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Autore Discussione: GIGI RIVA. La Croazia scivola verso l'estrema destra  (Letto 1366 volte)
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« inserito:: Settembre 02, 2018, 10:57:33 pm »

SCENARI

La Croazia scivola verso l'estrema destra

Nostalgie fasciste, iper sovranismo e libertà in pericolo.

Il revival sciovinista arriva a giustificare le stragi della guerra e gli eroi del Mondiale di Mosca sono paragonati ai soldati di allora.

DI GIGI RIVA
28 agosto 2018

Il cantante urla nel microfono: «Za dom». E il pubblico in visibilio, tra uno sventolio di bandiere a scacchi bianco-rosse risponde: «Spremni!». È l’attacco di una canzone diventata quasi un inno, «per la patria, pronti!». Non poteva scegliere luogo più simbolico Marko Perkovic Thompson, 51 anni, per il concerto nell’anniversario dell’operazione “Oluja” (Tempesta) con cui nell’agosto 1995 i croati si ripresero la Krajina cacciando duecentomila serbi e trascinandosi il sospetto di aver commesso crimini di guerra.

Siamo a Glina, paese di poco meno di diecimila abitanti vicino al confine con la Bosnia, dove tra il maggio e l’agosto del 1941 durante il governo filonazista del “poglavnik” (la guida, il duce) Ante Pavelic, gli ustascia uccisero circa duemila serbi e una parte della mattanza fu compiuta dal comandante Mirko Puk all’interno della chiesa ortodossa.

Nella terra dove la storia è un eterno presente tornano i simboli di un passato nefasto. «Za dom, spremni!» è l’inizio di “Bojna Cavoglave” (Il battaglione di Cavoglave) dal nome del villaggio nell’entroterra di Sebenico dove Perkovic è nato. Ma è anche la parola d’ordine ustascia, bandita in epoca titina, riesplosa come simbolo identitario nella contemporaneità. Con qualche imbarazzo per il governo di destra e per la presidenta della Croazia Kolinda Grabar-Kitarovic (la ricorderete entusiasta tifosa sugli spalti russi durante le partite della sua rappresentativa al mondiale). Una commissione di esperti incaricata di vagliare se il motto debba essere messo all’indice è arrivata a una conclusione salomonica: in alcune circostanze sì, in altre no. Sulla scia di una tesi benevola per la quale risalirebbe a un’antica tradizione locale, una sorta di saluto dei tempi che furono. Insomma, tradizione.

Nessun dubbio sul significato che gli attribuiscono Marko Perkovic e le sue centinaia di migliaia di fan. Il cantante è più noto come Thompson per il nome del vecchio fucile mitragliatore con cui ha combattuto la guerra del 1991. Si dichiara “cattolico di rito romano”, autocertificazione neutra altrove ma significativa dove la religione è stata spesso usata a fini bellici, e anche a Glina si è presentato sul palco con un vistoso medaglione a croce.

I testi dei suoi brani sono così inequivocabili che i suoi concerti sono stati vietati in mezza Europa, dalla Germania all’Olanda, dall’Austria alla Slovenia, e persino in alcuni comuni istriani come Pola. E tuttavia è clamoroso il successo, in questa estate 2018, della sua tournée culminata con la presenza, il 16 luglio scorso, sul bus scoperto della squadra di calcio e poi sul palco della piazza Ban Jelacic a Zagabria dove è stato celebrato davanti, si calcola, a 700 mila spettatori, il secondo posto ai Mondiali di Mosca.

Lo hanno voluto gli stessi atleti, peraltro abituati a caricarsi nello spogliatoio ascoltando i suoi cd, per quella commistione tra sport, spettacolo, politica e guerra che alimenta il nazionalismo croato (e nel mese della competizione in Russia il ministro della Difesa Damir Krsticevic ha fatto mandare in onda in televisione un ossessivo spot per accomunare calciatori e soldati). Tanto più in un piccolo Paese di quattro milioni di abitanti, orgoglioso di un’indipendenza relativamente recente e desideroso di esibire le proprie eccellenze a dimostrazione di una supposta superiorità genetica.

Non a caso su quel palco sono stati invitati, naturalmente in divisa da calciatori, gli ufficiali del conflitto di 27 anni fa. Con la sincerità che si può permettere, un generale in pensione, Josip Stimac, uno degli eroi della secessione, non ha dovuto fare uno sforzo troppo impegnativo di memoria per enumerare: «Lunedì 16 luglio è stato il quarto giorno più importante nella storia della Croazia, dopo quelli dell’indipendenza nel 1991, dell’operazione Oluja nel 1995 e dell’assoluzione in appello del comandante Ante Gotovina, che era accusato di crimini di guerra, da parte del tribunale dell’Aja nel 2012».

Alimentato dal vento che soffia in tutto il continente, aiutato dal mito calcistico del Davide che abbatte Golia («Abbiamo sconfitto l’Argentina, la Russia e l’Inghilterra!»), il sovranismo torna con un vigore ancora più accentuato nel luogo dove riapparve, dopo una lunga parentesi internazionalista, per riproporre un modello che ha fatto scuola in Europa dove pure è attecchito.

