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Autore Discussione: Gianfranco PASQUINO ...  (Letto 53513 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Dicembre 18, 2008, 05:07:21 pm »

Ripensare struttura e opposizione

di Gianfranco Pasquino


Riconoscere che nel Partito Democratico esiste una questione, abitualmente, ma impropriamente, definita, morale è l'imprescindibile punto di partenza del necessario ripensamento di che cosa è e che cosa dovrà essere il Partito Democratico.

Gli affaristi in politica si trovano in tutti i partiti, in alcuni addirittura a partire dal vertice. Ma questa non è né una consolazione né un'assoluzione. La questione morale è davvero una questione politica. Discende dalla fretta con la quale è stato lanciato, non costruito, poiché in non poche zone, ancora non esiste, il Pd.

Non è mai stato chiaro quale organizzazione il Pd dovesse darsi, quali metodi di reclutamento, selezione, promozione e, non da ultimo, rimozione di dirigenti e rappresentanti. Non esiste una scorciatoia organizzativa che, per di più, pretenda di ottenere fulminei successi politici e elettorali sommando gruppi dirigenti senza nessun ricambio e senza nessun conflitto di idee, ma anche fra persone. Il Partito Democratico ha perso le elezioni politiche, ma i dirigenti non hanno mai smesso di vantare un risultato positivo. Sicuramente, nessuno di loro ha perso la sua carica.

Questo, però, non può essere il metro di giudizio a meno di affondare nella perniciosa autoreferenzialità.

Se avanza Di Pietro non è per il suo giustizialismo che, in buonissima sostanza, è richiesta di applicazione rigorosa delle leggi.
E' perché gli elettori, in special modo, nell'ambito della sinistra, vogliono rigore e non compromessi, opposizione e non inspiegabili e insostenibili dialoghi.

Insomma, è ora di ripulirsi dagli arrivisti, alcuni dei quali già arrivati da tempo e riciclati, di abituarsi all'idea che il Pd starà all'opposizione per cinque anni, di scrivere l'agenda delle cose da fare interpretando al meglio, come fanno alcuni governanti locali al Nord, le esigenze di oggi e di domani della società italiana.


18 dicembre 2008     

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« Risposta #76 inserito:: Gennaio 03, 2009, 04:52:57 pm »

Napolitano e i tre vestiti del Presidente

di Gianfranco Pasquino


I giuristi italiani si sono affannati per trovare una giusta definizione del ruolo del Presidente della Repubblica italiana.

Deve essere un arbitro fra le forze politiche e, data la loro non brillantissima natura, deve spingersi a rappresentare i cittadini quando le loro esigenze vengono trascurate e le loro preferenze disattese?

Deve,comunque e sempre, essere il guardiano della Costituzione, in particolare quando con alcuni spettacolari annunci se ne prospettano riforme particolaristiche, pasticciate e pericolose come il federalismo, gli interventi contro la magistratura, il presidenzialismo?

Deve essere un vero e proprio predicatore dei valori della Costituzione, ma anche del senso dello stare insieme e di un minimo di collaborazione corresponsabile fra governo e opposizione?

Nel suo messaggio presidenziale, Giorgio Napolitano ha declinato con chiarezza e al meglio un po’ tutti questi ruoli.

Poiché la crisi economica internazionale è grave e, nonostante le illusorie affermazioni in contrario del capo del governo, destinata a durare, il non inutile, come temette il predecessore Luigi Einaudi, “predicatore” invita a considerare la crisi come un’occasione per vivere e agire in maniera più sobria e austera, ma anche per cambiare, al limite per riformare le istituzioni (Pubblica Amministrazione compresa).

Un ruolo centrale rimane attribuito al Parlamento che deve essere valorizzato nel suo compito di giudizio e di proposta, e non mortificato ovvero, come fa la maggioranza governativa, “bypassato”. Il “guardiano” provvederà, naturalmente, affinché le riforme, che vanno condivise, siano rispettose dei valori di libertà, eguaglianza dei diritti e solidarietà e che, altrettanto naturalmente, quelle riforme non entrino in conflitto con l’unità nazionale.

Costituzionalmente, infatti, il Presidente è il rappresentante dell’unità nazionale e non intende in nessun modo derogarvi.
Al contrario, dichiara esplicitamente che continuerà ad ispirarsi ai valori costituzionali, sottolineandone l’essenza ideale e morale, e che lo farà con “imparzialità e indipendenza”.

Dunque, il Presidente ha deciso di accogliere nella sua interpretazione e nella sua azione tutt’e tre le definizioni che i giuristi hanno prospettato. Sarà, volta a volta, arbitro, guardiano, predicatore, e ha già dato mostra di saperlo fare. Tuttavia, l’anno nuovo si preannuncia istituzionalmente e costituzionalmente alquanto complicato, in particolare se il costume dei politici non sarà ispirato all’interesse pubblico. Probabilmente, il Presidente dovrà intervenire in maniera, per quanto riservata esercitando la famosa moral suasion, più incisiva, soprattutto se verrà sfidato dal presidenzialismo che, per quanto indefinito, colpisce al cuore la forma di governo disegnata dalla Costituzione dell’Italia repubblicana.

