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Autore Discussione: Francesco Bruno. Quale futuro industriale per l’Italia, tra la dipendenza da Fca  (Letto 1770 volte)
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« inserito:: Settembre 23, 2018, 05:31:59 pm »

Quale futuro industriale per l’Italia, tra la dipendenza da Fca e le scelte del Governo

 Scritto da Francesco Bruno il 21 Settembre 2018

VENDERE E COMPRARE

L’Ufficio Studi di Mediobanca ha pubblicato, nel mese di agosto, l’indagine annuale su 2075 società italiane, che rappresentano metà delle aziende manifatturiere con più di venti dipendenti. La lettura dei dati infonde ottimismo, tanto da far titolare la presentazione dell’indagine “Quel 2017 da non sprecare…”. Proprio il manifatturiero mostra segni incoraggianti, con +6,1% di crescita, +26% di margine industriale, +14,6% di investimenti. Una crescita che ha praticamente interessato tutti i settori, seppur con numeri diversi.
Ad un certo punto, la presentazione dedica quattro slide a Fca, definita “ARBITRO DEL FUTURO MANIFATTURIERO ITALIANO”.
In sintesi, e in valori assoluti, le società italiane di Fca valgono € 6,4 miliardi di valore aggiunto, oltre 80 mila occupati, € 15 miliardi di investimenti lordi (nel periodo 2008-2017), oltre € 45 miliardi di acquisti.

Numeri importanti, che avvalorano l’eredità industriale di Sergio Marchionne e che confutano alcune ricostruzioni – molto ideologiche – che ne hanno seguito la precoce scomparsa, secondo le quali l’era del manager Italo-Canadese avrebbe danneggiato il settore italiano dell’auto e gli altri ad esso collegati.

Ma come si spiega tutto ciò? Effettivamente la nascita di Fca ha segnato uno spostamento, forse irreversibile, del baricentro del vecchio Gruppo Fiat al di là dell’Atlantico, con la creazione di un nuovo soggetto mondiale, basato soprattutto sui numeri americani. Anche i passaggi formali hanno allontanato Fca dal Belpaese, con lo spostamento della sede legale in Olanda e del domicilio fiscale in Inghilterra. Ma nonostante ciò, la nascita di Fca ha giovato al sistema Italia, più di quanto la Fiat del nuovo secolo non riuscisse più a fare.

L’apparente paradosso è ben evidenziato da Paolo Bricco nel suo ultimo libro[1]: «Nel 2004, anno dell’arrivo di Marchionne, la produzione di auto – dunque, la Fiat – attiva l’1,95% del Pil italiano. (…) Tredici anni dopo (…) la fetta di Pil targato Fca è pari al 2,43%. (…) In quattordici anni, la Fiat-Fca ha attivato Pil aggiuntivo in Italia per poco meno di 14 miliardi di euro: il 48% in più (…)».

Emblematico anche il dato sulle ore lavorate, passate da 750 milioni a 1,1 miliardi (+47% in tredici anni). Ore lavorate che, nella descrizione di un esperto di storie d’impresa come Bricco, valgono anche più degli altri dati, in quanto «(…) vanno al cuore della quotidianità di una comunità nazionale perché sono fatte dalle operaie e dalle dirigenti che, la sera d’inverno, devono tornare a casa dai loro bimbi a letto con l’influenza. Sono fatte dai tecnici e dagli impiegati che a fine mese pagano il mutuo e che, in un giorno d’estate, si trovano a fare i conti per capire se i risparmi familiari sono sufficienti per iscrivere i figli all’università».

Bricco definisce l’operazione Chrysler, guardandola dalla prospettiva italiana, “un felice errore della Storia”: «L’Italia viene marginalizzata dalla Fiat sopravvissuta ed evoluta in Fca. Ma, nonostante questo paradosso, l’effetto della Fca sull’Italia è benefico». Molti analisti avevano sempre manifestato dubbi sull’opportunità di tenere aperti cinque stabilimenti in Italia. Ma Marchionne, un po’ per amor di Patria un po’ perché credeva nella qualità della produzione italiana, ha fatto sempre orecchie da marcante. Adesso la sua epoca è finita, al suo posto c’è Mike Manley, già a capo di Jeep, il marchio globale di Fca che sarà sempre più il perno del gruppo. Se Marchionne poteva fare affermazioni del tipo «Alfa Romeo e Maserati non saranno mai prodotte fuori dall’Italia finché ci sarò io», è tutt’altro che scontato che il suo successore la pensi allo stesso modo.

