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Autore Discussione: FEDERICO GEREMICCA -  (Letto 158213 volte)
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« Risposta #210 inserito:: Marzo 18, 2013, 04:40:21 pm »

Editoriali
17/03/2013

Ma la strada resta in salita

Federico Geremicca

Un giudice antimafia, forse l’ultimo vero erede di Giovanni Falcone, e una donna da anni in prima fila - come portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati - nel soccorso e l’aiuto a migranti e profughi politici. Piero Grasso e Laura Boldrini, cioè: entrambi arrivati per la prima volta in Parlamento tre settimane fa, sono da ieri i nuovi presidenti di Camera e Senato. Pier Luigi Bersani, il leader che ha scommesso su di loro, ha commentato la doppia elezione con uno di quei tweet tanto di moda: «Se si vuole, cambiare si può». 

L’ascesa di Grasso e Boldrini porta con sé due buone notizie ed una sensazione meno positiva. Le notizie, intanto. La prima: qualche tessera del complicato puzzle alla fine del quale dovrebbe esser rivelato l’assetto politico-istituzionale della nuova legislatura, comincia ad andare al suo posto. La seconda: le due tessere sistemate ieri costituiscono una (piacevole) sorpresa per novità, storia personale e perfino profilo etico, il che non guasta mai (a maggior ragione oggi, con la politica messa in un angolo dai frequenti scandali). 

La sensazione meno positiva riguarda invece il prossimo - e ancor più importante - obiettivo da centrare: la formazione del nuovo governo.

Alla doppia elezione di ieri, infatti, ci si è arrivati alla fine di un incerto dialogo tra le parti che ha ora lasciato sul terreno rancori, delusioni e propositi di rivalsa. Lo stato dei rapporti tra Bersani e Monti, per esempio, è senz’altro assai peggiore di quanto lo fosse prima; il partito di Silvio Berlusconi denuncia l’«occupazione» delle presidenze da parte del Pd e spinge per elezioni il prima possibile; e il Movimento Cinque Stelle, infine, è letteralmente imploso - tra pianti, urla e recriminazioni - di fronte alla prima occasione in cui è stato chiamato a compiere una scelta: il che lascia presagire che tenterà di tenersi il più distante possibile da circostanze simili... Un quadro che non pare certo propedeutico - sia sul piano del clima che dei rapporti politici - alla formazione di una qualsiasi maggioranza di governo. 

Anche perché, a differenza di quel che qualcuno aveva sperato, Pier Luigi Bersani non pare aver alcuna intenzione di cambiare la linea annunciata subito dopo la mezza vittoria (o la mezza sconfitta) del 24 e 25 febbraio. L’ha sintetizzata in uno slogan che sta diventando concretamente comprensibile ogni giorno di più: «Mai più responsabilità senza cambiamento». Che vuol dire: con larghe intese e governi tecnici abbiamo già dato, e con Berlusconi non si torna, a meno che della partita non sia anche Beppe Grillo. Cambiamento, dunque: come per i nomi ed i profili dei nuovi presidenti di Camera e Senato. Cambiamento: che ora, a proposito di governo, significa mai un esecutivo senza il Movimento Cinque Stelle, la dirompente novità politica frutto - appunto - della voglia di cambiamento degli italiani.

La maggioranza del Partito democratico è certa che Grillo non voterà mai la fiducia ad un governo-Bersani e si va ormai convincendo che il segretario non defletterà da questa linea: e che l’unico «piano b» che sarebbe disposto a prendere in considerazione sono elezioni anticipate a giugno. Il leader del Pd, infatti, è convinto che il no a soluzioni che replichino l’esperienza Monti, per esempio, può permettere di recuperare consensi tra i tanti elettori democratici incantati da Grillo. Senza contare il fatto che il precipitare verso elezioni da far svolgere in tempi brevissimi, renderebbe impossibili nuove primarie e toglierebbe dal campo Matteo Renzi.

Questo è un obiettivo gradito alla larga maggioranza del Pd, ma è soprattutto con i cosiddetti «giovani turchi» di Fassina, Orlando e Orfini che il segretario sta cercando di costruire un asse che abbia come obiettivo (dopo l’abbandono del Parlamento da parte di personalità come D’Alema, Veltroni, Turco e altri) una sorta di fase due della «rottamazione», da gestire da Largo del Nazareno - sede del Pd - piuttosto che da Palazzo Vecchio. Ma se questo è davvero il disegno, è chiaro che le acque potrebbero cominciare ad agitarsi notevolmente anche all’interno del Pd: con i prevedibili effetti destabilizzanti sul piano della formazione del governo...

Il lavoro che è di fronte a Napolitano ed alle forze politiche, dunque, resta difficile. Il primo passo, però, è compiuto: e due presidenze su quattro, sono assegnate. Resta da trovare una soluzione per le tessere più difficili dell’intero puzzle: capo del governo e Quirinale. Non sarà facile, e il tempo stringe. Non solo stringe per chi vuole tornare alle urne già a giugno: stringe soprattutto per le risposte urgenti da dare a un Paese squassato da una crisi economica e sociale che pare aggravarsi ogni giorno di più.

da - http://lastampa.it/2013/03/17/cultura/opinioni/editoriali/ma-la-strada-resta-in-salita-uowZ2EiiAhjLxeVvy9QTAP/pagina.html
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« Risposta #211 inserito:: Marzo 26, 2013, 04:41:53 pm »

Elezioni Politiche 2013
26/03/2013

La solitudine del leader e i tanti malumori sopiti

D’Alema ieri era a Parigi, Veltroni a casa con problemi di salute.

Dai big non sono arrivati segnali di particolare incoraggiamento a Bersani

Partite diverse nel Pd, nessuna (per ora) dichiarata

Federico Geremicca
Roma


Venerdì 22 marzo magari era tardi, Bersani ebbe l’incarico al calar del sole e forse qualcuno non ebbe tempo o era impegnato in riunioni chissà dove. Ma poi vennero il sabato e la domenica: e tutto, però, continuò a tacere. Silenziosa Rosy Bindi, silenzioso Massimo D’Alema, zitti altri leader del peso di Walter Veltroni e Franco Marini. A volte, la solitudine di un leader la si può far trasparire anche così: evitando qualunque commento, e perfino un semplice augurio - un in bocca al lupo - al segretario che parte in guerra per la sua missione impossibile. 

