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Autore Discussione: Quel deficit italiano che potrebbe piacere a Trump - da Francesco Mercadante  (Letto 1685 volte)
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« inserito:: Ottobre 14, 2018, 05:50:43 pm »

CATEGORIA: VENDERE E COMPRARE

Quel deficit italiano che potrebbe piacere a Trump

 Scritto da Francesco Mercadante il 08 Ottobre 2018

DRAGHI E GNOMI

È il caso di partire bruscamente, rievocando l’immagine dei festeggiamenti sul balcone di Palazzo Chigi: non perché ce ne sia un bisogno giornalistico né perché manchino i dettagli in merito né, tanto meno, per fare insensata opposizione, ma perché siamo alla ricerca della pertinenza ai fatti. Che cosa è successo e perché un ministro del lavoro s’è reso protagonista di quella scena da regime bolivariano? Per evitare giudizi affrettati è necessario volgere lo sguardo ai numeri di quel venerdì 28 settembre: il FTSEMib perde il 3,72%, mentre la maggior parte dei titoli bancari va incontro a una vera e propria emorragia; alcuni di essi vengono addirittura sospesi in più occasioni per eccesso di ribasso. Intesa Sanpaolo fa registrare un -8,44%, UniCredit -6,73%, BPM – 9,43%, BPER -8,34%, UBI -7,84%.

Frattanto, Di Maio s’affretta a dichiarare che “le opposizioni fanno terrorismo finanziario per fare schizzare verso l’alto lo spread e causare il dissesto”. La vicenda comincia a farsi inquietante e, soprattutto, sospetta. Primo interrogativo: che cosa s’è festeggiato? Secondo interrogativo: a chi giova questo stato di cose, dal momento che era tutto fin troppo prevedibile?

L’introduzione di un deficit al 2,4%, in contrasto sia coi Principi Costituzionali sia coi vincoli del Fiscal Compact genera le veementi e ‘decisive’ reazioni del Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, e del Commissario Europeo per gli Affari Economici e Monetari, Pierre Moscovici, tanto che il viaggio di Tria a Lussemburgo si conclude in anticipo. Allora, la nota di aggiornamento del DEF è una provocazione o una sorta di messaggio in codice? Se sì, a chi è rivolta? Trascorrono 48 ore, un weekend in pratica, e il nostro comparto bancario torna a tremare non solo per le quotazioni dei titoli di riferimento, ma anche per lo spread, che raggiunge i 283 punti. Il giorno delle contrattazioni è il lunedì 1 ottobre: Intesa Sanpaolo -3,91%, UniCredit -2,34%, BPM -5,75%, Mediobanca -3,05%, Banca Generali -1,17%, UBI -4,57%.

Nel tentativo di offrire al lettore un contributo di trasparenza, ci proponiamo, com’è accaduto in altre circostanze su Econopoly, di semplificare e alleggerire opportunamente alcuni capisaldi della vicenda bancaria. Secondo le stime della Banca d’Italia, le banche italiane hanno in portafoglio circa 370 miliardi di titoli di stato. Nel contempo, è ormai noto ai più che ogni banca per poter operare deve rispettare dei requisiti patrimoniali, il più delle volte espressi in parametri: la Cet 1 ratio, per esempio, serve a indicare la solidità dell’istituto preso in esame. È evidente che un titolo di stato giudicato poco rischioso svolge una funzione positiva all’interno del bilancio. Al contrario, un corpus di titoli di Stato valutato come rischioso appesantisce i bilanci e impone alla banca che ne è depositaria un’esigenza di capitalizzazione nel rispetto dei summenzionati requisiti.

Quando, a un certo punto, com’è accaduto, le banche sono costrette a vendere, le conseguenze evidenti e inconfutabili sono due: 1) la perdita di asset; 2) la messa in circolazione di una quantità talmente elevata di titoli di Stato da determinare l’aumento degli interessi. La Cet 1 ratio, infatti, si ottiene esattamente dal rapporto tra capitale ordinario e attività di rischio ponderato. L’area di pericolo o preoccupazione o – sospetto – si espande, se consideriamo che, quando l’aria comincia a farsi irrespirabile, gli investitori non esitano a vendere le azioni dei nostri istituti di credito, causandone la perdita di valore azionario. Anche in questo caso, gli addetti ai lavori sanno bene che basterebbe consultare l’EPS (…e non solo), ovverosia l’Earning per Share, per rendersi conto delle conseguenze per gli investitori.

L’analisi di questa deriva ‘borsistica’ non può finire qui. Tanto più si abbassa il valore delle azioni del comparto bancario quanto più gli istituti diventano facili prede di acquirenti ben patrimonializzati. A questo punto, facciamo una pausa e riproponiamo la stessa domanda fatta in apertura: a chi è rivolta questa manovra finanziaria? Escludiamo per principio che sia destinata allo sviluppo del paese perché nessun principio di macroeconomia la giustifica. Il dubbio è lecito, dato che un abbassamento dei requisiti patrimoniali coincide immediatamente con una minore erogazione di credito a vantaggio di famiglie e imprese.

Dunque: accade pure che alcuni dei grandi fondi assumano posizioni nette corte sulle nostre banche; in altri termini: si muovono al ribasso. Se lo fanno Bridgwater Associates, BlackRock investment et similia, le loro azioni lasciano il segno sia per il messaggio che lanciano ai mercati, dominandoli, sia perché la perdita di capitale per le banche italiane è ingente, come abbiamo notato, e difficilmente recuperabile, tranne che la BCE sia disposta a iniettare liquidità a oltranza.

