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Autore Discussione: Paolo MIELI  (Letto 11702 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Giugno 08, 2017, 11:08:23 am »

POLITICA
La guerra ai terroristi si fa con le parole giuste
Minacciare ritorsioni impraticabili è rischioso, meglio raffinare l’analisi di un problema che durerà e non si supera dicendo che la vita continua come prima

Di Paolo Mieli

Dice Theresa May, premier britannico, che «quando è troppo è troppo». E il ministro degli Esteri Boris Johnson promette che «ai terroristi non sarà consentito di distruggere la nostra democrazia». Per poi aggiungere: «Oggi milioni di londinesi continueranno la loro vita, andranno al pub, al museo, nei parchi, a vedere spettacoli e questa sarà la miglior risposta». Quante volte abbiamo ascoltato queste parole? In genere il leader di turno conclude con annunci di «reazioni durissime». «Spietate» specificò l’allora presidente francese François Hollande il 13 novembre 2015 dopo la strage del Bataclan. E il saggista inglese Niall Ferguson così commentò: «Non gli credo … questa l’ho già sentita, poi in genere quando la situazione comincia a girare per il verso sbagliato ecco che su entrambe le sponde dell’Atlantico emergono le riserve dell’opinione pubblica … Altro che spietati, quando lo siamo stati davvero nei nostri Paesi si gridava allo scandalo».