 

Anche la Direzione di ieri - che pareva esser diventata la sede madre di ogni decisione, il luogo in cui il Pd avrebbe dovuto dire «o Bersani o morte», ha trasmesso la stessa sensazione: un solo intervento, meno di un’ora in tutto (comprese introduzione e replica), assenze numerose e alcune eccellenti, Renzi (a fare il sindaco), D’Alema (a Parigi per impegni), Veltroni (ancora con qualche problema di salute) e si potrebbe continuare. Qualcuno si attendeva battaglia intorno alla domanda delle domande: ma se Bersani fallisse, che si fa? La battaglia non c’è stata: tutto rinviato alla prima occasione utile...

 

Non è un mistero, infatti, la circostanza che nel Pd le acque siano agitate e molti non abbiano condiviso granché la linea proposta da Bersani subito dopo il voto: e cioè, un governo per il cambiamento, che vuol dire mai più con Berlusconi, a meno che nella partita non ci siano anche i voti di Beppe Grillo. E ancor di meno hanno condiviso l’approdo che il segretario vorrebbe per tale linea: se io fallisco si torna al voto. Qualcuno (D’Alema) non ha condiviso per ragioni politiche, considerando un errore dire pregiudizialmente no ad un confronto con il Pdl. Altri non hanno condiviso - ma hanno taciuto - per ragioni che vedono sommate perplessità politiche e delusioni e rancori difficili da digerire.

 

Non c’è da scandalizzarsene, visto che la strategia che ha portato Bersani fino all’incarico di formare un governo, ha lasciato morti e feriti nel quartier generale del Pd. C’erano state - all’inizio - «rinunce elettorali» (Veltroni, D’Alema, Turco...) faticose da metabolizzare; poi la vicenda dei nuovi presidenti di Camera e Senato (con la grande delusione subita da Dario Franceschini e Anna Finocchiaro), infine l’elezione dei nuovi capigruppo, con la scelta a sorpresa di Zanda e Speranza , che ha infoltito la schiera di chi oggi ce l’ha con Bersani. Ma poiché - come Enrico Letta ha annotato aprendo la Direzione - «il tentativo di Bersani senza unità del Pd è impossibile», nemmeno ieri malesseri e dissensi sono venuti allo scoperto. E in fondo, solo di questo si tratta: di farli emergere. Perché che esistano, Bersani lo sa: meglio ancora, lo considera scontato. Del resto, far «girare la ruota» - come il segretario ripete - è operazione spesso dolorosa. E talvolta perfino rischiosa.

 

E così, il Pd osserva Bersani alle prese con la sua missione impossibile e lo fa con una passione e una partecipazione impalpabili. Cosa spera la maggioranza del partito? Difficile dirlo, in considerazione delle tante partite aperte tra i democratici (dal Quirinale fino alla possibilità di elezioni a giugno). E in fondo, la forza del segretario oggi sta soprattutto qui: nelle debolezze e nelle divisioni di chi - più o meno scopertamente - lo avversa. C’è chi vorrebbe che il governo nascesse (i bersaniani) ma magari per durare pochi mesi (è quel che sperano i «giovani turchi» ed i renziani); c’è chi vorrebbe che il governo non nascesse affatto e se ne varasse uno «del Presidente» (i veltroniani, i dalemiani e gran parte di quella che fu la maggioranza che elesse Bersani e lo ha poi sostenuto alle primarie), e c’è - infine - chi direbbe sì a qualunque ipotesi che tenga Renzi lontano (ma fino a quando?) dal quartier generale...

 

Una pentola a pressione, insomma, nella quale alle delusioni da «ruota che gira» si vanno sommando preoccupazioni politiche e timori personali. Ma è già noto a tutti il passaggio nel quale il coperchio della pentola potrebbe saltare: l’eventuale naufragio del tentativo Bersani. A quel punto, il Pd si ritroverà di fronte a un bivio micidiale: seguire Napolitano nel probabile tentativo di dare comunque un governo al Paese o stare sulla linea del segretario (dopo di me, solo il voto). Difficile dire come finirà: ma secondo alcuni, in nome della chiarezza,sarebbe già molto farlo cominciare... 

da - http://lastampa.it/2013/03/26/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/la-solitudine-del-leader-e-i-tanti-malumori-sopiti-iTm5augKE8RuN2xampPU1K/pagina.html
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« Risposta #212 inserito:: Marzo 29, 2013, 11:56:06 am »

Elezioni Politiche 2013

29/03/2013 - chiusa una fase

Il cruccio del segretario: non aver potuto usare l’asso


Il rammarico è che il semestre bianco gli ha tolto la carta vincente

Federico Geremicca
Roma

La cravatta di traverso, la giacca sbottonata, la faccia un po’ sgualcita. Quando poco dopo le sette della sera Pier Luigi Bersani si è affacciato alla tribunetta del Quirinale, il cosiddetto «linguaggio del corpo» non lasciava presagire nulla di buono.

 

E invece il leader Pd - il suo tentativo, anzi - barcolla ma è ancora in piedi: e solo stasera, in questo Venerdì di Passione, se ne conoscerà la sorte ultima e definitiva. 

 

I margini, onestamente, sono esigui, sempre più stretti: ma se c’è una cosa che può esser data per certa, è che Bersani non arretra, non rinuncia e non si arrende. E dopo il colloquio di oltre un’ora col Capo dello Stato, s’è lasciato andare ad uno sfogo intorno alle ragioni che hanno minato (e forse addirittura già affondato) il suo tentativo di fare un governo: «Sarebbe stato tutto diverso con un Presidente nella pienezza dei suoi poteri - ha ripetuto ai suoi -. Avessimo avuto un Capo dello Stato in condizione di sciogliere il Parlamento, certo non avrebbero menato il can per l’aia trovando pretesti di ogni tipo». 

