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Autore Discussione: FIDUCIA E IMPRESE Ascoltiamo gli allarmi del nord-est  (Letto 1600 volte)
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« inserito:: Agosto 10, 2018, 06:03:16 pm »

FIDUCIA E IMPRESE

Ascoltiamo gli allarmi del nord-est

Sarebbe un errore sottovalutare le tante proteste che in queste settimane sono arrivate dagli imprenditori del Nord-Est sul decreto dignità e sull’introduzione di dazi commerciali. Dietro le critiche di questi giorni ci sono le ragioni di un sistema industriale guidato da una coorte di medie imprese profondamente radicate nel territorio che la politica (governo e opposizione) dovrebbero prendere in considerazione.

Sono la testimonianza di un pezzo di Italia che ha preso sul serio la crisi e che, nell’ultimo decennio, ha avviato con successo una modernizzazione che guarda alla parte più dinamica dell’Europa.
Le osservazioni sollevate dagli imprenditori hanno a che fare con due temi principali: il lavoro e l’internazionalizzazione. A proposito del lavoro, il decreto dignità ha riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica una lettura del rapporto fra impresa e lavoratore in chiave di netta contrapposizione di interessi.
Per chi guarda da vicino il mondo della media impresa manifatturiera che ha segnato la ripresa della competitività a Nord-Est, questa contrapposizione ha poco di veritiero. Mai come in questi ultimi anni gli imprenditori hanno maturato la convinzione che sono le persone a fare la competitività delle imprese. L’investimento sul capitale umano è essenziale per trattenere a Nord-Est giovani che altrimenti trovano più facile intraprendere una carriera all’estero sfruttando diplomi il cui valore è ampiamente riconosciuto fuori dai confini nazionali. Il “quarto capitalismo” italiano investe sulle persone con strumenti sofisticati, dalle Corporate university al coaching personalizzato. La migliore manifattura non crede ai “lavoretti” ma scommette sulla possibilità di costruire percorsi di professionalizzazione fondati su fiducia e merito. Irrigidire questi percorsi costituisce un vincolo per chi entra nel mondo del lavoro e un limite alla dinamica di crescita delle imprese.
Considerazioni analoghe riguardano il tema dell’internazionalizzazione. In questi dieci anni di crisi, le imprese che hanno contribuito al rilancio dell’economia del Nord-Est si sono aperte a una dimensione internazionale. Non si solo limitate a vendere all’estero. Hanno iniziato a produrre in aree geografiche diverse, non tanto per delocalizzare e ottenere particolari vantaggi di costo quanto piuttosto per seguire le richieste dei leader dei rispettivi settori di appartenenza, dall’automobile alla farmaceutica. Hanno iniziato a collaborare con designer di tutto il mondo. Hanno stretto partnership con istituzioni di ricerca internazionali. Questo sforzo di apertura al confronto internazionale è stato promosso grazie a una leva di tecnici, ingegneri, manager italiani che ha creduto e investito in questi progetti. Paradossalmente, gli imprenditori che più si sono impegnati a costruire un futuro per l’economia italiana sono quelli che oggi rischiano di pagare il prezzo maggiore per una riduzione dei margini di libertà nel commercio internazionale.
L’appoggio che questa base produttiva ha sempre accordato alla Lega, ampiamente confermato nel corso delle ultime elezioni, non ha mai preso in considerazione un irrigidimento del mercato del lavoro, ipotesi sovraniste sul versante della produzione né tanto meno presunte uscite dall’euro. Ha riguardato piuttosto il tema dell’autonomia e dell’allargamento dei margini di manovra del governo locale. Questa richiesta di autonomia non è figlia di un atteggiamento di chiusura rispetto al mondo ma è espressione, piuttosto, della consapevolezza che solo politiche specifiche rispetto a un determinato territorio possono favorire la capacità di presidiare mercati sempre più estesi e il rinnovamento di un’idea di comunità, la competitività e l’inclusione. I risultati del referendum dell’ottobre dell’anno scorso sono la testimonianza che questa domanda di autonomia attraversa trasversalmente l’elettorato del Veneto. Chi non ha colto il senso e la forza di questa richiesta ha pagato un prezzo politicamente rilevante (vedi il rigetto per la riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi nel dicembre 2016).
Nel Nord-Est del 2018 non si respirano rigurgiti anti-impresa. Si guarda piuttosto con apprensione a una tornata di provvedimenti legislativi che sembra non tener in conto dell’enorme sforzo fatto in un decennio da imprenditori, lavoratori, professionisti, studenti, professori, pubblici dipendenti per stare al passo con i tempi e agganciare quel livello di modernizzazione che caratterizza aree come la Catalogna e la Baviera, da sempre prese a riferimento dai decisori locali.
I risultati di questo percorso sono ben lungi dall’essere un risultato acquisito per sempre.
Le imprese sono consapevoli della necessità di proseguire in questa direzione. Se si vuole dare dignità al lavoro è necessario sviluppare la formazione tecnica e promuovere la ricerca per i settori del Made in Italy. Su questo terreno il Nord-Est ha dimostrato determinazione sul piano della promozione degli Its, creando una vera e propria academy territoriale, così come sul fronte del Competence center per Industria 4.0 che, per la prima volta, aggrega tutte le università delle tre regioni. Se vogliamo ridurre gli sprechi nelle infrastrutture, meglio guardare altrove sulla carta geografica: Pedemontana veneta e alta velocità Brescia-Padova sono priorità consolidate, percepite come essenziali da una larga fascia della popolazione che studia e lavora sperimentando una mobilità che fa della Venezia-Milano un’unica grande città metropolitana. Su questi obiettivi il Nord-Est continua a investire e su questo terreno reclama la sua autonomia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Stefano Micelli