Effettivamente la prima cosa che una donna o un uomo di governo dovrebbero fare nei minuti successivi a un attentato come quello di sabato notte al Borough Market è pronunciare sì parole di cordoglio ma evitare di promettere ritorsioni che tutti sappiamo non essere praticabili. Ci basta sapere che negli ultimi mesi in Gran Bretagna su otto attentati ne sono andati a segno solo tre e gli altri sono stati sventati. E sarebbe più saggio non dare l’illusione che da adesso in poi, grazie a chissà quale svolta, di atti terroristici non ne vedremo più. E meglio ancor più, raffinare le analisi di un fenomeno che ci accompagnerà per chissà quanti anni ancora. Sotto questo profilo fu più efficace il predecessore della May, David Cameron, che in due importanti discorsi (giugno e luglio del 2015, il primo in Slovacchia, il secondo a Birmingham) chiese agli islamici inglesi cosa avrebbero fatto per aiutare le autorità di polizia a combattere i terroristi, ricordò che musulmani venivano sistematicamente uccisi da altri musulmani e spiegò come, a parer suo, fosse sbagliato continuare a dire che «l’integralismo è frutto dei nostri errori o della povertà».
La guerra al terrorismo oggi, eccezion fatta per coloro che indossano una divisa, andrebbe combattuta principalmente sul piano culturale. Ed è un conflitto tra noi e noi, prima ancora che tra noi e «loro». Il confronto militare con «loro», cioè con Daesh, ha tempi più lunghi di quelli che – sprovvisti di un’adeguata conoscenza – siamo stati indotti a supporre. Ne è riprova la «liberazione» di Mosul iniziata lo scorso 17 ottobre e presentata all’epoca sui media come qualcosa che sarebbe stata portata a termine nel giro pochi giorni. Adriano Sofri che ha seguito la vicenda sul campo già in novembre aveva puntato l’indice contro «un giornalismo mediamente cialtrone» che aveva dato Mosul per conquistata già a fine ottobre «quando la forza speciale antiterrorismo irachena era appena entrata nei sobborghi della sponda est del Tigri, la meno difendibile da parte dell’Isis». Dopodiché l’avanzata non aveva fatto sostanziali passi avanti e a volte ne aveva «fatti indietro». Questo a metà novembre. Siamo a giugno e Mosul non è stata ancora definitivamente liberata.
Ma, dicevamo, ciò che ci compete non è improvvisarci strateghi militari né a Mosul, né qui in Europa. Chi sostiene di avere soluzioni militari pronte per l’uso – sia qui che lì – è un ingenuo semplificatore o, peggio, un imbroglione. L’unica cosa che possiamo fare (e che ci compete) è approfondire la discussione sulle categorie a cui facciamo ricorso per affrontare una questione – quella del radicalismo islamico – che ormai ci accompagna da oltre un quindicennio. Qui sembra che il Paese che, sotto questo aspetto, ha fatto più passi avanti sia la Francia. Si pensi a Gilles Kepel che fece notare come l’ottantaseienne sacerdote Jacques Hamel fosse stato sgozzato nel luglio scorso a Saint-Étienne-du-Rouvray (Rouen) da un diciannovenne. Un ragazzo che aveva appena trascorso un anno in carcere per aver cercato di andare in Siria e che era stato da poco liberato per buona condotta. Quando entrò in prigione – ha sottolineato Kepel – quel ragazzo non sapeva quasi nulla della Jihad, ma ne è uscito islamizzato dalla testa ai piedi e con la volontà di uccidere.
Si pensi a Jean Birnbaum il quale ha scritto che a confonderci le idee sono in campo due illusioni complementari: la sinistra vede gli jihadisti come poveri; la destra li confonde con gli immigrati. Ma l’essenza della religione è quella di essere senza paese o confini. Il Jihadismo è una causa la cui influenza è così potente che può inghiottire un giovane cresciuto nella campagna francese o uno studente brillante che proviene da una famiglia cristiana. Birnbaum, nel libro «Un silence religieux. La gauche face au djihadisme» (Seuil) ha definito «rienavoirisme» la tesi secondo cui il terrorismo islamico non ha niente a che vedere («rien à voir») con la religione. Polemizzando sia pure velatamente con papa Francesco.
In Francia si è più discusso sul «ricatto dell’islamofobia»: così lo ha definito Alain Finkielkraut per il quale il concetto è ricalcato su quello di antisemitismo, sicché non se ne riesce a capire la specificità. Di più, sostiene Finkielkraut che tale «analogia occulta la realtà eclatante dell’antisemitismo islamista». Quando a Colonia a Capodanno del 2016 gruppi di ragazzi musulmani molestarono ben mille e duecento donne di ogni età in un’azione evidentemente coordinata, in Francia ci fu chi cercò di minimizzare. Elisabeth Badinter in quell’occasione definì «scioccante» tale «negazione da parte di alcune femministe militanti francesi che hanno preso le difese degli aggressori anziché delle vittime». «Sono quasi trent’anni - disse apertamente - che cediamo spazi all’islam radicale per paura di passare per islamofobi… Siamo sempre stati zitti perché c’è il terrore di fare il gioco dei razzisti e dei partiti di estrema destra». Ed è sbagliato: «È negando la realtà che si nutrono razzismo ed estrema destra e che si perde la fiducia della gente».
Secondo il filosofo Michel Onfray il termine «islamofobia» sarebbe addirittura da bandire. Non corrisponde a niente di realmente esistente, sostiene Onfray, nel libro Penser l’Islam, «è un concetto polemico utilizzato per impedire ogni riflessione sull’islam che non sia un pensiero di reverenza». Siamo in presenza di un anti-islamista militante? No. Lo scorso settembre Onfray dichiarò alla televisione Russia today  che il fatto che la comunità musulmana fosse in collera contro l’Occidente gli sembrava «del tutto legittimo; l’Occidente dice di attaccare per proteggersi dal terrorismo – proseguiva Onfray – ma crea il terrorismo attaccando». E una sua frase, «dovremmo smetterla di bombardare le popolazioni musulmane», finì addirittura in un video Isis di rivendicazione degli attentati di Parigi. Abbiamo l’impressione che le proclamazioni stentoree non si accompagnino, in genere, a discussioni approfondite. Anzi, spesso è l’opposto. Coloro che ad ogni attentato incitano a continuare a vivere come si faceva prima e nel contempo annunciano l’uso, «da questo momento», di maniere forti (non si sa né dove, né contro chi) dicono cose che da tempo hanno perso di senso. Meglio affidarci a chi non offre soluzioni e propone riflessioni. Almeno, forse, faremo qualche passo avanti e non rimarremo inchiodati al punto in cui siamo fermi da anni.