 

Corrucciato. Preoccupato. E soprattutto molto deluso: «Siamo arrivati vicinissimi all’obiettivo. Mancava, anzi manca, solo un passo - ha insistito con i suoi - ora vediamo se Napolitano ci aiuta a farlo. Ma al Presidente ho dovuto per onestà dire che, se io fallissi, sul dopo bisognerà ragionare con attenzione, senza dare nulla per scontato: il Pd non è disposto a sostenere qualunque governo, ed è vincolato ai deliberati della sua Direzione».

 

Fonti del Quirinale negano qualunque contrasto nel colloquio tra Napolitano e Bersani: «Del resto - spiegano - il segretario del Pd è venuto a resocontare circa lo stallo determinatosi, rimettendosi alle valutazioni del Presidente: non ha chiesto altro tempo, non ha sollecitato voti in Parlamento, non ha alzato barricate sul dopo, in caso di fallimento». In cambio, se si può dir così, il Capo dello Stato vedrà - con consultazioni brevissime - se è possibile rimuovere quello che, a detta di Bersani, appare l’ostacolo maggiore incontrato: e cioè le garanzie che Berlusconi solleciterebbe circa il nome del futuro presidente della Repubblica.

 

Si tratta, in tutta evidenza, di una questione della massima delicatezza. Si immagina, però, che un tale problema possa certo esser posto ad un presidente del Consiglio pre-incaricato: ma assai più difficilmente ad un Capo dello Stato in carica. Berlusconi potrà naturalmente porre la questione in altro modo: e dire, per esempio, che il Pd ha già eletto i presidenti di Camera e Senato, pare voglia eleggersi quello della Repubblica e dunque non può pretendere anche Palazzo Chigi. Ma è appunto questo quel che Napolitano intende capire: e cioè, se con un nome diverso da quello del segretario del Pd, Berlusconi e la Lega sono davvero pronti - come ripetono da giorni - a far nascere un governo o se invece il loro “piano a” non siano, in realtà, le elezioni anticipate.

 

Napolitano al lavoro, dunque, per provare ad evitare - se possibile - il naufragio del tentativo-Bersani. Al leader Pd, dunque, non resta che attendere: ma si tratta di un’attesa per nient’affatto rassegnata: «Chiunque dovesse venire dopo di me, compreso Saccomanni - assicurava in serata il segretario dei democratici - dovrà prima di tutto conquistare i voti dei 480 parlamentari della nostra coalizione: voti che io ho già. E non ci vengano a proporre governissimi, magari mascherati dietro un altro nome, perché lì il mio no è già scritto. C’è mezzo Pd che non voterà mai per una sorta di riedizione del governo Monti e che non vuole rompere la coalizione con Sel, visto che Vendola per quella via non ci seguirebbe...».

 

Appeso a un filo, insomma. E, come si dice da giorni, completamente nelle mani di Berlusconi. «Magari - annotava a fine giornata Bersani - ci ripensa e capisce che un “governo del Presidente” rischia di essere un pasticcio anche per lui». Lo diceva con la solita voce profonda: ma sembrava più un auspicio, stavolta, che una possibilità concreta, sulla quale puntare il famoso cent...


da - http://lastampa.it/2013/03/29/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/il-cruccio-del-segretario-non-aver-potuto-usare-l-asso-Za7UxjqQ3xLglmoYZ8MN4K/pagina.html
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« Risposta #213 inserito:: Aprile 10, 2013, 06:43:44 pm »

Editoriali
10/04/2013

Il valore di un confronto a tutto campo

Federico Geremicca


Settanta minuti l’uno di fronte all’altro, il giaguaro e l’uomo che lo voleva smacchiare. Doveva essere un incontro importante - se non decisivo - per avviare lo sblocco dello stallo post-voto, e non sarebbe andato male. Ma c’è da sperare, in verità, che le dichiarazioni rese dopo il faccia a faccia siano - come spesso e comprensibilmente accade - fuorvianti e non attendibili: in particolare per quel che riguarda il fatto che nel tanto atteso incontro non si sarebbe discusso del governo da varare.

 

Infatti, a quarantatrè giorni dal voto e in una situazione che appare irrimediabilmente ferma al palo, quel che forse si può cominciare a dire è che se tutto è ancora bloccato, questo in parte - forse in gran parte - è determinato da un evidente «gap di dialogo», cioè da una indisponibilità - o impossibilità - reciproca ad avviare un confronto capace di arrivare ad una soluzione. Tutti sono rimasti tenacemente fermi alle primissime dichiarazioni successive al voto e, come in una sorta di incomprensibile prosecuzione della campagna elettorale, non uno sforzo è stato fatto per tentare di avvicinare posizioni per altro non sempre e non totalmente inconciliabili.

 

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: lo stallo perdurante, l’impantanamento del tentativo-Bersani, l’elezione di due presidenti del Parlamento che - al di là delle qualità personali - è difficile definire «largamente rappresentativi» e il buio totale per quel che riguarda il futuro presidente della Repubblica e il governo da mettere in campo in una fase così complicata per il Paese. Che tale risultato sia il frutto della difficoltà a smaltire le scorie elettorali, piuttosto che l’effetto della presenza «grillina» (niente trattative, Grillo ci guarda!) è difficile dire. Quel che è certo, invece, è che proprio la necessità di rinnovare contemporaneamente tutte le cariche istituzionali (dal Parlamento al governo, fino al Quirinale) offriva - e in parte ancora offre - la possibilità di un confronto ad ampio spettro e, naturalmente, di una intesa. 

 

Ai tempi della Prima Repubblica, una situazione post-voto così sarebbe stata considerata una sorta di manna caduta dal cielo. Con ben quattro presidenze da attribuire, non solo il Cencelli (manuale della «corretta» lottizzazione) ma perfino il buonsenso, avrebbero rappresentato i fari per una rapida - e soddisfacente per tutti - uscita dalle difficoltà. Invece, l’aver sostituito alla parola confronto la parola «inciucio», e aver deciso di affrontare con filosofia «maggioritaria» una geografia post-voto che reclamava un approccio assolutamente «proporzionale», ha portato in un vicolo cieco.