Tutto questo lascia pensare che certe operazioni siano costruite quasi esclusivamente per alterare gli equilibri dell’UE in linea col più agguerrito dei trumpismi. Che vantaggio ne trarrebbe Trump?

Di fatto, il vantaggio non è subito evidente e non è esclusivamente legato alle performance anti-sistema del presidente americano: dalle minacce al WTO alla guerra commerciale. È indubbiamente vero che l’attuale establishment statunitense ha puntato molto sul riscatto dal considerevole deficit commerciale ed è evidente che i numeri danno torto ai sostenitori della strategia adottata finora: nell’ultimo anno dell’amministrazione Obama, il disavanzo era pari a 502 miliardi di dollari, laddove, adesso, cioè per il 2018, si stima un ‘aggravio’ di circa 80 miliardi.

Qui, tuttavia, le apparenze sovrastano i fatti, distorcendone la comprensione. Leggendo attentamente l’impeccabile contributo di Giovanni Caccavello, pubblicato da Econopoly il 2 ottobre scorso, possiamo fare dei passi avanti significativi: “Il deficit commerciale di una nazione è, prima di tutto, determinato dai flussi di investimenti in entrata e in uscita da quel paese. Quei flussi sono causati da quanto le persone di quella specifica nazione risparmiano e investono. Per comprendere come funziona la bilancia commerciale di una nazione bisogna, innanzitutto, capire cosa sia la bilancia dei pagamenti. Una volta compresi questi termini, si può arrivare a capire la seguente equazione: risparmi – investimenti = esportazioni – importazioni.”. Più avanti, Caccavello continua: “Questa manovra espansiva – con riferimento alla politica economica di Trump –, oltre ad aumentare il debito, sta aumentando sia la crescita del PIL sia le importazioni. Grazie al buon andamento dell’economia, i cittadini americani stanno acquistando più beni provenienti dall’estero”. In pratica, sta accadendo ciò che un lettore poco avvezzo al linguaggio della politica economica non s’aspetterebbe mai; sta configurandosi una dialettica paradossale tra l’insistente propaganda anti-deficit commerciale e l’aumento delle importazioni.

Proviamo a rifare la domanda chiave di questo articolo, ma questa volta in modo speculare: a chi si rivolge Trump?
La debolezza del nostro comparto bancario ridisegna degli asset aggredibili. O meglio: il pericolo proverrebbe non già e non solo dalle scalate che tanto c’inquietano, ormai da tempo, bensì dal venire meno di quei requisiti patrimoniali per la coesistenza finanziaria all’interno dell’Eurozona. Sappiamo ormai che una manovra finanziaria segnata dal 2,4% di deficit (o da correzioni più o meno adeguate) si traduce immediatamente in un’esposizione per le banche. Nello stesso tempo, non si può far finta di non sapere che le banche statunitensi sono esposte per quasi 2.000 miliardi nei confronti dei paesi europei, oltre a possedere quasi un miliardo e mezzo di derivati e obbligazioni delle banche dell’eurozona. I conti tornano. Anzitutto, ogni debito contratto in dollari, alla luce dell’apprezzamento della divisa statunitense, che abbiamo ‘passivamente’ registrato nell’ultimo semestre (EUR / USD: da 1,23 a 1,15, con punte di 1,13), diventa una spada di Damocle pendente sulla testa dei debitori; in secondo luogo, qualora l’identità monetaria e commerciale dell’Europa dovesse ulteriormente indebolirsi, multinazionali e banche americane avrebbero campo aperto, verrebbe meno forza di garanzia dell’euro e… lasciamo al lettore ogni ulteriore deduzione.

Certo, è strano constatare che il M5S e i suoi leader, i quali hanno ossessivamente costruito il consenso elettorale urlando a squarciagola contro i poteri forti, oggi creino le condizioni per agevolare i poteri forti.

Per onestà intellettuale dev’essere fatta un’ultima considerazione. La stretta del credito alle imprese, di recente, ha fatto nascere un apparato di finanziamento alternativo, il sistema bancario ombra (Shadow Banking), un fenomeno da tenere sotto controllo. In questa sede, non vogliamo entrare nel merito tecnico, che è stato trattato opportunamente da Corrado Griffa, ma è corretto dire che l’emissione di corporate bond alla ricerca di liquidità ha generato un eccesso di titoli sul mercato bancario, a tal punto da riprodurre una sorta di debito parallelo equivalente.

Ciò che deve suscitare la nostra preoccupazione è il grado di liquidità di queste emissioni obbligazionarie, dato che ormai si ritiene che i titoli illiquidi in circolazione siano certamente superiori a quelli liquidi. A ciò si deve aggiungere immediatamente non solo la questione della loro iscrizione in bilancio, che non è esattamente calcolabile secondo i parametri della BCE, ma anche quella dei bassi rendimenti dell’Eurozona per via dei tagli a zero dei tassi. In parole povere: se il contesto europeo offre meno in funzione dei tassi tagliati quasi a zero, verso dove si muovono i capitali? New York è accogliente.

Twitter @FscoMer

Da - http://www.econopoly.ilsole24ore.com/2018/10/08/deficit-italiano-trump/?uuid=96_BAic2a0H
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