4 giugno 2017 (modifica il 4 giugno 2017 | 23:07)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_giugno_05/guerra-terroristi-269f8938-4969-11e7-bdef-f5dafe5374ed.shtml
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« Risposta #16 inserito:: Settembre 20, 2017, 10:40:23 pm »

SCENARIO
Il rebus del nuovo premier
Il sistema elettorale e il panorama partitico rendono azzardata ogni ipotesi reale di governo

  Di Paolo Mieli

Beppe Grillo ha annunciato che il «candidato premier» dei 5 Stelle sarà anche il capo politico del movimento. Lodevole intenzione per quel che concerne la loro leadership. Superflua per quel che riguarda la designazione del futuro presidente del Consiglio. E non solo perché, a norma di Costituzione, questa scelta spetta al capo dello Stato. Né per il fatto che Luigi Di Maio, secondo quel che prescrive l’articolo 7 del regolamento pentastellato — è vietata la presentazione nelle liste di una persona nei cui confronti penda un procedimento penale, «qualunque sia la natura del reato contestato» — sarebbe addirittura non candidabile. Di Maio, è vero, dovrà presentarsi in un’aula di tribunale in occasione di due processi per diffamazione (senza contare che — a detta del loro ex ideologo, Paolo Becchi — ne è in arrivo un terzo). Ma non è per questo che l’annuncio di Grillo è, parzialmente, superfluo. I veri motivi per cui la candidatura di Di Maio a premier è di natura esclusivamente formale, sono altri. Uno in particolare: con il nuovo sistema elettorale, quale che esso sia, sarà impossibile che i votanti contribuiscano in modo determinante alla scelta di chi verrà poi nominato primo ministro, come invece accadeva nel ventennio di Silvio Berlusconi e di Romano Prodi. Ripetiamo: sarà pressoché impossibile.
Non esiste in natura, infatti, un sistema elettorale che possa garantire in entrambe le Camere (sottolineiamo: tutte e due le Camere) l’elezione del 51 per cento di quei parlamentari a cui dovrebbe essere poi affidata la missione di portare a Palazzo Chigi il «candidato premier». Eccezion fatta per un impensabile ballottaggio nel quale, con un unico voto, si decida la maggioranza nei due rami del Parlamento. E anche in questo caso il responso delle urne potrebbe riservarci qualche sorpresa in quanto tale risultato verrebbe prodotto da corpi elettorali differenti (per le due Camere si vota a partire da età diverse: 18 anni per Montecitorio e 25 per Palazzo Madama). Discorso chiuso dunque. Durante la campagna elettorale sentiremo ancora parlare di «candidati premier», ma sarà solo per coazione a ripetere gli slogan della ventennale stagione del maggioritario. Nessuno dei primi ministri designati dai partiti avrà qualche ragionevole possibilità di entrare a Palazzo Chigi. Anzi, proprio perché saranno candidati di vessillo, a loro specificamente sarà con ogni probabilità precluso di essere scelti come capi di un eventuale governo di coalizione. Diciamo «loro», dal momento che il discorso vale non solo per Di Maio, ma anche per Matteo Renzi e Matteo Salvini, gli altri due leader di partito che, ad oggi, si sono presentati sulla scena come «candidati premier». Né Di Maio, né Renzi, né Salvini saranno dunque presidenti del Consiglio nella prossima legislatura.
Si obietterà: potrebbero lo stesso essere chiamati alla guida di un governo, ad esempio un governo di coalizione (non mancano precedenti in Europa dove, a cominciare dalla Germania, è accaduto qualcosa del genere). Improbabile, perché negli altri Paesi europei le condizioni sono diversissime e in ogni caso i capi partito che guidano coalizioni si alleano con formazioni di consistenza assai minore. Qui da noi, invece, le ipotesi di «alleanza per un governo» sono tre. La prima (dichiarata) tra Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia alla quale nessun sondaggio assegna più del 35 o 36% . Né è pensabile che partiti dell’ultim’ora come quello «animalista» di Michela Vittoria Brambilla o quello «rinascimentale» di Vittorio Sgarbi e Giulio Tremonti riescano a colmare il gap che divide il 36 (percentuale di voto assegnata dalle rilevazioni demoscopiche) dal 51 (percentuale dei parlamentari necessari a dar vita a una maggioranza). Tra l’altro i primi due partiti di questa coalizione sono tra loro in stato di esplicita ostilità e in condizioni di sostanziale parità, anche se è dato per probabile che nel rush finale Berlusconi conquisti un bottino più consistente.