 

Si era inteso, però, che la seconda e più importante fase delle scelte da compiere (Quirinale e Palazzo Chigi) sarebbe stata affrontata con logica diversa: che qualcuno potrebbe e potrà comunque liquidare come «spartizione», e che invece sarebbe assai più opportuno (e corretto) definire di ricerca di equilibrio (politico e istituzionale) tra le forze politiche. Si apprende, invece, che così non sarebbe: e che si intenderebbe continuare a sfogliare la margherita petalo per petalo. Il rischio - alla luce di quanto accaduto fino a ora - è che, alla fine, il presidente della Repubblica possa non esser considerato di «garanzia» da tutti: con la conseguenza che il governo che dovrebbe nascere subito dopo, possa non veder la luce.

 

Discutere contestualmente di Quirinale e governo non vuol dire necessariamente lottizzare, spartire, violare regole democratiche: a volte, rischia perfino di esser più vero il contrario. Discutere contestualmente degli assetti della Repubblica vuol dire (in teoria, certo) andare alla ricerca degli equilibri necessari - perchè reclamati dal responso elettorale - ad avviare su basi meno precarie una legislatura assai incerta. Del resto, la controprova è semplice: e basta guardare all’inasprimento della situazione dopo l’elezione di due presidenti (Grasso e Boldrini) «di sinistra». I fatti - oltre a quanto già accaduto - solleciterebbero un cambio di schema, alla luce del sole. Manca poco più di una settimana all’inizio delle votazioni per il nuovo Capo dello Stato. Tempo ne rimane. La speranza è che venga utilizzato al meglio...

da - http://lastampa.it/2013/04/10/cultura/opinioni/editoriali/il-valore-di-un-confronto-a-tutto-campo-Er9gXDCKpDFjNpmcUi9cqJ/pagina.html
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« Risposta #214 inserito:: Aprile 13, 2013, 11:19:01 pm »

Editoriali
13/04/2013

Il Settennato e la lezione del dialogo

Federico Geremicca

Quando il 10 maggio 2006 Giorgio Napolitano fu eletto Presidente della Repubblica, tanto il suo profilo politico quanto la modalità di elezione, lasciavano presagire l’ascesa al Colle più alto di un leader che - secondo una lettura un po’ stereotipata - difficilmente avrebbe potuto esser qualcosa di diverso da un «Presidente di parte». Per la prima volta nella storia repubblicana, infatti, un ex comunista diventava Capo dello Stato; e lo diventava con un consenso tanto parziale da farne quasi un «Presidente di minoranza»: appena 543 voti su 1009 aventi diritto (il predecessore, Ciampi, ne ottenne 707; e Scalfaro, ancor prima, 672).

 

Sette anni sono lunghi, ma è difficile immaginare che il consenso di cui è circondato oggi Giorgio Napolitano - con le ripetute richieste di rimanere al suo posto - sia semplicemente il frutto del tempo che passa e cancella dolori e rancori: e in fondo, proprio la giornata di ieri - atto conclusivo della sua presidenza - ha in sé e ripropone la chiave vera di quell’imprevedibile crescita di consenso, di fiducia e di popolarità.

 

Si tratta di una ricerca continua: che si fonda su un metodo - quello del dialogo e del confronto - per il raggiungimento di un obiettivo dichiarato, e cioè il massimo dell’unità possibile tra le forze politiche e sociali ogni volta che si affrontano scelte-chiave per il futuro del Paese. 

 

È per questo che Giorgio Napolitano ieri era soddisfatto mentre illustrava il lavoro delle due Commissioni dei cosiddetti saggi: personalità distanti tra loro per profilo, idee politiche e formazione che pure hanno prima ricercato e poi trovato intese importanti su questioni importanti. «E’ il suo ultimo lascito da Presidente: la conferma che alla fine - spiegava ieri uno dei più stretti collaboratori del Capo dello Stato - pur partendo da posizioni distanti, ce la si può fare». La condizione, naturalmente, è voler discutere davvero del merito dei problemi: mettendo da parte una logica di contrapposizione politica esasperata che, a urne chiuse, non può che produrre danni su danni. 

 

Purtroppo per Napolitano, è proprio in questo clima di contrapposizione esasperata che ha invece dovuto esercitare la parte finale del suo settennato. Verrà naturalmente il tempo per bilanci che siano esaustivi circa il carattere e il profilo della presidenza che si conclude. Ma già oggi si può dire che, proprio in ragione di quel clima, le amarezze non sono mancate: e che le gioie - le soddisfazioni, meglio - sono apparse a Giorgio Napolitano ancor più grandi proprio per le difficoltà nelle quali, giorno dopo giorno, sono maturate.

 

Gli ultimi mesi, in particolare, hanno riservato al Presidente della Repubblica sorprese forse inaspettate e dispiaceri (per usare un eufemismo) che non gli sarà facile dimenticare. Durissimo - e tristissimo - per esempio, è stato il confronto, con la Procura di Palermo intorno alla cosiddetta trattativa Stato-Mafia: vedersi indicare come l’uomo che intendeva «ostacolare la ricerca della verità», mettendo i bastoni tra le ruote ai magistrati siciliani, ha rappresentato una ferita profonda, che solo il tempo - forse - rimarginerà. Ed anche la scelta di Mario Monti di abbandonare il suo profilo super partes per schierarsi e «salire» in politica, in verità, non fu compresa dal Capo dello Stato, che la ritenne - e forse la ritiene ancora - un indebolimento rispetto al ruolo assegnatogli ed alle future potenzialità.

