha conosciuto la vita prima della rivoluzione non sa che cosa sia la dolcezza di vivere". Dunque, la prima cosa che mi colpiva ai tempi in cui non avevo ancora scoperto il marxismo era la dolcezza di vivere, dunque la dolcezza di vivere della borghesia, e di qui tutto un mondo che avevo dentro, il mondo della borghesia di provincia, di queste dolcezze mitiche che sentivo vere, quindi nostalgia degli anni d’oro della borghesia in me, vera, di una classe con qualcosa da dire, una classe che dava dei grandi pittori, ecc."
"Parlando con il rimpoche gli chiesi: "Cos'è veramente per te il male?»". Il rimpoche ci penso un po' e poi mi disse: "II male secondo me è rappresentato dall'ego. L'ego è il nostro vero nemico". L'io che soprattutto in occidente è così sviluppato perché in oriente c'è più un'abitudine al collettivismo, c'è molto meno individualismo".
"Dall’idea che la sedia a rotelle fosse una galera sono uscito un giorno guardando una serie Marvel. Ho dimenticato gli svizzeri, le loro cliniche, i bisturi, le riabilitazioni e ho ricominciato a vivere"
E poi, chiaramente, un capitolo a parte meritano i racconti su Ultimo Tanto a Parigi:
"Avevo un grande amico che era Gato Barbieri, il miglior sax tenore bianco di free jazz, argentino, nato a Rosario: quando ascolto papa Bergoglio parlare italiano mi sembra di sentire la voce di Gato. Il titolo: Ultimo tango a Parigi dedicato a lui. Per me il tango era lui e la musica che ha scritto per il film era romantica e straziante".
"Era la fantasia di un ragazzo che professionalmente e creativamente era stato molto precoce, ma che sul piano umano e sessuale pagava un serio ritardo... Adesso non ricordo bene, ma credo di non aver fatto l’amore prima dei 19 anni..."
"Questo film è nato da una fantasia erotica, che è poi quella del film, incontrare una donna mai vista prima in un appartamento deserto e iniziare un rapporto che si ripeterà sempre identico a se stesso. Come dice Brando: “No Names”, nessun nome qui, non sappiamo chi siamo e restiamo così. Questa era l’idea di partenza. Mi sono anche chiesto il perché di questa fantasia, forse perché è il modo di avere un’amante segreta senza sensi di colpa. È il modo per prevenire i sensi di colpa".
"Il dolly scende su di lui, e dovrebbe continuare panoramicando, ma a fine scena l’operatore confessa, “Scusa Bernardo, ma ho visto Marlon Brando e non ho più potuto muovere la macchina da lui".
…e il rapporto con Marlon Brando:
"È stato affascinante vederlo incarnare un personaggio disperato, attingendo alla propria disperazione, seminando schegge del suo privato. Allora lo vedevo come un uomo che stava invecchiando. Avevo trentun anni, lui quarantanove. Ora lo vedo così giovane e bellissimo. È stata l'ultima volta in cui è stato bello".
"La penultima settimana di riprese Marlon non si presenta, mi fa chiamare, vado a casa sua. Mi dice: “Mio figlio Christian è fuggito da sua mamma con due strani hippies drogati, sono spariti nel deserto vicino Los Angeles. Ti prego lasciami andare a cercarlo. Torno tra cinque giorni”. È angosciatissimo. Dico: vai subito. Lo ha fatto, sapevo che era un vero professionista. E poi l’ultima scena del film, che solo dopo ho capito: l’ho fatto correre per tutti gli Champs-Elysées fino alla casa di lei a Montparnasse. Aveva cinquant’anni, non era allenato, avevo paura che ci restasse".