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« Risposta #1 inserito:: Agosto 16, 2018, 05:58:14 pm »

PRIMO PIANO
11 Agosto 2018
Il Sole 24 Ore

Le imprese

«Situazione preoccupante ma non è il Venezuela»
Nel Paese circa 700 aziende italiane hanno una presenza diretta

«Ci aspettavamo un ulteriore indebolimento della lira turca, ma non con questa rapidità». Beppe Fumagalli, amministratore delegato di Candy Group, non nasconde qualche preoccupazione per la situazione generatasi in Turchia. Il gruppo di elettrodomestici, che ha inaugurato a fine maggio il suo terzo sito produttivo a Eski?ehir, è presente nel Paese da oltre dieci anni, conta 1.200 dipendenti e produce 2 milioni di pezzi l’anno. «Siamo netti esportatori dalla Turchia, quindi questa svalutazione ci avvantaggia. Ma certo preoccupa la tenuta del sistema nel suo insieme».
Il settore degli elettrodomestici è solo uno dei tanti in cui le aziende italiane sono protagoniste in Turchia: 1.410 sono le società del nostro Paese con una presenza produttiva o commerciale, secondo i dati del ministero turco dell’Economia, anche se l’agenzia del governo italiano Ice stima in 700 circa le imprese con una effettiva struttura industriale o con uffici, spesso in joint venture con partner locali. Dalle grandi aziende (come Ferrero, Barilla, Trevi o Astaldi), alle realtà medie e piccole attive soprattutto nella meccanica, nell’automotive, nella farmaceutica, nel tessile, nelle costruzioni e nei servizi finanziari. «In particolare, negli ultimi dieci anni ci sono stati importanti investimenti in infrastrutture», precisa Aniello Musella, responsabile dell’ufficio Ice a Istanbul.
Gli investimenti italiani in Turchia (l’1,2% degli investimenti esteri complessivi) hanno raggiunto l’anno scorso i 124 milioni di dollari, con un aumento del 42,5% rispetto al 2016 (dati Ice). Investimenti che potrebbero essere messi in discussione nei prossimi mesi, ma Musella rassicura: «Siamo tutti in attesa di capire che cosa accadrà, ma la Turchia non è l’Argentina, o il Venezuela: nonostante la forte svalutazione e l’inflazione, il sistema economico è solido ed è un Paese ideale per fare business, con una grande capacità produttiva e organizzativa e una manodopera preparata e competente».
Anche per chi esporta è un mercato rilevante, con un Pil cresciuto del 7,4% lo scorso anno e una popolazione con età media di 31 anni. La svalutazione potrebbe però colpire i consumi interni e dunque le esportazioni italiane che, nel 2017, hanno raggiunto gli 11,3 miliardi di dollari: tra i settori più interessati, quelli di macchinari e componenti, autoveicoli, materie plastiche e macchinari di precisione. «La situazione è preoccupante ma non allarmante – osserva tuttavia Andrea Maschio, socio della Maschio Gaspardo, che produce attrezzature agricole ed è in Turchia dal 2003 con una filiale commerciale e un giro d’affari di 10 milioni (su 324 milioni di fatturato nel del 2017) –. Chi come noi ha fatto un investimento nel Paese, ora forse avrà delle difficoltà, ma bisogna restare, perché sono certo che, quando la Turchia ripartirà, chi è presente fisicamente sarà avvantaggiato».
E c’è anche chi si vede favorito dalla situazione attuale: «Siamo qui da diversi anni e ora, con l’acquisizione dell’azienda Okida, abbiamo quasi 200 dipendenti spiega Pietro Iotti, ad di Sabaf, azienda di componenti per cucine e apparecchi per la cottura a gas –. Per noi la svalutazione è positiva, perché circa il 60% dei nostri costi è in lire turche, mentre tutti listini sono legati al dollaro o all’euro, perché esportiamo quello che produciamo qui oppure vendiamo alle imprese di elettrodomestici e con loro i contratti sono tutti in valuta forte».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Giovanna Mancini

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