 

L’esser riuscito, invece, a fare delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia un momento davvero importante per il Paese, un’occasione cioè di riflessione sul significato di quella data lontana, è forse la maggiore soddisfazione di questi sette anni. Che si chiudono, però, con l’amarezza forse più difficile da accettare: il non esser riuscito a risolvere lo stallo di una crisi incattivitasi, dopo il voto, ogni giorno di più. La scelta di insediare due Commissioni di lavoro - contestata da qualcuno come una presunta «perdita di tempo» - è l’ultimo lascito di Napolitano al Paese e, soprattutto, al suo successore. Ora ci sono basi programmatiche da cui ripartire, c’è un confronto avviato e da continuare. Il lascito di Giorgio Napolitano è questo: un metodo, con in più una indicazione. «Pur partendo da posizioni distanti, ce la si può fare». Sempre che, naturalmente, ce la si voglia fare...

da - http://www.lastampa.it/2013/04/13/cultura/opinioni/editoriali/il-settennato-e-la-lezione-del-dialogo-MmvpGv1tHxFZTCeBCNwDmJ/pagina.html
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« Risposta #215 inserito:: Maggio 01, 2013, 11:06:29 pm »

Politica
01/05/2013 - retroscena

Il Pd tentato dall’abolizione delle “primarie di partito”

Sergio Cofferati

L’ipotesi: basta elezioni per segretario e parlamentari, solo per il candidato premier

Federico Geremicca
Roma


C’è qualcuno, come Sergio Cofferati, che è furioso e non lo nasconde: «Ora vogliono abolire le primarie per l’elezione del segretario, ed è una follia». 
«In quella trincea - continua Cofferati - non possiamo arretrare nemmeno di un millimetro». C’è qualcun altro, come Arturo Parisi, ulivista della primissima ora, che prima che furioso si dice sconcertato. «Si toccano le primarie che io e Ilvo Diamanti abbiamo definito il “mito fondativo” del Pd: si pensa ad una riforma, insomma, che snatura completamente il Partito democratico». E c’è chi, come Beppe Fioroni, non si appassiona al tema solo perché ha da lanciare un allarme su una questione che viene prima: «Dobbiamo eleggere subito un segretario, altrimenti rischiamo di restare sotto le macerie del governo Berlusconi-Letta: il Pd deve fare sentire la sua voce, con orgoglio, e anche in dissenso dall’esecutivo, se necessario. Poi parliamo di primarie, che il tempo c’è...». 

E questa, dunque, è l’ultima novità che va maturando in casa Pd: niente più primarie per eleggere il segretario del partito e forse niente più primarie (ma questa seconda scelta dipenderà molto dal tipo di legge elettorale con la quale si tornerà al voto) forse niente più primarie, dicevamo, nemmeno per selezionare i candidati al Parlamento. Evocate come elemento costitutivo del Partito democratico ed esaltate come lo strumento capace di favorire il massimo di partecipazione dei cittadini, le primarie rischiano insomma di finire in soffitta. Un po’ in ragione delle cose che vanno male, un po’ per l’irrompere del ciclone-Renzi, la scelta sembra fatta: ma non passerà senza polemiche, a quanto par di capire sondando gli umori qua e là.

Prima di tutto, però, occorre spiegare le ragioni alla base dell’avviata marcia indietro. Per quanto riguarda le primarie per l’elezione del segretario (le prime le vinse Veltroni, nel 2007; le seconde Bersani, nel 2009) la motivazione è che avendo il Pd intenzione di tornare indietro e sdoppiare le figure di segretario e di candidato-premier (tutt’ora, per Statuto, coincidono) sarà scelto con le primarie solo il candidato per Palazzo Chigi, mentre il segretario tornerà ad essere eletto dal Congresso. Diverso invece il discorso (meno definito) per quanto riguarda la scelta dei parlamentari da candidare. Qui pesa, inutile dirlo, la prova fornita dai gruppi del Pd durante le votazioni per eleggere il nuovo presidente della Repubblica: centinaia di franchi tiratori in campo, sull’onda della protesta che arrivava dalla periferia prima sul nome di Marini e poi sulla mancata convergenza su quello di Stefano Rodotà.

Che l’«insubordinazione» potesse nascondere problemi e dissensi politici, è ipotesi finita presto (e consolatoriamente) in secondo piano: l’indice accusatore si è infatti subito puntato verso la debolezza e la permeabilità degli eletti, perchè scelti - appunto - con le primarie. Pochi hanno annotato l’evidente contraddizione con quanto affermato prima e dopo la campagna elettorale da Pier Luigi Bersani: con le primarie abbiamo ucciso il Porcellum, i nostri parlamentari li scelgono i cittadini ed abbiamo i gruppi più giovani, rinnovati e pieni di donne. Ma tant’è... La revisione pare avviata anche su questo fronte, e poco importa che il Pd sembri somigliare sempre più alla famosa tela di Penelope, dove regole, alleanze e criteri di selezione della classe dirigente vengono fatti e disfatti continuamente, sotto gli occhi perplessi di iscritti ed elettori.

«Si danno questi cambiamenti per scontati, ma non se ne è mai discusso», lamenta Parisi. È vero, ufficialmente il tema non è ancora stato posto, ma solo per la buona ragione che ricordava all’inizio Fioroni: e cioè che c’è da rimettere in piedi, in qualche modo, un gruppo dirigente. E qui, se possibile, la faccenda diventa ancor più confusa e delicata. Che fare? Un segretario-traghettatore fino al Congresso? Un segretario «vero», da insediare ora e confermare in autunno? O addirittura un semplice «comitato di garanti»?

Tutte le ipotesi sono in campo: ma non tutti i candidati in campo sono disposti ad accettare qualunque ipotesi. Guglielmo Epifani, di buona mattina su un divanetto di Montecitorio, per esempio dice: «Sono interessato solo se c’è una prospettiva: non è che voglio finire imbalsamato fino a ottobre e poi chi si è visto si è visto». Gianni Cuperlo è perplesso, molto tentato di tirarsi fuori. E Anna Finocchiaro, nome forte e in ascesa, attende di capire verso che soluzione si va. La confusione è grande, ma una decisione andrà pur presa: «Ci vuole subito un segretario, per un mese, per tre, per sei, decidano loro, ma ci vuole subito - insiste Fioroni -. Berlusconi la fa da padrone e non abbiamo una voce che dica ai nostri come la pensa il Pd. Dobbiamo ritrovare l’orgoglio di un partito forte e autonomo, altrimenti rischiamo di diventare il partito del governo: una cosa che era inaccettabile già ai tempi della vecchia Dc...».

da - http://lastampa.it/2013/05/01/italia/politica/il-pd-tentato-dall-abolizione-delle-primarie-di-partito-Vg3SFjjg541BgkNaNrXILJ/pagina.html
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« Risposta #216 inserito:: Maggio 08, 2013, 05:38:43 pm »

Politica
08/05/2013 - celebrazioni

I funerali della Prima Repubblica

Ieri, con le esequie del “Divo Giulio”, si è chiuso per sempre un certo modo sobrio e discreto di intendere la politica

Federico Geremicca
Roma

L’urlo del passante - solo un mezzo urlo, in verità - sale dal fondo della piazza, mentre la folla esce piano dalla basilica di San Giovanni dei Fiorentini: «Ahò, ce manca solo quello der bacio, Totò. Quegli artri, invece, ce stanno tutti».