"Alla fine delle riprese mi ha detto: "Mi sento svuotato, dettagli intimi della mia vita, anche dei miei figli sono usciti fuori… non voglio mai più fare un film così. Anche lui, per qualche anno mi ha messo in castigo. Lo cercavo al telefono e lui si faceva negare, ma era lì. Poi mi chiamava una sua amica cinese che mi diceva: Marlon è un po’ arrabbiato, ma se tu fai un film con lui e i suoi pellerossa ti perdona. E io: "Non posso, sto andando a Parma a fare un film con i miei pellerossa, i contadini emiliani"
30 affermazioni di Bernardo Bertolucci
E non risparmia dettagli anche sul controverso rapporto con Maria Schneider e quella famigerata scena del burro:
"Oggi come allora mi sembra che lei venga sedotta dal suo fascino, non costretta da lui. Marlon non è un molestatore, è un disperato. Le opere vanno considerate nel loro tempo. Questo era un film che, come si dice con una parola molto prosaica oggi, sdoganava la sessualità. Allora mi sembrava importante”"
"È consolante e desolante che qualcuno sia ancora così naïf da credere che al cinema accada per davvero quello che si vede sullo schermo. Quelli che non sanno che al cinema il sesso viene (quasi) sempre simulato, probabilmente, ogni volta che John Wayne spara a un suo nemico, credono che quello muoia per davvero"
"Mi sento in colpa ma non me ne pento. Per fare un film, a volte è necessario essere completamente liberi per ottenere qualcosa, credo. Non volevo che Maria recitasse la sua umiliazione e la sua rabbia, volevo che le provasse. E per questo mi ha odiato per tutta la vita".
E gli aneddoti a corredo, di certo, non mancano. Non molti sanno infatti che per le musiche di Ultimo Tango a Parigi si pensò subito ad Astor Piazzolla:
"Lo chiamiamo e lui, offesissimo: "No grazie, non sono un arrangiatore, io sono un musicista". Due anni dopo, in questa casa, sento citofonare: "Sono Astor Piazzolla". Lo faccio salire e lui: "Ero a Roma e volevo dirti che sono stato un cretino, il tuo film è bellissimo e avrei dovuto farlo”. Mi regalò un 45 giri, fatto per me, si chiamava El penultimo tango. Mi ha reso felice"
E quella volta che sul set di La Luna:
"…davanti al cancello di Villa Verdi, a Busseto. Arriva un’automobile velocissima che quasi mi mette sotto. Dico: ma scusi che fa, chi è lei? Era un discendente di Verdi che non ci aveva permesso di girare all’interno. Ma perché, chiedo, c’è sempre Verdi in tutti i miei film, io adoro Verdi. E quello: "Lei non adora Verdi, lei adora il burro". Chiude il finestrino e se ne va sgommando"
Un regista che è sempre stato attento anche alle evoluzioni del cinema:
"Adesso se dovessi fare qualsiasi cosa userei il digitale, perché è un mondo affascinante ancora da esplorare. Siamo abituati al fatto che la pellicola ricorda ancora in qualche modo la pittura impressionista, che non è mai proprio completamente a fuoco. Con il digitale è come bruciare tutto l'Impressionismo, perché è davvero troppo definito. Chissà però che, andando un po' avanti con gli anni, questa altissima definizione non riesca a permetterci di leggere più a fondo dentro i personaggi".
"Per fortuna il cinema si sta trasformando. C'è una grande mutazione e io ne sono molto eccitato. Ogni volta che il cinema è cambiato, per esempio dal muto al sonoro o dal bianco e nero al colore o adesso coi nuovi linguaggi, ogni volta ha ripreso il fiato ed è ripartito per itinerari imprevedibili".
Bertolucci è stato e resterà per sempre uno dei più illustri narratori della storia del cinema, per la quale, ma questo è evidente anche nel suo lavoro, ne ha sempre conservato una devozione assai rara:
"Io ho un temperamento molto mimetico e forse lo scatto primo che mi ha spinto a fare del cinema è questo mimetismo nei confronti dell’unico mito di cui potevo far parte, che è il cinema. Fino a un certo momento, e anche adesso (qui devo dire che gioca molto il cinema americano), io ho visto i film da una posizione assolutamente passiva, come dei fatti mitici, soprattutto il cinema americano. Io poi sono abituato a pensare molto poco. Il mito è qualcosa di fronte a cui non hai bisogno di pensare, è una certezza superiore".
"Ho sempre pensato che tutto il cinema è sempre cinema verità. Che io abbia davanti dei bambini iraniani polverosi, coperti di mosche e con gli occhi più belli che io abbia mai visto nella vita o che ci siano John Malkovich e Debra Winger nel Sahara o ancora Jeremy Irons e Liv Tyler in Toscana, l’evento è sempre lo stesso: sono dei corpi, dei volti immersi in una luce e di fronte alla macchina da presa. E questo succede sempre, anche quando la macchina del cinema diventa poderosa, quando i suoi mezzi sono potenti e sofisticati come avviene nelle grandi produzioni; nel momento in cui si è con la macchina da presa davanti al reale, si torna al cinema verità".
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