La seconda ipotesi di «alleanza per un governo» (non dichiarata, anzi esclusa) è quella tra Cinque Stelle e Lega alla quale è assegnato un risultato non dissimile dal precedente e dunque ben lontano dalla soglia che può consentire l’ingresso a Palazzo Chigi. C’è qui una carta segreta a favore di questa ipotesi: parte dei movimenti a sinistra del Pd si sono pronunciati (esplicitamente sul quotidiano Il Fatto) per un sostegno a un governo dei Cinque Stelle, ma non hanno fin qui specificato se compirebbero quel gesto anche in compagnia di Matteo Salvini. Comunque la carta è sul tavolo. La terza ipotesi di «alleanza per un governo» (quasi dichiarata, pur se destinata in campagna elettorale a essere esorcizzata e deprecata) è quella tra Pd e Forza Italia, che con opportune correzioni del sistema elettorale in senso maggioritario e con qualche «conquista/acquisto» di neoeletti nel prossimo Parlamento, potrebbe condurre i due partiti in prossimità della meta. Può darsi che questo accada. Ma a noi appaiono tutte e tre coalizioni assai improbabili e di dubbia stabilità. C’è da notare, in ogni caso, che solo due partiti, Forza Italia e Lega, sono fungibili per due delle tre alleanze prefigurate. E da ciò si nota una qualche superiorità, sulla scacchiera, del giocatore di centrodestra.
E un’alleanza di centrosinistra è davvero impossibile? A sinistra ci sono due incognite che rendono assai complicato ogni scenario. La prima: il Pd arriverà alle urne così come è oggi o subirà una nuova scissione? Qui entra in scena l’unico vero, abile oppositore che Renzi ha da anni all’interno del suo partito: Dario Franceschini. Alleato, quantomeno pro forma, del segretario, il ministro della Cultura è assai più scaltro dei suoi incontinenti predecessori. Si è guardato bene dal dissanguarsi in una estenuante serie di dichiarazioni antipatizzanti nei confronti di Renzi. E anzi, con una classe che è mancata agli antirenziani di provenienza comunista, nel momento in cui la pm di Modena, Lucia Musti, ha denunciato al cospetto del Consiglio superiore della magistratura alcune macchinazioni a danno del capo del Pd, ha alzato la voce contro tali episodi definendoli «di enorme gravità istituzionale». Ciò che ne ha rafforzato ruolo e prestigio anche all’interno del partito, ma che non può essere considerata un pietra definitiva sull’ipotesi di una sua rottura con Renzi.
C’è poi la seconda incognita fino a oggi presa sottogamba dai sondaggisti: quella costituita dalla sinistra alternativa al partito renziano. Le rilevazioni ufficiali assegnano a questa/e formazione/i (ammesso che riescano a prendere forma solida) meno del 5%. Ma loro sostengono che riusciranno a ottenere grandi consensi facendosi interpreti degli astenuti e dei fuorusciti dal Pd. Sicché, stando alle loro dichiarazioni (e a sondaggi di cui dicono di disporre), alla fine il risultato sarà di molto superiore al 10%. Forse attratti da questa prospettiva si muovono in direzione di tale raggruppamento molti parlamentari Pd in scadenza. A loro si stanno avvicinando anche parte, solo una parte beninteso, di quelli che furono i radicali di Marco Pannella. Ed è forse anche in questa chiave che va letta la polemica particolarmente vivace di Emma Bonino contro il ministro dell’Interno Marco Minniti e la sua politica sui migranti. Polemica certo non strumentale ma che si avvale di molti argomenti fatti propri da Mdp. Va anche registrato un parziale ammorbidimento dei toni ostili a Pisapia dei «referendari» Anna Falcone e Tomaso Montanari. E un’attenuazione, pur quasi impercettibile, dell’ostilità contro l’ex sindaco di Milano da parte dell’erede di Vendola, Nicola Fratoianni. Se davvero riuscissero a mettersi insieme — e al momento del voto potessero contare sulle percentuali che garantiscono i loro sondaggisti — nascerebbe anche a sinistra un raggruppamento di consistenza pari a quella della Lega. Una formazione che, al momento delle alleanze, potrebbe giocare su due tavoli: quello del Pd e quello di Cinque Stelle. Ma su quel che riguarda il loro futuro a oggi sono solo loro stessi a scommettere. E sarebbe alquanto imprudente affidare un vaticinio di stabilizzazione del sistema politico italiano all’avverarsi delle profezie che vengono fatte alla sinistra del Pd.