E, allora, caro Presidente, molti auguri.


02 gennaio 2009
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« Risposta #77 inserito:: Febbraio 03, 2009, 05:02:02 pm »

Quella soglia per l'Europa

di Gianfranco Pasquino


In poco più della metà degli Stati-membri dell’Unione Europea esistono leggi per l’elezione del Parlamento europeo che contengono soglie percentuali (dal 3 al 5 per cento) per ottenere seggi. Spesso, quelle leggi sono la logica prosecuzione di leggi simili già da tempo utilizzate per l’elezione dei rispettivi parlamenti nazionali. In poco meno della metà degli Stati-membri gli elettorati hanno la possibilità di usare uno o più voti di preferenza fra le candidature della lista partitica che prescelgono. Questa sinteticissima ricognizione, non effettuata da Eugenio Scalfari che, quindi, sbaglia nel dire che dappertutto esistono soglie di sbarramento e da nessuna parte le preferenze, approda ad una limpida conclusione.

L’unico elemento comune alle leggi vigenti nei singoli Stati-membri è l’esistenza, persino in Gran Bretagna, che ha dovuto rinunciare al suo sistema maggioritario in collegi uninominali, di leggi proporzionali sostanzialmente imposte dalla “armonizzazione” voluta tempo fa dalla Commissione Europea. Dopodiché i gruppi parlamentari nel Parlamento europeo sono abbastanza numerosi, all’incirca sette, e completamente omogenei al loro interno. Credo che l'esistenza di una qualche frammentazione a livello di Parlamento europeo sia persino opportuna.
Privo di qualsiasi funzione di governo, ma non del tutto di potere sulla scelta e sulla vita della squadra di governo, ovvero della Commissione, il Parlamento deve cercare di essere assolutamente rappresentativo dei cittadini dell'Europa. Deve essere inclusivo al massimo, consentendo accesso alla sua tribuna ad un’ampia pluralità di voci, di idee, di visioni che, anche nel dissenso, potrebbero contribuire a fare crescere l’unificazione politica attraverso il confronto fra diversità. L’eventuale decisione italiana di porre una soglia del 4 per cento per l’accesso al Parlamento europeo, soglia già esistente per la Camera dei deputati, non risponde a nessuna richiesta europea.

È discrezionale e, come tale, può essere criticata poiché, a bocce ferme, comporta la probabile esclusione dei rappresentanti di molti piccoli partiti di sinistra (“nanetti” nella memorabile espressione di Giovanni Sartori). Non è, però, una soglia invalicabile se alcuni di quei nanetti decidessero di procedere a dare vita non a improvvisati cartelli elettorali, ma a forme di aggregazione politica giustificate da un progetto incentrato sull’Europa. Quella soglia, più o meno discutibile, non è, di per sé, liberticida, ma è sicuramente funzionale ad evitare smottamenti sia del Popolo della Libertà sia del Partito Democratico.
Potrebbe anche diventare funzionale per la sinistra in Italia se sapesse coagularsi intorno ad una piattaforma condivisa che rappresentasse, non gli interessi del suo ceto politico, ma quelli degli elettori che non si riconoscono nell’attuale claudicante bipolarismo.


03 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #78 inserito:: Febbraio 10, 2009, 05:13:10 pm »

Votare in scienza e coscienza

di Gianfranco Pasquino


In questioni che riguardano la vita e la morte qualsiasi regolamentazione rischia di essere restrittiva della libertà delle persone. Nessuna regolamentazione deve essere dettata dalla fretta né può configurarsi come regolamentazione ad personam, anzi, per come si prospetta il testo della maggioranza, contra personam. Poiché i parlamentari saranno chiamati a decidere su materie che riguardano noi cittadini, allora è opportuno che ciascuno di loro si prepari ad argomentare la sua valutazione del testo legislativo, a giustificare in totale trasparenza la sua opzione di voto e ad assumersene la piena responsabilità. Quanto migliore sarebbe la rappresentanza politica, di preferenze e di valori, se esistessero collegi uninominali nei quali i parlamentari si confrontassero con gli elettori!

Dovrebbe essere fuori discussione che, quando si tratta della vita e della morte, non possono valere nessuna affiliazione e nessuna appartenenza partitica. Non può essere imposta, come minacciata dal capo del governo e echeggiata dai capigruppo del suo partito, ma dignitosamente respinta dal Presidente della Camera, nessuna disciplina di partito.

Tuttavia, precedenti esperienze, nient’affatto ammirevoli, fanno temere che molti, probabilmente troppi, parlamentari si trincereranno dietro una improponibile “libertà di coscienza” e forse vorranno anche farsi proteggere dal voto segreto.

Al contrario, tutti i parlamentari dovrebbero dichiarare solennemente che rinunciano alla segretezza del loro voto perché desiderano che i loro elettori e, più in generale, l’opinione pubblica interessata e tutti i cittadini sappiano come hanno votato, dando concreta attuazione alla rappresentanza della Nazione senza vincolo di mandato, neppure quello che potrebbe venire loro imposto dal partito, sia al governo sia all’opposizione, che li ha nominati parlamentari.