Sono le sei della sera, il sole trafigge a fatica nuvole scure e spesse, e lo «spiritaccio romano» - che è stato il suo spirito per una vita - stavolta colpisce lui: ma non falsifica la realtà. È vero, intorno al feretro di Giulio Andreotti - Belzebù, il Divo Giulio o «la volpe che finirà in pellicceria», come profetizzò Bettino Craxi - «ce stanno tutti»: e prima di tutti, inevitabilmente, i «nemici» di una vita, i democristiani, ovunque siano finiti, comunque stiano in salute e qualunque cosa pensassero di lui. 

 

Si scriverà - ed è giusto scriverlo - che nella bella basilica a due passi dal Tevere, ieri si sono finalmente celebrati i funerali della Prima Repubblica, perché nessuno come lui - come Andreotti - l’ha percorsa dall’inizio (1947: sottosegretario di De Gasperi a Palazzo Chigi) fino alla fine (1992: presidente del Consiglio). Si dibatterà - ed avrà un senso farlo - intorno al fatto che, assieme a lui, è un pezzo d’Italia quello che se ne va. Ma la morte di Giulio Andreotti, compagno di strada degli italiani negli Anni 40, ’50, ’60, ’70, ’80 e addirittura ’90, è qualcosa di più ma anche di meno, contemporaneamente: è come la fine del 45 giri e dei dischi in vinile, come la morte della vecchia e cara lampadina, come la fine di Carosello, cancellato dalla Rai 36 anni fa e, guarda il caso, tornato in onda l’altra sera, il 6 maggio, proprio nel giorno della morte del Divo Giulio. È qualcosa di abituale, che se ne va. Qualcosa che, all’improvviso, in qualche momento, inspiegabilmente mancherà. 

 

È un’epoca, non solo un modello di Repubblica, quella che si chiude. È un’idea del mondo e della politica. È uno stile di gestione del potere, del quale - ed è tutto dire - a volte si sente perfino la mancanza: la discrezione, la sobrietà, la non ostentazione. Sui gradoni della Basilica di San Giovanni dei Fiorentini, a pochi passi dalla casa di Andreotti, in corso Vittorio Emanuele, Stefano Andreani - storico portavoce del sette volte presidente del Consiglio - racconta: «Viveva in quell’appartamento dal 1960. Lo comprò con un mutuo trentennale. L’ultima rata gliel’ho pagata io nel 1990...». Non erano tempi in cui gli amici compravano a tua insaputa un appartamento di fronte al Colosseo. Magari succedeva di peggio, nel 1960: ma con discrezione, senza ostentazione, con sobrietà...

 

Arriva Gianni De Michelis. Tra la ressa si fanno largo, Gianni Letta, Gasparri e Mario Monti. Ma arrivano soprattutto loro, i democristiani, divisi in mille partiti, va bene, un po’ al centro, un po’ a destra e un po’ a sinistra: ma accorsi tutti qui per seppellire un altro pezzo di sé. C’è l’amico-nemico di una vita, Ciriaco De Mita; c’è il sodale del più micidiale patto di potere che la Repubblica (la Prima ma anche la Seconda) ricordi: cioè Forlani, l’ultima iniziale vivente di quel Caf (con Craxi e Andreotti) che dall’89 al 1992 si spartì le scarne spoglie di quel che restava di un sistema al capolinea; c’è Emilio Colombo, l’unico sopravvissuto tra i costituenti; ci sono Casini ed Enzo Scotti, Mastella e Zamberletti, Fioroni e Riccardi, Sanza, D’Antoni e si potrebbe continuare. Ma ci sono prima di tutto loro, gli andreottiani: la corrente più «cattiva», imperscrutabile e meglio organizzata della fu Dc. 

 

Ci sono quelli che ci sono ancora, naturalmente, e mancano - dunque - «pezzi da 90» come Vittorio Sbardella, Salvo Lima e Franco Evangelisti. Ma tutti gli altri, i «responsabili di settore» per conto del Divo Giulio, sono qui: Paolo Pomicino, longa manus in economia; Roberto Formigoni, delegato ai rapporti con Cl; Francesco D’Onofrio, addetto alle riforme... Sono commossi, ma come si sarebbe commosso il loro capo: gli occhi degli andreottiani restano asciutti, come quelli degli altri democristiani...

 

Tra le corone di fiori spicca quella del «condominio 326», gli amici di palazzo del senatore; è messa lì, segno di normalità, tra quelle del Capo dello Stato e dell’ambasciata del Nicaragua. Si vede qualche volto tv, ex manager delle partecipazioni statali, molte suore e tanti preti. Ma si vede, soprattutto, la Roma di Andreotti, tassisti, pubblico impiego, insegnanti e commercianti ai quali - se anche appena tornato dagli Usa o dall’Urss - Belzebù dedicava tutti i sabato mattina, ricevendoli nell’ufficio di San Lorenzo in Lucina. È l’Italia Anni 60, facce di un boom economico che sognano di notte, cappotti logori e tanti «grazie Giulio, politici come te non ne verranno più». 

 

Alle sei della sera è tutto finito, e il lavoro degli storici può iniziare. Non sarà facile districarsi tra papi e mafiosi, banchieri e ambasciatori, cancellerie, logge segrete e trasferte siciliane. Che raccontare di quell’uomo capace di governare con la destra, prima, e con il Pci, poi? E che statista può esser stato un primo ministro «amico degli arabi» e per cinquant’anni «garante degli americani»? Lo dirà la storia, forse. Per intanto, incurante dell’effetto retrò, qualcuno srotola sui gradoni della basilica una vecchia bandiera col simbolo Dc. 