A fine settembre il nuovo Ceo annuncerà la nuova organizzazione, dalla quale capiremo meglio il suo approccio. C’è chi mostra ottimismo, come Valerio Castronovo, che vede Torino e l’Italia ancora protagoniste nel futuro di FCA, sia per «Una sorta di fil rouge [che] caratterizza, da quattro generazioni (dal Senatore a John Elkann), il ruolo e le ambizioni della famiglia Agnelli (…)», sia perché «(…) la conversione delle lavorazioni nei nostri stabilimenti verso Suv, taluni esemplari di Jeep e modelli d’alta gamma (come Alfa Romeo e Maserati), continuerà a essere un punto di forza a presidio dell’attività di Fca in Italia».

In effetti, secondo l’ultimo piano industriale targato Marchionne (2018-2022), gli stabilimenti italiani potrebbero portare alla luce fino a sei nuovi modelli da produrre in Italia, con un obiettivo di arrivare a 400 mila vetture Alfa Romeo e 100 mila Maserati (contro le 170 e 50 mila attuali), che dovrebbero compensare – insieme a Jeep – la perdita della produzione della Panda, della Mito e della Punto. Ma è risaputo come non ci si possa fidare molto dei piani (basti ricordare il triste destino di “Fabbrica Italia” del 2010), soprattutto a seguito dell’avvenuto avvicendamento da Marchionne a Manley.

È difficile dunque fare previsioni sul ruolo che avrà l’Italia nel futuro di Fca. Al momento, grazie all’opera di Marchionne, il Belpaese si è ritagliato un ruolo, passando dalla produzione di massa di utilitarie poco costose ad un luogo dove si produrranno auto di alta gamma. Una strategia da Paese avanzato, che vuole puntare su una forza lavoro qualificata, specializzata, e sulle nuove tecnologie.

Ma l’Italia sarà pronta per essere all’altezza della sfida? Il nuovo Governo ostenta una preferenza politica di fondo per le piccole e medie aziende, mentre tende ad usare parole meno tenere per la grande impresa. Si tratta di un’impostazione abbastanza miope, considerata l’importanza della grande industria in termini di fatturato, forza lavoro, produttività. Dalle parole ai fatti, il Decreto Legge n. 87/2018 (cosiddetto “Decreto dignità”) ha suscitato molte perplessità nel mondo imprenditoriale. Sebbene sia migliorato in sede di conversione in Legge, le parti relative ai rapporti di lavoro ed al contrasto alle delocalizzazioni potrebbero comportare effetti negativi, nonché numerose incertezze interpretative che dovranno essere poi chiarite dalla giurisprudenza. Soprattutto la sezione dedicata alle delocalizzazioni sembra non tener conto di come funzionino le catene globali del valore, né della differenza tra un aiuto selettivo concesso ad una specifica azienda (già coperta dalla disciplina europea sugli aiuti di Stato) ed un’agevolazione erga omnes, ponendosi in antitesi con una visione di grandi imprese italiane capaci di competere sui mercati internazionali o di attrazione di nuovi soggetti industriali. Questo modus operandi potrebbe incidere molto sulle scelte di Fca, di altre grandi aziende italiane o di potenziali investitori esteri.

Il Ministro dello Sviluppo Economico (e del Lavoro) Luigi Di Maio, in un’intervista rilasciata alle colonne de Il Sole 24 Ore, riferendosi alle imprese si è lasciato sfuggire un «Ora che non siamo più antagonisti…(…)». Lascia un po’ perplessi il dover constatare che il Ministro Di Maio si considerasse “antagonista” delle imprese, in un Paese che ancora oggi rappresenta una grande potenza industriale, nonostante tutto. Speriamo che l’atteggiamento muti non solo nelle intenzioni, ma anche nelle azioni concrete.

Twitter @frabruno88

[1] Bricco P., “Marchionne lo straniero”, Rizzoli 2018, citazioni tratte dal paragrafo “La realtà: l’Italia marginale per Fca, Fca indispensabile per l’Italia”

Da - http://www.econopoly.ilsole24ore.com/2018/09/21/futuro-industriale-italia-fca-governo/?uuid=96_KSmNGeFh
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