Auspicherei anche, ed è il punto che mi preme di più, che ciascun parlamentare non chiamasse in causa soltanto la sua coscienza, ma anche la sua “scienza”. Mi pare, infatti, giusto che i parlamentari comunichino, attraverso una apposita dichiarazione di voto individuale, quanto hanno studiato e appreso sulle condizioni che riguardano l’accertamento della fine della vita e l’esistenza o meno di accanimento terapeutico.

Insomma, la coscienza da sola non deve essere considerata una giustificazione sufficiente per l’espressione di qualsiasi tipo di voto. Lo potrà essere soltanto se si qualificherà come una coscienza informata dalla scienza. È il minimo che si possa esigere da chi ci rappresenta soprattutto se sostiene di essere legittimato a decidere sulle condizioni della nostra vita e della nostra morte.


10 febbraio 2009
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« Risposta #79 inserito:: Marzo 31, 2014, 11:47:14 pm »

Oltre il bicameralismo imperfetto

Su: A vostra insaputa

Autore: Gianfranco Pasquino
Data:2014-03-31
   
Il bicameralismo italiano, non essendo affatto “perfetto”, come troppi, persino fra gli addetti ai lavori, si ostinano a dire, deve, comunque, essere riformato. Meglio definito paritario o simmetrico, il bicameralismo può anche essere abolito del tutto. Esiste il monocameralismo in paesi non scivolati sotto il tallone dell’autoritarismo né di altri “ismi” come la Danimarca, la Finlandia, il Portogallo, la Svezia. Altrimenti può essere differenziato in maniera risolutiva ed efficace, vale a dire, affinché se ne giustifichi la persistenza. Fermo restando che in nessun sistema politico bicamerale sono entrambe le Camere a dare (e a togliere) la fiducia, questa non può essere l’unica nota differenziante e la giustificazione di una presunta migliore governabilità sarebbe davvero meschina e insufficiente. La differenziazione che conta è quella che riguarda la competenza, congiunta o esclusiva, per materia. Se il prossimo Senato dovrà essere una camera di “riflessione”, allora bisogna che siano chiare le materie sulle quali darà il suo apporto.

La grandissima maggioranza dei parlamenti bicamerali basa la sua differenziazione sulla rappresentanza territoriale. Le due eccezioni sono costituite dal prototipo della democrazia parlamentare, la Gran Bretagna, dove la Camera dei Lord, composta da Lord ereditari o di nomina reale, ha un collegamento minimo con il territorio, e dal prototipo della democrazia presidenziale, gli Stati Uniti d’America, dove il Senato, probabilmente, il più forte ramo parlamentare esistente al mondo, ha certamente un collegamento fortissimo con il territorio, gli Stati, ma sarebbe alquanto improprio definirlo camera di rappresentanza territoriale. In Europa, la migliore e più forte rappresentanza territoriale è offerta dal Bundesrat tedesco. I suoi solo 69 componenti sono nominati dalle maggioranze di governo di ciascun Land. Vittoriosi in Baviera i democristiani nominano i loro rappresentanti al Bundesrat senza nessuna concessione ai socialdemocratici e ai verdi. Nei Lander dove vincono, i Socialdemocratici e i Verdi fanno altrettanto nominando soltanto loro rappresentanti.  Lo stesso vale per tutti gli altri Länder.

Mutatis mutandis, purché i mutamenti siano limitatissimi, questa modalità di composizione del prossimo, numericamente ridottissimo, Senato italiano, sono facilmente imitabili. Come stanno le cose, in Lombardia, saranno la Lega Nord e Forza Italia a nominare i loro rappresentanti (che potrebbero anche essere senatori uscenti, o giù usciti), mentre in Emilia-Romagna sarà il Partito Democratico a farlo, tenendo conto degli eventuali alleati al governo della Regione. Esiste, però, anche una modalità più innovativa, che garantirebbe rappresentanza territoriale, dando grande potere agli elettori e agli eletti. Una volta stabilito il numero complessivo dei prossimi Senatori, suggerirei non più dei componenti del Bundesrat, e distribuiti fra le Regioni di modo che quelle piccole ne abbiano uno soltanto e quelle grande non più di quattro/cinque, la loro elezione avverrebbe in una competizione su scala regionale, in inglese si dice at large. Vale a dire che ciascun elettore avrebbe un solo voto con il quale scegliere il suo candidato in liste regionali presentate dai partiti, ma anche da associazioni dei più vari tipi. Coloro che otterranno il più alto numero di voti individuale saranno eletti e andranno a rappresentare la loro Regione, proteggendone e promuovendone gli interessi in Italia, e anche in Europa, se a questo nuovo Senato saranno affidate le politiche europee e se l’UE riuscirà mai a diventare effettivamente l’Europa delle Regioni.

Stabilita con criteri chiari e univoci la composizione del nuovo Senato, dovrebbe risultare più semplice la differenziazione delle materie di competenza delle due camere. Comunque, se l’attuale Senato mira a giustificarsi come camera di riflessione, ne ha l’opportunità immediata. Respinga la blindatura imposta dal governo e proponga una riforma all’altezza della sfida. Hic Rhodus hic salta.

