Veltroni, i grillini e la rimozione del populismo
Vittorio Ferla
Venerdì 31 agosto 2018
Walter Veltroni ha scritto per Repubblica un intervento per molti versi sorprendente. Soprattutto se si pensa che siamo di fronte all’autore assai stimato e amato del discorso del Lingotto, quel discorso che avrebbe dovuto chiudere definitivamente i ponti con la vecchia sinistra novecentesca portando a compimento un percorso di emancipazione dalle scorie ideologiche del passato e di apertura ai democratici tutti, indipendentemente dalle origini culturali di ciascuno.
La retorica dei sentimenti
Nella prima parte, l’articolo è una confusa miscela di buoni sentimenti, di citazioni scoordinate e poco pertinenti, di concetti troppo generici per essere utili. Una retorica che non offre strumenti per affrontare la concretezza delle sfide che ci attendono. Anche il tremendo richiamo a Weimar – che pure ha qualche fondamento in questo passaggio storico – avrebbe dovuto essere sviluppato meglio con una riflessione sul deficitario funzionamento delle istituzioni repubblicane e sull’incapacità tutta italiana di avere finalmente una democrazia compiuta e decidente.
Su Repubblica abbiamo letto con sorpresa il classico prodotto della sinistra velleitaria: il sermone pedagogico rivolto al popolo per rincuorarlo (e per conservarlo nelle sue radicate e fallaci convinzioni) ovvero l’appello ‘religioso’ ai buoni per riorganizzarsi contro i cattivi.
Anche Veltroni – che è uomo colto e apprezzato – sa bene che il sogno di Martin Luther King, la speranza di Bob Kennedy, la fede progressista di Clinton, la visione umanitaria di Obama non sono mai state narrazioni vaneggianti, bensì progetti concreti di cambiamento della società, della politica e delle istituzioni a partire dalle politiche urbane per l’integrazione dei neri fino alla riforma dei servizi sanitari.
Insomma: il sogno è certamente necessario per rincuorare e galvanizzare il proprio ‘popolo’, ma senza il pragmatismo delle politiche rimane uno spazio letterario.
Il postulato di questa retorica, poi, è l’idea che la sinistra nella storia abbia sempre interpretato la parte migliore. “È la sinistra, nella storia, che ha cambiato il mondo”, sostiene Veltroni. Ammesso che ciò sia vero a livello internazionale, è molto più complicato dimostrare questo assunto per la storia d’Italia. E non basta costruirsi a posteriori un ameno e confortevole pantheon su misura, arruolando i protagonisti più diversi, da Ian Palach a Papa Francesco.
La “sinistra”: ma quale?
Forse conviene ricordare qualche esempio – anche se in modo un po’ sommario e quindi brutale – per chiarire la faccenda.
Nel corso della Prima Repubblica la sinistra italiana maggioritaria non è stata quella del liberalismo americano, ma quella schierata con l’economia pianificata dell’Urss. L’europeista Altiero Spinelli era una mosca bianca tra i suoi compagni di partito. Lo Stato sociale costruito in Italia nel dopoguerra è il frutto dei governi della Democrazia Cristiana, progressivamente aperti ai partiti socialdemocratici da Fanfani e Moro. A metà degli anni ’70 il dialogo tra Dc e Pci ha prodotto due approcci completamente opposti: da un lato, la visione del ‘compromesso storico’ incarnava l’organicismo tipicamente comunista (e astratto) dell’incontro tra masse un tempo ostili; dall’altro, la prospettiva della solidarietà nazionale di Aldo Moro esprimeva quel pragmatismo liberale innovativo che aveva l’obiettivo di traguardare l’Italia verso la democrazia compiuta. Negli anni ’80, l’Italia sprofondò nella redistribuzione corporativa moltiplicando fuori misura la spesa pubblica (in particolare quella pensionistica, con le conseguenze sulle generazioni successive che sono sotto gli occhi di tutti): ebbene, in quegli anni il Pci non soltanto non si oppose a questo delirio ma lo sostenne esplicitamente con il metodo consociativo. Sempre negli anni ’80, quando Craxi recuperò il socialismo umanitario, liberale e democratico di Proudhon la sinistra italiana urlò allo scandalo. Quando il Psi al Congresso di Rimini lanciò la (modernizzante) “alleanza dei meriti e dei bisogni”, il Pci si attardava sull’Eurocomunismo. In generale, la diversità comunista tanto cara a Berlinguer (sommo eroe veltroniano) non soltanto ha cristallizzato la sinistra italiana in un immobilismo regressivo ma ha posto le basi per la diffusione del virus integralista, moraleggiante e antimoderno che oggi ha infettato la ‘sinistra’ grillina (e non solo). Chissà se Veltroni – magari senza averne consapevolezza – tende a rifiutare il discorso sul populismo anche per questo: perché, in caso contrario, bisognerebbe fare i conti proprio con i fantasmi di casa propria.
E così, quando cade il Muro di Berlino nel 1989, la sinistra postmarxista italiana è completamente impreparata ad affrontare la nuova fase: non soltanto deve ripensare se stessa, ma per sopravvivere nei tempi nuovi ha la necessità di recuperare il contributo di quelle correnti democratiche (cattoliche, liberali, socialiste e ambientaliste) che avevano probabilmente un’attrezzatura più adeguata per fronteggiare le sfide della modernizzazione e della globalizzazione.