Il grafico delle alterne fortune di “Thompson” è l’esatta misura del salire e scendere della febbre: molto popolare negli anni post-bellici, in ribasso tanto da dover ripiegare sul melodico e abbandonare il rock nazional-muscolare agli albori del nuovo Millennio (coinciso con le episodiche vittorie elettorali del centrosinistra), in auge come non mai ora che la destra, il partito Hdz, Unione democratica croata, del defunto padre della patria Franjo Tudjman si è ripresa il potere.

L’esuberante presidente Kolinda Grabar-Kitarovic, 50 anni, figlia di un salumiere di Fiume, è la perfetta incarnazione del revival sciovinista e del resto fin da ragazza dell’Hdz aveva sposato la causa. È sotto il suo mandato che stanno ricomparendo copiosi, mai del tutto sommersi, pensieri tesi a dilavare le macchie più indigeste di un passato non sempre limpido (eufemismo). Interpretazioni riduzioniste della Shoah, in particolare sul funzionamento del campo di sterminio di Jasenovac, compaiono sulla stampa e persino su accreditate riviste storiche. Mentre la stessa presidente nel corso di una visita in Argentina ha definito gli emigrati che là scapparono dopo il 1945 «persone in cerca di uno spazio di libertà in cui dare testimonianza del proprio patriottismo e sottolineare le legittime richieste di libertà per il popolo croato e la patria»: erano invece, quasi tutti dignitari e gerarchi ustascia.

Svolte energiche che hanno finito con l’alzare a livelli mai raggiunti negli ultimi anni la temperatura dello scontro con la Serbia e che hanno toccato il diapason proprio nei giorni delle commemorazioni per l’Operazione Oluja dell’agosto 1995. Il presidente di Belgrado, Aleksandar Vucic, in un discorso tenuto a Backa Palanka, in Vojvodina, ha definito l’operazione «un crimine di guerra di pulizia etnica che non può essere dimenticato, giustificato, né tantomeno celebrato». E ha poi rincarato: «Non ci sarà mai più un’altra Oluja per il fatto di essere serbi. Hitler voleva un mondo senza ebrei, i croati hanno voluto una Croazia senza serbi perché dal loro punto di vista minacciavano l’essenza della nazionalità croata». Kolinda Grabar-Kitarovic ha cercato, in risposta di abbassare i toni: «Ciò che ha detto Vucic non cambierà la storia e il presente. Non vedo come potremo mai metterci d’accordo sul passato, ciò nonostante dobbiamo lavorare per raggiungere l’obiettivo comune di una vita migliore per tutti».

Sarebbe auspicabile, ma la congiuntura non è favorevole. Nonostante il boom turistico di quest’estate, favorito dalla pubblicità indiretta causata dai successi sportivi (più 6 per cento di arrivi rispetto all’anno scorso), l’economia croata arranca. Come confermano i dati: disoccupazione al 12 per cento (la peggiore dopo Grecia e Spagna), salario medio 750 euro, molti giovani laureati costretti a cercare fortuna all’estero che depauperano il patrimonio di intelligenza. C

ifre che hanno generato sconforto e diffidenza diffusa nei confronti dell’Europa dopo le illusioni create dall’ingresso nell’Unione. Zagabria è stata l’ultima capitale accolta nel seno di Bruxelles il primo luglio 2013, cinque anni fa quando già, ad essere obiettivi, era in calo il consenso verso un’istituzione sotto attacco del populismo montante. Chiosa Tomislav Jakic, che fu consigliere per la politica estera di Stipe Mesic, presidente di centrosinistra fino al 2010: «Siamo entrati in Europa per dimenticarci subito dopo dei valori europei. Il vento nazionalista soffia forte e io non vedo al momento alcun leader di sinistra capace di contrastare questa tendenza, persino più acuta rispetto ai tempi di Tudjman. Il quale, bene o male, stava cercando una pacificazione di tipo franchista. La nuova classe al potere vorrebbe invece azzerare gli spazi di democrazia, cancellare l’opposizione». Una sconfortata confessione d’impotenza davanti a un sentimento collettivo di paura, benzina per la chiusura tribale. E che apparenta, di fatto se non di diritto, Zagabria ai vicini Paesi del gruppo di Visegrad ad esempio sul tema dei migranti, pure loro uno spauracchio per chi vuole difendere la “purezza etnica” ora che la rotta balcanica, chiusa sul lato Serbia-Ungheria, segue la linea occidentale della Bosnia per approdare in Croazia.

La sbornia collettiva del mondiale di calcio è stata il salutare momento di “circenses” che un popolo intero, in mezzo alle difficoltà, si aspettava per dimenticare, per condividere una festa collettiva. Il governo ne ha tratto dei benefici momentanei che potrebbero risultare effimeri ora che il settembre del ripensamento allontanerà le cicale e sarà di nuovo il tempo delle formiche.

Sul fatto che l’euforia di un consenso al potere tanto largo possa durare è molto scettico Ivan Srsen, giovane intellettuale ed editore: «Domani è un altro giorno e chi non ha lavoro - cioè tanti, troppi - si sveglierà con la testa pesante e il suo problema irrisolto. I ricchi restano ricchi e i poveri restano poveri, la forbice tra le due categorie si allarga sempre di più. È un problema non solo nostro ma di tutta la regione. Teniamoci i bei momenti sportivi che abbiamo vissuto, ma apriamo gli occhi davanti alla realtà. Senza nascondere le nostre magagne sotto il tappeto del calcio».

CROAZIA FASCISTI
© Riproduzione riservata 28 agosto 2018
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