Da - http://avostrainsaputa.com.unita.it/politica/2014/03/31/il-bicameralismo-imperfetto/
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« Risposta #80 inserito:: Ottobre 05, 2015, 06:17:43 pm »

Riforme, Gianfranco Pasquino: "Sono tutte sbagliate".
Il futuro sorride a Beppe Grillo. "La sinistra? Vive di nostalgia"

Redazione, L'Huffington Post
Pubblicato: 02/10/2015 09:52 CEST Aggiornato: 1 ora fa

"Tutte le riforme sono sbagliate. Alcune lo sono nel loro impianto stesso; altre lo sono nelle probabili conseguenze". Il politologo Gianfranco Pasquino boccia le riforme costituzionali in corso di votazione al Senato e in un'intervista a ItaliaOggi critica la strategia di Matteo Renzi, preconizza un futuro a 5 Stelle e bolla la sinistra italiana come una formazione nostalgica senza leader né idee.

La posizione più critica è riservata alle riforme - dall'Italicum al nuovo Senato, dalle Province ai referendum - perché "il pacchetto di riforme Renzi-Boschi comprime e riduce il potere elettorale dei cittadini. Non restituisce affatto lo scettro (della sovranità popolare). Al contrario, lo ammacca, per di più, senza nessun vantaggio per la funzionalità del sistema politico". Elementi che sono stati superati dagli "scontri dentro il Pd e dai trasformisti che si affollano alla corte del fiorentinveloce".

Secondo Pasquino non è da salvare nulla. "L'Italicum è una versione appena corretta del Porcellum. Se il bicameralismo imperfetto va superato, allora la vera riforma è l'abolizione del Senato, non questo bicameralismo reso ancora più imperfetto e pasticciato". Il modello migliore sarebbe il Bundesrat. L'Italicum, prosegue Pasquino, "darà una maggioranza assoluta ad un partito, sottorappresenterà le opposizioni, produrrà una Camera dei Deputati fatta per almeno il 60 per cento, forse il 70, di parlamentari nominati che non avranno nessun bisogno di rapportarsi ad elettori che neppure li conoscono. Pertanto, l'Italicum aggraverà la crisi di rappresentanza". Secondo il professore manca un pronunciamento della Consulta che "dovrebbe bocciare le candidature multiple e imporre una percentuale minima per l'accesso al ballottaggio".

Per quanto riguarda il referendum, oggi "l'art. 138 è limpido. Il referendum costituzionale è facoltativo. Può essere chiesto (qualora la riforma costituzionale non sia stata approvata da una maggioranza parlamentare dei due terzi) da un quinto dei parlamentari oppure da cinque consigli regionali oppure da 500 mila elettori. I referendum chiesti dai governi, da tutti i governi, compreso quello di Matteo Renzi, sono tecnicamente dei plebisciti, fra l'altro monetariamente costosi, e sostanzialmente inutili tranne che per il capo di quel governo. Populisticamente dirà che il popolo è con lui. È lui che lo interpreta e lo rappresenta, non le minoranze dentro il Pd, non l'opposizione politico-parlamentare, meno che mai i gufi. È dal popolo che lui sosterrà di avere avuto quella legittimazione che gli manca da quando produsse il ribaltone del governo Letta. Ovviamente si tratta di un inganno".

Sul fronte del capo dello Stato, poi, "temo che sarà ingabbiato - dice ancora Pasquino a ItaliaOggi - Non nominerà il presidente del Consiglio poiché questi sarà automaticamente il capo del partito/lista che ha vinto il premio di maggioranza, e pazienza. Ma, più grave, non potrà sostituirlo. Il sistema s'irrigidisce e quindi può anche spezzarsi rovinosamente. Non potrà, il presidente della Repubblica, neppure opporsi alla richiesta faziosa di scioglimento del parlamento. Altro irrigidimento, altro rischio. Potrà, però, bella roba senza nessuna logica istituzionale, nominare cinque senatori nella camera delle regioni".

Pasquino definisce "una grossa bugia" quella che arrivano le riforme dopo decenni di immobilismo. "Nei 30 anni anteRenzi abbiamo fatto due riforme elettorali, una bella legge per l'elezione dei sindaci, due riforme costituzionali del Titolo V e siamo anche riusciti a introdurre le primarie. Tutte riforme brutte? Ma quelle che ci stanno arrivando addosso sono almeno belline? Proprio no".

Il politologo si lancia poi in previsioni sul futuro. Nel 2018 "il vecchio Berlusconi sarà certamente fuori gioco", per motivi anagrafici, spiega, mentre Matteo Salvini "sarà pimpante, battagliero, con una nuova felpa colorata, ma consapevole di non potere vincere da solo e altrettanto consapevole che la sua politica gli impone di correre da solo per prendere tutti i voti che può, che saranno molti, ma non abbastanza". Dal canto suo Beppe Grillo "è il giocatore che si trova nelle condizioni migliori. Stando così le cose, continuando l'insoddisfazione degli italiani nei confronti della politica, dell'euro, dell'Unione europea, e rimanendo il premio in seggi da attribuire a partiti e/o liste singole, il candidato di Grillo alla presidenza del Consiglio andrà al ballottaggio e parte dell'elettorato italiano gli consegnerà il proprio pesante voto di protesta. Ne vedremo delle belle".