 

Già, la Dc. Sconfitta dalla storia, forse, e morta anch’essa, come il Psi, dentro la bufera di Tangentopoli. Un massacro, dal ’92 in poi. Tangenti, fondi neri, finanziamenti occulti... Da Forlani a Scotti, da Gava a Pomicino, uno dopo l’altro caddero tutti accompagnati dal grido «ladri-ladri». Giulio Andreotti invece no: lui intanto faceva i conti con la grande mafia e perfino con un assassinio. Un democristiano davvero diverso, in fondo: se più nel bene o più nel male lo dirà la storia. Quando forse non interesserà più...


da - http://www.lastampa.it/2013/05/08/italia/politica/i-funerali-della-prima-repubblica-uXtO52wQ8HkBcIgfytnFCN/pagina.html
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« Risposta #217 inserito:: Maggio 11, 2013, 05:43:35 pm »

Editoriali
11/05/2013

Da Epifani un aiuto al premier


Federico Geremicca


Alla fine, dunque, la scelta è caduta su Guglielmo Epifani, uomo saggio, prudente, esperto, una vita in Cgil e tra i lavoratori. È a lui, infatti, che i capicorrente del Pd hanno deciso di affidare le sorti del Partito democratico nel momento più difficile dalla sua fondazione ad oggi. Se stamane i membri dell’Assemblea nazionale ratificheranno questa scelta col voto, una fase travagliatissima sarà dunque chiusa: e il Pd, finalmente di nuovo con una guida, potrà tornare a guardare ai problemi del Paese, avendo davanti qualche mese per cercare di avviare a soluzione i propri.

 

Il percorso che ha portato alla scelta dell’ex segretario della Cgil non è stato - però - né facile né lineare, e perfino l’approdo è circondato da ambiguità che solo il tempo potrà sciogliere. Secondo alcuni, infatti, Guglielmo Epifani ha accettato «per senso di responsabilità e spirito di servizio» l’incarico di reggente-traghettatore, e al Congresso del prossimo autunno non potrà candidarsi alla segreteria perché questo è l’impegno che avrebbe assunto con i maggiorenti del partito; secondo altri, al contrario, Epifani sarà un segretario a tutti gli effetti.

 

E avrà pieni poteri: e nel discorso che dovrebbe tenere oggi ai membri dell’Assemblea nazionale, non annuncerà affatto che considera il suo mandato concluso con l’arrivo dell’autunno.

 

È un nodo che solo il tempo e i fatti, come dicevamo, potranno sciogliere: per ora va registrato che l’ingresso in campo di Epifani è stato salutato da un entusiasmo composto, da molte silenziose perplessità e da alcuni espliciti dissensi: prima di tutto da parte dei militanti e dei giovani deputati di OccupyPd, che oggi manifesteranno alla Fiera di Roma (dove si svolge l’Assemblea) per protestare contro lo stato e la linea del partito. «Dobbiamo riprendere in mano il Pd - ha spiegato per tutti Fausto Raciti, leader dei giovani democratici - perché questa classe dirigente è finita». Non saranno tempi facili, quelli verso i quali si incammina Guglielmo Epifani: a partire già da oggi, con un voto - quello dell’Assemblea - che dopo le prove di tenuta fornite dai democratici nella Grande Guerra per il Quirinale, preoccupa (e non poco) gli sponsor dell’ex segretario della Cgil.

 

Però - almeno - qualcosa ricomincia a muoversi, dopo settimane e settimane di avvitamento e paralisi, con la base del partito in evidente sofferenza. Il Pd, infatti, torna in condizioni di piena operatività: ed a rallegrarsi per la scelta (e per il nome individuato) è prima di tutto Enrico Letta, capo di un governo che proprio i democratici sembrano disconoscere ogni giorno di più. La storia minore della politica italiana, infatti, racconta che nessun esecutivo può avere lunga vita se il partito di riferimento del premier non è saldamente unito nel sostegno al governo. E figurarsi, dunque, che futuro poteva immaginare per sé Enrico Letta, con Berlusconi in campo a dettare l’agenda delle cose da fare (ed a rivendicarle) ed un Pd silente - quando non critico - e interamente alle prese con la propria crisi.

 

Ora ci sono - o almeno così pare - le condizioni perché qualcosa cambi. Guglielmo Epifani è un convinto sostenitore dell’esperienza di governo avviata, ed ha autorevolezza sufficiente per convincere il Pd che il tempo dei suicidi (o dei tentati suicidi) è finito: e che un «programma politico» che avesse all’ordine del giorno l’abbattimento di un governo a guida democratica - seppur varato in stato di necessità - sarebbe l’ultima e forse irreparabile follia. Enrico Letta, dunque, potrebbe cominciare da domani a muovere anche l’altra gamba sulla quale si regge il suo esecutivo: e l’attività del governo e il suo equilibrio complessivo non dovrebbero che giovarsene.

 

Ma naturalmente, parlando di un Pd mai ripresosi dal mancato successo elettorale, ogni prudenza è giustificata e la cautela è d’obbligo: a partire dai lavori dell’Assemblea di stamane. Bisognerà vedere con quanti consensi Epifani sarà eletto (se questo avverrà...); e occorrerà ascoltare con attenzione gli interventi che verranno svolti. Dovrebbero prendere la parola tutti i big, a partire dal neo-premier, naturalmente, passando per Bersani, Bindi, probabilmente Renzi, forse Finocchiaro e Franceschini. Al di là di chi andrà alla tribuna per esprimere un esplicito dissenso, sarà interessante vedere in che modo e con che toni sarà espresso il consenso. Sapendo che potrebbe bastare poco per render incandescente il clima all’interno di un partito dove quasi nessuno, ormai, si fida più di nessuno... 


DA - http://lastampa.it/2013/05/11/cultura/opinioni/editoriali/dall-ex-cgil-un-aiuto-al-premier-ZNnj1nqItIAY8oorFemh6L/pagina.html
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« Risposta #218 inserito:: Maggio 22, 2013, 05:13:30 pm »

Editoriali
22/05/2013

Renzi-Letta, amici sfidanti

Federico Geremicca


Matteo Renzi è sorpreso. Oppure simula così bene la sorpresa, da farla sembrare genuina. «Quest’idea che io vorrei una legge elettorale nuova e poi subito le elezioni - dice - è una balla. E l’altra sera, del resto, a “Porta a Porta” è stato più Della Valle che io a insistere su questo punto...».

