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24 Ottobre 2018 Il Sole 24 Ore
Perché c’è bisogno di rilanciare il sud
A giudicare dall'impianto della Legge di bilancio annunciata dal governo Conte, in pratica non si possono coltivare molte speranze su un’effettiva evoluzione dello scenario e delle prospettive del Mezzogiorno. Anzi, c’è il rischio di una battuta d’arresto del processo di sviluppo delineatosi in varie località del Sud fra il 2015 e il 2016, grazie alla spinta impressa dall'industria (il cui valore aggiunto era cresciuto del 3,4%, oltre 2 punti in più della media nazionale).
In quegli anni, ad agire da forze motrici erano state soprattutto, insieme a un maggior numero di imprese attive, le start-up innovative e quelle operanti in rete; inoltre era aumentato il fatturato delle aziende, non solo di maggior taglia e integrate in filiere d’attività nazionali, ma pure (per la prima volta dalla crisi del 2008-2009) di tante piccole imprese. In complesso, si erano registrati un maggior volume di esportazioni, robusto sviluppo nella produzione di macchinari industriali (compresi i robot), e un forte recupero dei settori della raffinazione e della chimica. Seguitava invece a zoppicare il rapporto fra impieghi e Pil, in quanto la domanda di credito delle imprese continuava a non essere del tutto soddisfatta; mentre i livelli occupazionali miglioravano solo lentamente ed erano perciò lontani dal colmare la dispersione di capacità umane e professionali, causata durante una lunga recessione dall’esodo verso il Nord o all’estero, in cerca di lavoro, di molti giovani (per lo più diplomati e laureati) e dalle considerevoli perdite subite dallo Stato per via delle spese nell’istruzione che aveva frattanto sostenuto.
Si faceva perciò affidamento sia sulle misure varate nel 2017 dal governo Gentiloni sul credito d’imposta, volte a incentivare gli investimenti nel Mezzogiorno; sia sul decreto legge per il Sud, che intendeva agevolare la creazione di nuove imprese da parte delle leve più giovani, nonché sull’istituzione di alcune zone economiche speciali, dotate di adeguate infrastrutture e ubicate in snodi nevralgici.
Oggi è senz’altro un passo importante che, dopo l’accordo siglato fra il ministero dello Sviluppo economico e il gruppo ArcelorMittal sul graduale assorbimento degli esuberi di manodopera dell’Ilva, la principale acciaieria europea abbia potuto infine riprendere la propria attività.
Ma ci si aspettava che venissero giocate anche altre carte per un rilancio del Mezzogiorno: a cominciare da quelle riguardanti la logistica, in considerazione del fatto che il 40% di tutto l’import ed export italiano parte e arriva via nave, e che questo dato lievita al 60% man mano che si scende dal Nord lungo le coste dello Stivale e quelle delle isole, dove operano circa 200mila imprese.
Perciò, gli scali portuali del Sud, qualora venissero convenientemente attrezzati e integrati da nuove tratte autostradali e ferroviarie, potrebbero avere vantaggi dalle dinamiche del mercato globale intercettando i crescenti flussi di merci nell’area del Mediterraneo. Del resto era appunto, questo, uno degli obiettivi precipui delle Zes, le Zone economiche speciali: tanto più in quanto, oltre al gasdotto in arrivo in Puglia dall’Azerbaigian, si erano intanto scoperti nuovi giacimenti di gas prospicienti le coste del Libano, di Israele e della parte greca della Repubblica di Cipro.
Sennonché in merito alla valorizzazione di queste chance non è dato riscontrare pressoché alcuna traccia tangibile nella politica economica varata dall’attuale coalizione di governo. Per quanto riguarda il Mezzogiorno (di cui il Movimento Cinquestelle si è proclamato alfiere per eccellenza, in ragione del suo eclatante successo e dividendo elettorale) gran parte delle risorse pubbliche disponibili o reperibili con una manovra in deficit, sono state infatti concentrate sul reddito di cittadinanza.
Pur ammettendo che questo genere di intervento valga a ridurre certe sacche di povertà e disagio sociale più vistose (e non si esaurisca quindi in un provvedimento puramente paternalistico e assistenziale), un ingente trasferimento di risorse finanziarie al Sud non può, di per sé, dar luogo a una reale crescita del Pil e dell’occupazione, in mancanza (come risulta a tutt’oggi) di un piano operativo di medio-lungo periodo imperniato su una strategia, in fatto di gestione della spesa pubblica, coerente ed efficace, volta ad accrescere le potenzialità del sistema produttivo.
Come anche la Svimez ha sottolineato più volte, soltanto un complesso di investimenti ben congegnati su un triplice versante (infrastrutture, formazione permanente, ricerca e innovazione) è in grado di migliorare concretamente le condizioni economiche del Mezzogiorno e di creare nuove opportunità di lavoro.
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Valerio Castronovo
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