E la sinistra? "La sinistra non sa e non vuole ricomporsi - risponde Pasquino - Non ha nessun punto programmatico forte. Non ha neppure un leader attraente com'è Tsipras in Grecia, o com'è Pablo Iglesias di Podemos in Spagna. La sinistra italiana testimonia la sua nostalgia (non quella degli elettori) e si crogiola nella sconfitta, tutta meritata".

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/10/02/riforme-gianfranco-pasquino_n_8231262.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #81 inserito:: Dicembre 07, 2017, 06:35:36 pm »

La legge elettorale, i sistemi politici e 5 cose da non dimenticare
Bisogna sfatare un po' di luoghi comuni sul dibattito attuale e prendere con le pinze le stime del voto che si fanno a quattro mesi dal voto

Di GIANFRANCO PASQUINO
07 dicembre 2017

Questo è un articolo dell'Atlante elettorale della Società Italiana di Studi Elettorali (Sise) che - in collaborazione con Repubblica - offre ai lettori una serie di uscite settimanali in vista delle elezioni politiche del 2018. La Sise promuove dal 1980 la ricerca nel campo delle elezioni, delle scelte di voto e del funzionamento dei sistemi elettorali. L'Associazione si avvale del contributo di giuristi, sociologi, storici e scienziati della politica, con l'obiettivo di favorire la discussione attraverso l'organizzazione di convegni di taglio accademico aperti anche al contributo di politici e commentatori.

La legge elettorale Rosato assegna due terzi dei seggi (66 per cento) della Camera e del Senato con metodo proporzionale e un terzo con metodo maggioritario in collegi uninominali. Nel 2006 circa il 90 per cento dei seggi furono assegnati con il metodo proporzionale; nel 2008, più dell'85 per cento; nel 2013 più del 75 per cento. Quindi, l'Italia non sta affatto "tornando alla proporzionale". Non ne era mai uscita, neanche con l'Italicum. Al contrario, è cresciuta la percentuale di seggi attribuiti con metodo proporzionale.

Tutte le democrazie parlamentari europee utilizzano da tempo, quelle scandinave, il Belgio e l'Olanda, da più di cent'anni, leggi elettorali proporzionali. La legge tedesca, che si chiama "rappresentanza proporzionale personalizzata", in vigore dal 1949, ha subito diversi piccoli adattamenti, ma la struttura è invariata.

Soltanto la Francia ha dal 1958, con la sola interruzione delle elezioni legislative del 1986, una legge elettorale maggioritaria in collegi uninominali con clausola di accesso al secondo turno. Talvolta, raramente, passano al secondo turno soltanto due candidati. Allora si ha tecnicamente ballottaggio. Quando i candidati che rimangono in lizza sono più di due si ha, per l'appunto, il secondo turno nel quale chi vince raramente ottiene la maggioranza assoluta dei voti espressi.

La quasi totalità dei governi delle democrazie europee sono governi di coalizione, composti da due o più partiti. Rari sono i casi di governi composti da un solo partito, ovviamente ad esclusione della Gran Bretagna (tranne nel periodo 2010-2015) e, soprattutto nel passato, dei governi di minoranza socialdemocratici, in particolare in Svezia, agevolati dalla non necessità di un esplicito voto di sfiducia.

I governi di coalizione si caratterizzano per due elementi. Il primo elemento è che, comprensibilmente, due partiti rappresentano l'elettorato, le sue preferenze, i suoi interessi, persino i suoi ideali, meglio di quanto possa fare un solo partito. Il secondo elemento è che il programma concordato, faticosamente quanto si vuole (ma con meno fatica se non è la prima volta che si forma quella coalizione di governo) smusserà le punte estreme dei programmi dei differenti partiti. Quel governo risulterà meglio rappresentativo delle preferenze degli elettori mediani.

Nonostante recenti, comparativamente e numericamente del tutto infondate, affermazioni, non è affatto vero che l'alternanza al governo fra partiti e coalizioni costituisca una costante nel funzionamento delle democrazie parlamentari europee. Al contrario, l'alternanza è un fenomeno generalmente raro e l'alternanza "completa" - quella nella quale un partito o una coalizione subentrano ad un partito e ad una coalizione escludendoli totalmente - è un fenomeno rarissimo. Richiede l'esistenza di un solido sistema bipartitico com'è stato quello inglese dal 1945 al 2010, nel quale soltanto due partiti, gli stessi, potevano ottenere la maggioranza assoluta di seggi nella Camera dei comuni e, quando la ottenevano, governavano da soli. Altrove, nella grande maggioranza dei casi, quello che avviene è la sostituzione di uno o due partiti al governo accompagnata dalla persistenza di uno o due partiti nel governo: semi-alternanza? Semi-rotazione?