Il Partito Democratico nacque proprio per questo. Non per eternare, sotto mentite spoglie e con il rischio del settarismo, la mentalità e gli strumenti superati della sinistra classica, nonostante la fine della ideologia (e dell’assetto internazionale) che l’aveva sostenuta. Bensì per promuovere una iniziativa democratica – moderna e liberale – capace di far tesoro dei cambiamenti e di raccogliere le sfide del futuro con una visione di società aperta e con una mentalità politica pragmatica e anti-ideologica.
Rispolverare l’antico nemico
Nell’articolo di Veltroni la parola ‘sinistra’ ricorre continuamente come un mantra. Viceversa, la parola ‘democratico’ quasi sparisce. E così, il segretario del Lingotto sembra iscriversi al confuso gruppone degli orfani della sinistra. Ma per resuscitare la fenice bisogna resuscitare anche l’antico nemico. Pertanto, non si parli più di populismo: “è una definizione sbagliata. È destra, la peggiore destra”.
Siamo al paradosso. Le montagne di analisi e studi italiani e internazionali vengono spazzati via dalla narrativa vaneggiante. Il nemico viene ricostruito con la forza della letteratura. Il populismo – inteso come mix di chiusura sovranista e protezionistica, di statalismo assistenziale e corporativo, di democrazia illiberale e diretta, di negazione della libertà d’impresa e del libero mercato, di rifiuto della globalizzazione che attraversa i campi tradizionali della destra e della sinistra – non esiste più. I fenomeni storici sono complessi: forse abbiamo già dimenticato che il totalitarismo del secolo scorso è stato equamente condiviso dai regimi di destra e da quelli di sinistra.
Pensare di affrontare con questo schema interpretativo le trasformazioni del quadro nazionale, europeo e internazionale appare certamente insufficiente se non addirittura pericoloso. Significa arrivare impreparati alla sfida delle prossime elezioni europee. Significa non cogliere appieno le caratteristiche profonde del populismo del M5S: un movimento tecnicamente totalitario, statalista, assistenzialista, antiliberale, diffidente nei confronti del contributo che le imprese possono dare al progresso e allo sviluppo di una società aperta.
Il paradosso della Diciotti
Il paradosso della nave Diciotti è questo: concentrando tutto sulla narrativa – anche questa vaneggiante – della emergenza migratoria ricompatta tutte le sinistre sull’asse antileghista, lasciando il campo aperto al populismo più subdolo e pericoloso per le sorti dello sviluppo del Paese: quello dei Cinquestelle. Il grande successo di Salvini – al quale i grillini potranno davvero essere grati a lungo – è proprio quello di creare il mostro del razzismo e della xenofobia: un mostro che può dare alla sinistra minoritaria l’illusione dell’esistenza in vita, mentre, dietro le quinte, i grillini lavorano alla distruzione dell’economia italiana con le loro insulse idee sovraniste, nazionaliste e antieuropeiste che, se applicate, porterebbero alla rovina del Paese e al sicuro peggioramento delle condizioni di vita dei cittadini, in particolare di quelli che stanno peggio e che la sinistra vorrebbe difendere. Pensare – come sembra fare Veltroni – che il M5S possa essere un partner per il Partito Democratico significa due cose: o non si vuol capire che cosa sono i Cinquestelle, oppure il Partito Democratico non esiste più e abbiamo deciso di tornare alla vecchia sinistra dell’Italietta del ’900, basata sul socialismo nazionale del tassa e spendi.
Modernizzare l’Italia
Veltroni fa bene a indicare due punti drammatici di questo momento storico: da un lato, il disagio di molte “famiglie italiane che hanno perso undici punti di reddito rispetto alla fase precrisi”; dall’altro, i limiti istituzionali della nostra democrazia, incapace di decidere, troppo lenta e debole. Il problema è che pensare di risolvere questi due enormi problemi sposando, con un’alleanza, le ricette populiste e sovraniste del M5S significa condurre l’Italia sull’orlo del precipizio, fuori dai paesi di testa dell’Unione Europea, ma accanto alle democrazie improvvisate e illiberali dell’Est, non a caso eredi del comunismo orientale. E’ bene sapere che la sacra ammucchiata dei ‘buoni’ e dei ‘giusti’ contro la Lega non si realizzerà mai.
Viceversa, servirebbe riscoprire le ragioni profonde che hanno portato alla nascita del Partito Democratico: dire sì all’Europa costruendo una politica di bilancio europea e rafforzando le politiche pubbliche comunitarie in partnership con Francia e Germania, dare spazio alla concorrenza e alla forza innovativa delle imprese, conciliare i premi ai meritevoli con le giuste aspirazioni di chi soffre il disagio, integrare bene e selettivamente gli immigrati per evitare che siano percepiti come una minaccia, ridare fiato allo sviluppo con una politica di crescita economica e di ammodernamento delle infrastrutture fisiche e digitali, dire sì senza mal di pancia alla scienza, alla tecnologia e al progresso. In una parola serve modernizzare il nostro paese, non certo ritornare al piccolo mondo antico della sinistra, comunista o grillina che sia.
Vittorio Ferla
Giornalista, blogger per ‘Linkiesta’, si è occupato di trasparenza e comunicazione presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio.
Direttore responsabile di Labsus.org, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci.
Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Il Riformista, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa”, Rubbettino 2018
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