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Autore Discussione: lettera di Fedor Dostoevskij al dottor Alexandr Blogonravov ...  (Letto 1279 volte)
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« inserito:: Novembre 04, 2018, 06:37:38 pm »


Marco Ercolani

Il demone di Ivan

In questa lettera di Fedor Dostoevskij al dottor Alexandr Blogonravov (Pietroburgo, 20 dicembre 1880), lo scrittore russo svela alcune delle sue intenzioni più segrete, che oltrepassano la struttura stessa del romanzo.

[…]
Per quel capitolo dei Karamazov (sull’allucinazione di Ivan) di cui Voi, medico, siete così soddisfatto, hanno già provato a farmi passare per un retrogrado e un fanatico che scrive soltanto volgari assurdità. «Toh – esclamano scandalizzati - Dostoevskij si è messo a parlare del diavolo! Ma che trivialità! Com’è arretrato! Che goffaggine!».
Però non sono riusciti nel loro intento. Io Vi ringrazio, specialmente come medico e come neurologo, per il Vostro giudizio positivo sulla mia rappresentazione della malattia psichica di questo personaggio. Ivan Karamazov, come voi avete intuito, in quelle determinate circostanze non poteva avere nessun’altra allucinazione che quella: il demone nella sua stanza.
Non si tratta, Alexandr Fedorovic, del diavolo così come viene raffigurato nell’iconologia cristiana, ma di un’entità perfettamente umana e assolutamente fantastica, un po’ come svegliarsi in piena notte e trovare nel mezzo della stanza, a metà sogno, un essere sconosciuto, increscioso, ripugnante, con il quale si è costretti a parlare, che ti costringe a confessare le cose più oscure, che ti bracca, ti provoca, ti convince di essere, lui, reale - lui, gentleman, parassita, fantasma, caricatura del tuo pensiero e dei tuoi desideri. Per questa cena, in cui un uomo razionale scaglia il bicchiere di brandy contro l’elegante silhouette del suo sosia, patetico dandy dalla barbetta mefistofelica, imbecille che snocciola sciocchezze pseudofilosofiche, io ho scritto la mole colossale dei Karamazov. Correte nel libro, scavalcate gli altri capitoli: dovrete sempre fermarvi (o tornare) alla scena di Ivan, al demone che dice di passeggiare a suo agio fra le geometrie del mondo umano. La chiacchiera del fantasma si confronta solo con la confessione spudorata di Smerdjakov – l’assassino reale, l’esecutore del desiderio. Le due scene si chiamano come due sogni terribili, che possono rovesciare il mondo come un guanto. È per rendere tollerabile alla lettura questo doppio libro che mi sono ingegnato a costruire il “grande romanzo”, i Karamazov, e Dio sa con quale fatica e fra quante crisi!
Ricordate "I demoni"? La bimba violentata da Stavrogin è la vittima innocente per la cui sofferenza Karamazov diventa ateo. La bimba che indica con sdegno il suo stupratore e si impicca nella soffitta è il tema di cui filosofeggiano la "Leggenda dell’Inquisitore" e "Il cataclisma geologico", le opere dell’adolescenza di Ivan. Come vedete, i due romanzi si mescolano. Enormi, prolissi, da fascicolo processuale. Come credete che abbia potuto sopportare la mitezza di Alioscia? Mi ci sono rassegnato da cristiano, a costruirlo come personaggio. Tutto il romanzo è infarcito di apologie, dissertazioni, sentimentalismi. "I Fratelli Karamazov" è uno zibaldone di banalità triviali attorno a un parricidio. Eppure, Ivan… Leggete come il demone appare a Ivan. Egli è lì, pronto a rimandargli l’immagine diabolica del delitto che non ha osato compiere. Io non chiamerei “delirio” la visone di Ivan: manca quel sistema di nessi, quella limpidezza strutturale che rende inumano e geometrico il delirio. Lo chiamerei “stato delirante” perché realtà e doppio della realtà si affrontano in modo spudorato, nelle forme di una banale conversazione, di un cicaleccio da portinaia.
Leggete, amico mio. Ma spegnete il libro: mettete la lampada proprio lì, sull’apparizione del demone. Smascherate il mio libro, dannazione! Che nessuno osi farlo in questo tempo di donnicciole è singolare! Tutti quelli che, in omaggio a chissà quale genio suppongono in me, tacciono le debolezze strutturali del mio romanzo, tacciono anche la violenza di quell’apparizione, più simile all’esplosione di un ordigno che a una pagina di letteratura. Non sanno leggere: sono fuorviati dai contenuti della storia, dalla morale della trama. Non si rendono conto che l’artista, a volte, inventa la storia come un fondale di cartone per piantarvi dietro semi invisibili. La sua attenzione è lì, a certi semi, a certi enigmi. Intorno a questi, e solo a questi, ruota tutta la sua scrittura.
Le pagine vere sono quelle che si avvicinano, con maggiore incandescenza emotiva e chiarezza formale, a questo seme segreto – sesso, radice, origine della pianta. Talvolta lo scrittore si sente come un forzato (vedi Balzac) e scrive romanzo dopo romanzo. Ma cosa cercava, Balzac, se non l’esperienza del limite umano, quel pensiero dell’impensabile che solo nel "Capolavoro sconosciuto" seppe quasi afferrare?
E allora, quale marea di pagine scritte, quanti inutili personaggi, che il lettor dovrà spazzare via per entrare dentro al libro, per scavare, sottrarre, pulire, e poi arrivare a respirare solo in quella pagina che, come un muro sottile, un fragile tramezzo di carta, separa dall’abbagliante presenza dell’Enigma!

Suo Fedor Dostoevskij

(Da “Vite dettate”, Liber, 1994)

Da Fb del 1 novembre 2018
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