La casistica è amplissima. Mi limiterò ai due esempi più recenti. In Austria, i Popolari, già al governo, hanno deciso di fare una nuova (ma non inusitata) coalizione di governo escludendo i Socialdemocratici e includendo i Liberali. In Germania è ritornata possibile la Grande Coalizione, esempio probante di non alternanza. In nessuna delle democrazie parlamentari europee è mai stato posto l'obiettivo di conoscere "chi ha vinto" la sera stessa delle elezioni.

Infine, una nota di cautela sulle simulazioni relative ai risultati elettorali e alle loro conseguenze sui governi possibili. Ragionare su quelle simulazioni a quattro mesi dalle elezioni prendendole come attendibili significa ritenere che:
la campagna elettorale non farà nessuna differenza;
gli accordi pre-elettorali fra i partiti saranno irrilevanti;
le personalità dei leader degli schieramenti non conteranno quasi nulla;
nessuno degli antagonisti commetterà errori significativi né troverà un asso nella manica;
le preferenze degli elettori, molti dei quali, è noto, decideranno il loro voto nell'ultima settimana, se non la notte prima dell'elezione, rimarranno stabili.
Tutto improbabile.
 
* Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza Politica.

© Riproduzione riservata 07 dicembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/12/07/news/la_legge_elettorale_i_sistemi_politici_e_5_cose_da_non_dimenticare-183232351/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P1-S1.6-T1
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« Risposta #82 inserito:: Marzo 17, 2018, 12:48:54 pm »

Politologia e politica del renzismo

8 marzo 2018 di Gianfranco Pasquino

Sostiene il noto politologo Lorenzo Guerini, membro della segreteria del Partito Democratico: «il ruolo che ci hanno assegnato gli elettori è quello dell’opposizione». Attendiamo un rapido endorsement di Romano Prodi. Con qualche sorpresa, rileviamo che, a sua insaputa, l’on. Guerini, debitamente rieletto grazie alla generosa legge Rosato, resuscita il vincolo di mandato, quello, curiosamente, che vorrebbero i pentastellati. Ovvero, addirittura sa, dopo un’intensa campagna elettorale di ascolto sul territorio, che gli elettori lo votavano poiché volevano mandarlo all’opposizione. Sì, visti gli esiti elettorali, è probabilissimo che l’ottanta per cento degli elettori italiani abbia voluto proprio questo, ma anche gli elettori del Partito Democratico lo hanno votato per mandarlo (e tenerlo) all’opposizione? Non ci posso credere, però, capisco che con queste rudimentali conoscenze il Guerini fosse entusiasta delle riforme costituzionali bocciate solo dal 60 per cento degli elettori. E se quegli elettori che, certo tormentatamente, hanno alla fine deciso di votare PD volessero, invece, cercare di mantenerlo in una coalizione di governo, persino farne il partito che desse le carte del prossimo governo? No, il Guerini ne sa di più ed esclude che questo fosse l’obiettivo degli elettori del PD. Tuttavia, un problema lui e il suo segretario dimissionario autosospeso potenziale sciatore dovrebbero porselo: e se quegli elettori del PD volessero, comunque, essere rappresentati?

Andarsene sull’Aventino, ahi, errore: sto sondando le conoscenze storiche di Guerini, Renzi e chi sa quant’altri, sarebbe una buona accettabile modalità di rappresentanza politica da offrire, mantenere, garantire per quei 6 milioni e 135 mila elettori ed elettrici che, nonostante tutto, hanno tentato disperatamente di salvare il PD? Eh, no, afferma il Guerini, noi quella rappresentanza gliela daremo stando all’opposizione. Starete all’opposizione anche, si chiedono gli elettori, se si verificasse una situazione nella quale i vostri voti risultassero non solo necessari, ma decisivi per dare vita a un governo, per renderlo operativo e credibile sulla scena e nelle istituzioni europee (quei voti che, fra l’altro, lo scrivo per il Guerini, non per il Renzi che toglieva la bandiera dell’Unione prima di una sua conferenza stampa, sono l’ultimo nucleo forte di europeisti)? Lascerete così campo libero agli euroscettici, se non, addirittura, ai sovranisti Meloni-Salvini? Qui, con grande perplessità del Guerini (e di Renzi, Lotti, Boschi, Richetti e compagnia forse non più tanto danzante), fa la sua ricomparsa il dettato costituzionale relativo alla rappresentanza della Nazione ‘senza vincolo di mandato’.

Esiste, sicuramente, un vincolo di lealtà e persino di disciplina nei confronti del partito che candida e fa eleggere per il quale, in primo luogo, hanno votato gli elettori che, ancora più sicuramente, non gradiscono i trasformisti, e hanno ragione. Però, esistono anche una teoria e una best practice della rappresentanza che si traduce nella acuta consapevolezza che bisogna mettersi a disposizione per servire i superiori interessi della nazione. Hai visto mai che fra questi interessi ci sia un governo capace di durare e di agire, operativo (che è il termine che ho già variamente usato), che tale non potrebbe né esistere né produrre effetti senza una convinta partecipazione dei parlamentari del PD? Questa si chiama rappresentanza politica più responsabilità. No, la sinistra, che non è affatto la stessa cosa del PD, non si ricostruisce andando a collocarsi sterilmente all’opposizione e ‘gufando’ (ho già sentito questo verbo, ma non ricordo più chi lo ha utilizzato spesso, senza successo). Si ricostruisce sui punti programmatici che saprà imporre a una coalizione di governo nata con il suo appoggio, efficace grazie al suo sostegno, riformista grazie alle sue proposte.