17 settembre 2017 (modifica il 17 settembre 2017 | 20:58)
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DA - http://www.corriere.it/opinioni/17_settembre_18/rebus-nuovo-premier-42a62820-9bd6-11e7-99a4-e70f8a929b5c.shtml
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« Risposta #17 inserito:: Marzo 31, 2018, 12:50:19 pm »


Verso l’incontro Merkel-Renzi
Italia e Germania

La politica (sbagliata) dei toni alti
Tanto più le classi dirigenti esibiscono i propri successi, tanto meno a queste manifestazioni di autostima corrispondono lodi degli interlocutori. E viceversa

Di Paolo Mieli

Venerdì prossimo Matteo Renzi incontrerà Angela Merkel e verrà il momento di fare il punto sullo stato delle relazioni tra Italia, Germania (ed Europa). Già si può immaginare il modo in cui andrà a concludersi: come sempre accade dopo le tempeste, si prenderà atto che i rapporti tra i due Stati sono «eccellenti», che qualche problema rimasto sul tappeto è «in via di soluzione», talché i giornali del giorno seguente racconteranno di «successo» del summit. Sarà più utile, perciò, soffermarci a osservare qualcosa di apparentemente laterale, cioè posture e toni che caratterizzeranno quella riunione. Quelli della Merkel possiamo dire di conoscerli in anticipo: flessibili, quantomeno in apparenza, e garbati. Più imprevedibili saranno quelli del nostro presidente del Consiglio che negli ultimi tempi si è esibito in un crescendo di veemenza laddove ha ribadito in più occasioni che il nostro Paese non si presenta più «con il cappello in mano”, che quando è in campo l’Italia (cioè lui) «non ce n’è per nessuno», che pretendiamo «ciò che ci spetta» e cose simili.

Sono toni non nuovi nella storia d’Italia, che hanno precedenti nelle fasi più instabili del nostro passato e che quasi mai hanno prodotto esiti all’altezza degli enunciati. Dapprincipio, dopo il 1861, le nostre classi dirigenti furono più sorvegliate nel coniugare la retorica risorgimentale con i propositi di affermazione e di grandezza. Anche perché le brucianti sconfitte di Lissa e Custoza nella terza guerra di indipendenza (1866) inducevano ad una qualche prudenza. Alla fine degli anni Settanta, mentre uscivano di scena i grandi che avevano guidato la stagione in cui si era fatta l’unità d’Italia, gli stili e il piglio cambiarono. Mentre il Paese si avviava alla stagione del «trasformismo», forse per compensazione alle difficoltà politiche interne, le voci cominciarono ad alzarsi. Il povero ministro degli Esteri Luigi Corti - un ex diplomatico con ottime credenziali - reo di aver enunciato al congresso di Berlino (1878) la saggia politica delle «mani nette», cioè della non partecipazione alla corsa coloniale, fu sommerso di contumelie. Insulti che presto trovarono qualcuno pronto ad «interpretarli»: il console italiano a Tunisi, Licurgo Macciò, mobilitò armatori e imprenditori per conquistare posizioni nella terra del Bey. Risultato? La Francia si allarmò e nel 1881 con un colpo di mano impose il suo protettorato sulla Tunisia. Le voci in Italia contro la politica delle «mani nette» (presentate adesso come «mani vuote») si alzarono al massimo, ne fu travolto il governo guidato dall’ultimo dei fratelli Cairoli, Benedetto, e da quel momento i nostri politici si dovettero cimentare con le idee di grandezza messe in campo dai più intransigenti, da intellettuali e soprattutto da poeti del calibro di Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli (in contrasto con la sua cifra poetica), fino agli eccessi di Gabriele D’Annunzio.

