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Autore Discussione: Alfonso Berardinelli - La poesia ridotta a feticcio  (Letto 2002 volte)
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« inserito:: Agosto 16, 2018, 12:44:38 pm »

L’oggi in versi.

Febbraro e Galaverni non si sono lasciati scoraggiare dall’enorme quantità di autori e dalla loro debolezza e hanno pubblicato due interessanti antologie

La poesia ridotta a feticcio

Chi volesse focalizzare, rendere più chiara, varia e sfumata la propria immagine del Novecento poetico italiano per confrontarla, infine, con quanto si scrive oggi, dovrebbe leggere L’altro Novecento. Poeti italiani di Paolo Febbraro e Poesie italiane 2017 di Roberto Galaverni (uscite entrambe da Elliot). I due autori sono ben noti al nostro pubblico perché per anni hanno tenuto due ottime rubriche settimanali di poesia, su questo giornale e sul «Corriere della Sera».
Almeno da vent’anni, se non di più, in Italia la critica di poesia langue, è poco attendibile o poco motivata. Febbraro e Galaverni fanno eccezione. Non si sono lasciati scoraggiare né dall’enorme quantità degli autori, che non ha precedenti, né dalla sconfortante debolezza critica della cultura letteraria di chi produce versi e di chi li legge e li giudica. Domina un cerimonioso e accomodante fair play, che in mancanza di valutazioni argomentabili o di semplice capacità di lettura premia gli autori più abili nel sistemarsi nelle maggiori (un tempo autorevoli) case editrici.
Oggi non esistono più, per la poesia, case editrici più autorevoli di altre. Quanto a scelte e valutazioni, prevale poi il più sorprendente disaccordo perfino quando si tratta di fare l’elenco dei dieci o venti poeti più notevoli che hanno esordito dagli anni settanta in poi. Le certezze comunemente accettate senza discussione si fermano a Zanzotto, Giudici e Amelia Rosselli; già con Sanguineti e Raboni cominciano i dubbi e i disaccordi.
Questo per dire che se i lettori di poesia scarseggiano, se i libri di poesia non si leggono né si comprano, è perché la poesia è diventata un genere letterario di terz’ordine (almeno nel senso che viene dopo la narrativa e la saggistica). La poesia in sé e come nome è un feticcio ideale, neppure più teorizzato, quasi privo di contenuti sufficienti a giustificarlo.
Ecco perché sto richiamando l’attenzione sulle antologie di Febbraro e Galaverni. Il primo è un critico poeta o poeta capace di critica, uno dei rarissimi (ce ne sono altri due, mi pare). Il secondo è uno dei pochi critici che abbia scelto rischiosamente di impegnarsi su quello che è oggi il più problematico e svalutato dei generi. Quelle che ci vengono dalle loro antologie sono notizie da un presente consapevole del passato: un presente colto di sorpresa e selezionato antologicamente nel corso di un solo anno; e d’altro lato un presente che sente il bisogno di rileggere il secolo di poesia appena trascorso, per saggiarne di nuovo la “stoffa” attraverso singoli testi di autori trascurati o sottovalutati, laterali, messi da parte e oggi, per così dire, “fuori canone”.
La prima cosa che viene in mente leggendo le due antologie è che, se la nostra idea di Novecento può essere di nuovo corretta e integrata rileggendo il secolo a rovescio e in contropelo, lo statuto del presente è ovviamente ancora più fluido e il suo assetto del tutto provvisorio. L’altra cosa è che sarebbe interessante fare un esperimento. Le poesie novecentesche antologizzate da Febbraro sono accuratamente e acutamente commentate (succede che il commento sia non meno o più poetico del testo). Quelle antologizzate da Galaverni sono invece proposte al lettore senza istruzioni per l’uso.
Ma che cosa verrebbe fuori se Galaverni commentasse le poesie del 2017 verso per verso e Febbraro lasciasse a se stesse quelle del secolo scorso? Credo che un tale esperimento ci chiarirebbe le idee o forse le confonderebbe definitivamente. Ci sono poesie del 2017 che sono convincenti anche senza commento, ma che meriterebbero di essere commentate come altre del secolo scorso. Poesie brutte e malriuscite ne sono state scritte, sia nel Novecento che nel Duemila. Non sono poi molte le poesie novecentesche scelte da Febbraro che salverei, non più di venti su circa settanta. Spesso si tratta di versi liberi che fanno rimpiangere gli endecasillabi e i settenari della tradizione, mentre le strofe piuttosto informi fanno venire nostalgia di rime regolarmente distribuite. Quanto ai messaggi trasmessi, li ho trovati, salvo eccezioni, desolanti. La lingua è povera e insipida, le esperienze minime e goffamente indorate, la tecnica compositiva quasi assente o troppo esibita, la visione incerta e sfuocata. L’epigrafe di Renato Serra scelta da Febbraro per la sua antologia è paradossalmente distruttiva (non so se Febbraro se ne sia accorto), enuncia una verità sempre rimossa o arginata che però continuamente riemerge: «Niente e poi niente. Lasciamo stare i vecchi che meritano tanto rispetto e i giovani che dovrebbero suscitare tanta speranza: mettiamo da canto le convenienze, e la stima, e l’amicizia, e tante belle cose. Versi che si facciano leggere in Italia non ce ne sono».
Siamo nel 1913 e sorprende che nei due anni precedenti erano usciti libri di Corrado Govoni, Guido Gozzano, Marino Moretti, Arturo Onofri, Umberto Saba, Camillo Sbarbaro... Dunque, o Serra non si guardava intorno o parlava di autori del tutto spariti che però, al momento, facevano l’impressione di esistere e facevano atmosfera. Cosa che naturalmente accade anche oggi. Evidentemente il rapporto della critica migliore con la maggioranza, o massa, degli autori di poesia, è stato sempre difficile. È successo con Serra ma anche, più tardi, con Giacomo Debenedetti, Pasolini e Garboli, che negli anni cinquanta e sessanta, parlando della produzione poetica italiana, si pronunciarono in termini radicalmente negativi. Si trattò sempre, da Serra in poi, di leggibilità dei poeti rispetto ai narratori e ai saggisti. Come vengono letti i libri di poesia nel momento in cui sono pubblicati? Che tipo di lettore li legge? Qual è la sua cultura? Quali le sue aspettative?
Credo che Galaverni nella sua Premessa abbia chiaramente formulato il problema: «la moltiplicazione di coloro che scrivono versi si è accompagnata non solo o non tanto a una diminuzione qualitativa, quanto soprattutto a un abbassamento della competenza poetica e, più in particolare, della passione e della capacità di leggere poesia. In questi anni i buoni libri e le buone poesie in fin dei conti non sono mancati (...) Si è invece alquanto indebolita la cultura poetica: la competenza, il gusto, la capacità critica, l’orecchio, la consapevolezza, l’etica, cioè appunto la qualità dell’esperienza di lettura(...) il boom dei poeti ha coinciso infallibilmente con il restringimento del campo dei lettori e con l’atrofizzazione delle loro facoltà. Più si è scritto, meno si è letto e più si è scritto e letto male».

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Alfonso Berardinelli

Da - http://www.quotidiano.ilsole24ore.com/edicola24web/edicola24web.html?testata=S24&edizione=SOLE&issue=20180805&startpage=1&displaypages=2

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