I dirigenti di un Partito Democratico (vorrei che la ‘p’ e la ‘d’ potessero essere al tempo stesso maiuscole e minuscole) consentirebbero ai loro iscritti di scegliere democraticamente la strada che desiderano che i loro parlamentari imbocchino e percorrano, magari facendo loro (agli iscritti) ascoltare qualche voce diversa dai renziani che sono tutti parte del problema e che non hanno finora saputo elaborare neanche un brandello di soluzione. Anche per questo hanno perso più di quattro milioni di voti.

Da - http://www.paradoxaforum.com/politologia-politica-del-renzismo/
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« Risposta #83 inserito:: Marzo 19, 2018, 10:53:37 am »

Un’entrata a gamba tesa

MARZO 15, 2018
8:29 AM

Il primo tempo della partita politico-elettorale è terminato il 4 marzo sera. Siamo nell’intervallo in attesa del secondo tempo che inizierà il 23 marzo. Gli spettatori si scambiano opinioni. I giocatori in parte si riposano in parte si fanno massaggiare le botte ricevute in campo in parte esultano. I capitani delle squadre preparano il secondo tempo contando anche su eventuali favori della fortuna e dell’arbitro. Forse un po’ sorpresi dall’esito del primo tempo forse non abituati a giocare ad alto livello, alcuni giocatori hanno rilasciato dichiarazioni un po’ ingenue e alcuni capitani si sono fatti prendere dal nervosismo. Fuor di metafora, a Bruxelles per una riunione dei Ministri dell’Economia e delle Finanze, l’uscente, ma tuttora in carica, Pier Carlo Padoan afferma candidamente che l’Italia rappresenta un elemento di incertezza per l’UE e che lui stesso non sa dove si andrà. Che poi il Commissario all’Economia Pierre Moscovici, dopo essersi qualche tempo fa, augurato un governo italiano stabile e operativo, allora quasi un assist a Gentiloni, adesso dica di essere “sereno” lui e sereni i mercati, fa parte del fair play oppure, per rimanere con l’inglese, del wishful thinking: un davvero pio desiderio. Non abbastanza inglese, un solo viaggio a Londra non può bastare, Di Maio si innervosisce di fronte alla stampa estera forse proprio perché stava ribadendo la sua conversione –difficile dire se condivisa da tutto il Movimento, ma finora non contraddetta e non smentita da nessuno– favorevole alla permanenza dell’Italia nell’Unione Europea con un ruolo attivo. Accusa Padoan di avvelenare i pozzi e annuncia la sua personale soluzione del rebus “formazione del prossimo governo”. Nessun governo istituzionale nessun governo di tutti, il governo dovrà essere fatto dalle Cinque Stelle. Poi, va oltre. Secondo Di Maio, gli italiani hanno votato lui Premier, il programma del Movimento e tutta la lista dei suoi Ministri (quella inviata tempo fa al Presidente Mattarella).

Scontato l’elemento fortemente propagandistico, nella metafora calcistica, l’entrata a gamba tesa, Di Maio dimostra di non conoscere o di voler trascurare i fondamenti delle democrazie parlamentari. Primo, gli elettori non votano mai nessun governo, ma soltanto i partiti. Nessun capo di governo è scelto direttamente dagli elettori. Nel migliore dei casi, il capo del partito, spesso quello più votato, diventerà capo del governo. Esclusivamente nei rarissimi casi in cui il governo è fatto da un solo partito sarà il capo del governo a stilare la lista dei Ministri. Altrimenti, i nomi dei ministri saranno indicati dai capi dei partiti che hanno raggiunto un accordo di coalizione, fatti propri dal capo del governo e, poi, nel caso della democrazia parlamentare italiana, nominati dal Presidente della Repubblica.

Probabilmente Di Maio è sull’orlo di una crisi di nervi. Continua a ripetere che gli altri capi dei partiti e delle coalizioni debbono riconoscere il suo successo, cercarlo, andare da lui, portare le loro carte e discutere. Invece, non succede niente di tutto questo. Non riesce a rendersi conto che qualsiasi azione del genere è, comunque, prematura. Non sembra capire che semmai dovrebbe essere lui a individuare i potenziali alleati e andare a confrontare le sue carte, il suo programma, le sue priorità con gli alleati che preferisce. Fa bene Di Maio a sostenere che l’elezione dei Presidenti delle due Camere non deve costituire la prefigurazione di nessuna maggioranza di governo. Farebbe ancora meglio se attendesse l’inizio della procedura consacrata dal tempo e dalla prassi. Meglio che tenga coperte le sue carte. Le faccia vedere al Presidente della Repubblica. Senza fretta, senza impuntature, senza pressioni. Il resto, che non potrà comunque mai essere il governo del solo Movimento, per il quale mancano i voti in parlamento, verrà.