Mai più un’Italia «con il cappello in mano». Francesco Crispi, deciso a farsi valere, tentò l’avventura africana e ne fu travolto con la sconvolgente sconfitta di Adua (1896). A Giovanni Giolitti andò meglio con la guerra di Libia (1911) ma solo perché nell’immediato furono in pochi a misurare il rapporto tra costi (altissimi) e benefici (pressoché inesistenti) di quell’impresa. Poi quando lo stesso Giolitti si mostrò più esitante all’idea di far entrare l’Italia nella Prima guerra mondiale, mancò poco che venisse linciato. Inutile aggiungere qualcosa sull’uso che di quella retorica avrebbe fatto Benito Mussolini. Nel nome dell’orgoglio italico il nostro Paese prese parte ai due conflitti che nel Novecento sconvolsero il pianeta, uscendone ammaccato e la seconda volta ferito quasi a morte.

Di seguito, iniziò la stagione migliore della nostra storia, quella del secondo dopoguerra, impersonata nella fase iniziale da Alcide De Gasperi. Stagione che produsse un «patriottismo sobrio» atto a favorire un trentennio di clamoroso sviluppo civile ed economico. D’incanto i politici italiani compresero come fosse disdicevole presentarsi nei consessi internazionali battendo i pugni sul tavolo, fare la voce grossa, manifestare in eccesso il loro orgoglio. E quanto più si abbassava il tono delle loro voci, tanto più cresceva la loro reputazione. «Questi italiani hanno un magnifico appetito, ma pessimi denti», aveva ironizzato il cancelliere Bismarck molti anni prima. Adesso invece arrivavano elogi sempre crescenti e non solo dai Paesi alleati; dagli incartamenti segreti venuti alla luce emerge un’equazione che ha il carattere di un dato scientifico: tanto più le classi dirigenti si sentono in dovere di esibire i propri successi, di svelare l’intimità a loro concessa dai partner internazionali, di magnificare le sorti dell’Italia al momento in cui governano (o hanno governato), tanto meno a queste manifestazioni di autostima corrispondono lodi degli interlocutori. E viceversa. Con le crisi degli anni Settanta l’epoca virtuosa di cui si è detto volse al termine e nel decennio conclusivo della prima Repubblica fu la volta di leader, chi più chi meno, propensi a cantare i propri successi sulla scena mondiale.

Negli ultimi vent’anni poi quel vizietto italico è riemerso nei modi presenti alla memoria di chi non ha dimenticato Silvio Berlusconi e qualche suo oppositore. Adesso la tentazione di insistere nell’assunzione di posture baldanzose appare di nuovo forte. Soprattutto nei modi (e non solo quelli della politica) di rivolgerci alla Germania, un Paese che prima e dopo la riunificazione ha realizzato qualcosa che porterà tutti i suoi leader, da Adenauer alla Merkel, ad avere un posto d’onore nei libri di storia. Qualcuno, certo, può cedere alla tentazione di compiacersi per inciampi, come lo scandalo Volkswagen o il capodanno di Colonia, che sono lì a raccontarci come anche i tedeschi abbiano problemi da risolvere. E questo qualcuno può pensare di conseguenza che ci si possa presentare a Berlino con una qualche baldanza. Ma non è saggio. Un debito e una spesa pubblica come i nostri ci mettono in condizioni peggiori di quanto fossero quelle di oltre un secolo fa quando avevamo alle spalle Lissa e Custoza. E per quel che riguarda i nostri successi, il ruolo nuovo che abbiamo conquistato nel consesso internazionale, aspettiamo che siano gli altri a prenderne atto. Le lodi che ci diamo da noi, valgono poco. Anzi, niente.

25 gennaio 2016 (modifica il 25 gennaio 2016 | 08:02)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_25/italia-germania-politica-sbagliata-toni-alti-173960a6-c330-11e5-b326-365a9a1e3b10.shtml
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