Pubblicato AGL il 15 marzo 2018

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« Risposta #84 inserito:: Marzo 19, 2018, 11:10:41 am »

In Memoriam di Piero Ostellino (1935-2018)

MARZO 13, 2018 10:33 AM

Caro Piero,
liberale, illuminista scozzese, purtroppo anche juventino, ci siamo incontrati, grazie a Giuliano Urbani, un giorno del settembre 1967 nel tuo ufficio al Centro Einaudi di Torino. Mi hai subito chiesto di collaborare a “Biblioteca della Libertà”, una piccola preziosa rivista. Ne sono stato sorpreso e onorato. Ho scritto spesso, accettando le tue “commesse” sempre acute, seguendo i tuoi suggerimenti sempre utili, usufruendo e apprezzando il grande, totale spazio di libertà che concedevi ai tuoi collaboratori anche quando, era il mio caso, fossero socialisti. Sono tuttora molto fiero di quegli articoli. Recentemente, me ne sono riletti alcuni non male: sulle sanzioni alla Rhodesia, su De Gaulle e sulla sburocratizzazione della politica. Scrissi anche diverse recensioni bellicose, con uno stile che, con mia grande gratificazione, incontrava il tuo burbero consenso. Non mi hai mai (ri)toccato neppure una riga. Non ti ho detto quante volte, invece, i molti direttori dei quotidiani ai quali ho poi collaborato (con la luminosa eccezione de “l’Unità” di D’Alema, Renzo Foa, Veltroni e Peppino Caldarola) mi hanno chiesto di cambiare questo, rivedere quello, cancellare quell’altro, riscrivere soprattutto la chiusa.

In quel tuo ufficio ti ho visto scrivere fra il 1967 e il 1969 (poi mi trasferii a Bologna) sul finir del pomeriggio molti articoli spesso per la “Gazzetta del Popolo” che andavi a portare di persona al giornale e iniziare la tua collaborazione al “Corriere della Sera”. Grandissima fu la mia sorpresa quando un giorno, quasi di punto in bianco, tu mi annunciasti ufficialmente come la cosa più naturale, ovvia, possibile che il tuo obiettivo era diventare il Direttore del Corrierone. Punto e basta, quasi fosse l’operazione più facile del mondo. Pur leggendoci reciprocamente, per anni non ci incontrammo di persona. Erano gli anni nei quali tu fosti inviato dal Corriere prima a Mosca, poi in Cina. Scrivevi articoli straordinari, illuminanti, al limite della brutalità, con una prosa scintillante nella quale non c’erano mai frasi fatte, mai banalità, mai cose risapute. Ancora adesso sorrido quando penso ad un articolo brillantissimo in occasione di una tua escursione in Mongolia: una vera delizia.

Da Direttore del Corriere so che la tua vita era diventata molto difficile, fra tensioni e pressioni, negli anni di Craxi (1984-1987) quando tutti i politici pensavano di avere il diritto di “importunare” i direttori dei maggiori quotidiani italiani. Ero tornato da poco da una mia permanenza negli USA e mi chiedesti un articolo sulle riforme istituzionali e due articoli sul centralismo democratico. Scritti e accettati, come al solito senza nessuna richiesta di intervento correttivo, anche se, pur criticando il modello di partito del PCI, non avevo tralasciato di affermare e argomentare che quel centralismo conteneva non pochi tratti effettivamente “democratici”. Da quel che abbiamo visto e, anche scritto, dopo, siamo diventati abbondantemente consapevoli di quanto inquinato da autoritarismi e servilismi possa essere il funzionamento di quelli che neppure più sono partiti, ma tristi veicoli di ambizioni personali. Peccato che quella mia embrionale collaborazione non abbia potuto continuare quando forze non tanto oscure ti allontanarono dalla direzione del Corriere.

Da ultimo, non posso sottacere, e neanche tu vorresti che lo facessi, quello che fu un vero scontro di idee, di interpretazioni, di valutazioni, di prospettive sul liberalismo come praticato dagli italiani compreso il Corriere della Sera, sul quale tu lanciasti una durissima reprimenda contro il mio articolo introduttivo al fascicolo da me curato della rivista “Paradoxa” (Gennaio/Marzo 2012) intitolato Liberali, davvero! Non sarei fair se proseguissi quella discussione senza tua possibilità di replica. Uso con un po’ di civetteria questo aggettivo inglese che non trova una traduzione italiana adeguata e pregnante per fare riferimento agli illuministi scozzesi, tutti “Fair, davvero!”, che tanto stimavi perché pragmatici iniziatori della grande epoca del liberalismo politico e che mettevi in contrapposizione agli illuministi francesi, rigidi e “ideologici” (sic) ai quali attribuivi fin troppe colpe. Sono contento, Piero, di averti conosciuto, di avere letto i tuoi articoli, di essermi irritato di fronte ad alcune tue tesi, di avere goduto della tua stima. Farewell.

Pubblicato il 12 marzo 2018 su PARADOXAforum

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