 

Sarà certamente così: un equivoco e qualche esagerazione. Ma allora prudenza avrebbe voluto che il sindaco-ex rottamatore - capace ad ogni uscita di mandare letteralmente in fibrillazione il Pd - calibrasse meglio i toni e chiarisse quel che ci sarebbe da chiarire. E invece, ieri sera se ne è andato a Zapping (Radiouno) e ha perfino rincarato un po’ la dose: «La durata del governo - ha spiegato - non è una questione inutile come la scadenza dello yogurt. Se fa le cose, bene: se non le fa, vada a casa il prima possibile». Chiarendo, se non si fosse inteso, che «è fondamentale che il governo faccia quello che può fare nel più breve tempo possibile».

 

Già, il tempo: che in politica non è mai una variabile indipendente. E figurarsi - allora - se lo è per Renzi, in campo dalle primarie avviate a settembre (ormai fa otto mesi...) senza alzare un istante il piede dall’acceleratore. Stare sulla corda non è facile: e non lo è a maggior ragione se non sai per quanto tempo dovrai rimanerci, e sei lontano dai palazzi dove si decidono tempi e modi di quel che sarà. Un certo nervosismo, una certa ansia, è giustificata: anche perchè nella testa di Matteo Renzi vanno lentamente - ma necessariamente - a posto i pezzi del puzzle di addirittura due campagne elettorali, diversissime tra di loro.

 

«Sto lavorando come un matto, qui a Firenze», spiegava ieri in un rapido scambio di battute. «C’è ancora molto da fare e stiamo appunto cercando di farlo». Il governo - infatti - potrà durare «12, 24 o perfino 36 mesi» (come annotava a Zapping): ma la prossima primavera a Firenze si vota di sicuro, ed è un appuntamento che Renzi non può permettersi di snobbare. Ma avviare la campagna per Firenze senza sapere se per caso, all’improvviso, bisognerà invece impegnarsi nella sfida per la conquista del Paese, non è semplice. Come certe indecisioni e certi cambi di obiettivo, dimostrano a sufficienza.

 

Si era detto che avrebbe puntato alla presidenza dell’Anci; poi si è sostenuto che avrebbe avanzato la sua candidatura per la guida del Pd; infine che era tentatissimo dal provare a mandare a gambe all’aria la missione di Enrico Letta. Nulla di questo - anche se spesso avallato da Renzi stesso - è accaduto. Ed è in particolare sul rapporto con Enrico Letta ed il suo governo che il sindaco di Firenze sembra attentissimo alle critiche. «Con Enrico ci sentiamo spessissimo. Non ci sono problemi, e anzi ci daremo una mano».

 

Nell’incontro di giovedì scorso (Renzi era a Roma, Letta l’ha saputo e lo ha chiamato: «Sono a Palazzo Chigi, libero fino alle 13,30: perchè non vieni e ci facciamo due chiacchiere»?) è sostanzialmente questo che i due hanno scambiato: una mano del governo a Firenze, dove si vota; e la non belligeranza di Renzi nei confronti del governo, almeno fino al Congresso del Pd. È presumibile che i reciproci impegni siano stati assunti con assoluta lealtà: significa molto, certo, ma potrebbe significar poco - invece - col passar del tempo...

 

Pochi nel Pd hanno dimenticato quel che accadde nell’inverno del 2008 al governo Prodi, dopo la nascita del Partito democratico e con un Veltroni fresco di investitura alla guida del neonato Pd... Molti paragonano quella situazione al rapporto Letta-Renzi di oggi. Infatti, quando il governo di larghe intese avrà esaurito il suo compito, si tornerà alle urne ed è difficile immaginare un duello diverso da quello tra «Enrico» e «Matteo» per la conquista della candidatura a premier. Amici oggi, insomma, per poi diventare sfidanti domani. Se le cose andranno bene per l’esecutivo, le chance di Letta naturalmente aumenteranno. Ecco perchè, secondo i più maliziosi, Renzi non vorrebbe durasse a lungo. «Se fa le cose, bene; se non le fa, vada a casa in prima possibile», ripete il sindaco. Appunto... 

da - http://www.lastampa.it/2013/05/22/cultura/opinioni/editoriali/renzi-letta-amici-sfidanti-6KIIZxBy89jJPCjaqLCqII/pagina.html
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« Risposta #219 inserito:: Maggio 27, 2013, 05:09:41 pm »

Editoriali
27/05/2013

Record astenuti

Per il governo una prova in più

Federico Geremicca

Non sono bastati diciannove candidati a sindaco, 1.667 aspiranti consiglieri comunali, alcune altre migliaia in lizza per un seggio nei municipi ed una scheda elettorale lunga nientedimeno che un metro e venti centimetri. E i casi sono due: o nemmeno una tale, gigantesca kermesse messa in piedi per la scelta del nuovo sindaco di Roma è stata sufficiente a motivare i cittadini chiamati alle urne.

 

Oppure – e non ci sentiremmo di escluderlo – è stato proprio quest’ennesimo confuso, discutibile e dispendioso «carnevale elettorale» a contribuire a tener la gente lontana dai seggi.

 

Sia come sia, la Capitale tocca il suo record negativo di partecipazione al voto in una tornata amministrativa: solo il 37,7% all’ultima rilevazione di ieri (ore 22). Che vuol dire quasi venti punti percentuali in meno rispetto alle elezioni di cinque anni fa. E se Roma piange, non è che il resto d’Italia rida. L’affluenza alle urne è infatti precipitata praticamente ovunque attestandosi poco oltre un misero 44 per cento, il che vuol dire quasi sedici punti percentuali in meno rispetto al voto del 2008. Il dato è generalizzato. Riguarda il Nord (Brescia, Sondrio, Vicenza e Treviso registrano flessioni oltre il 20%), il Centro (Pisa -25%, Massa -16%) così come il Sud e le Isole, dove il calo è più contenuto solo perché si partiva da percentuali solitamente assai più basse. Si vedrà oggi, a operazioni di voto concluse, la reale dimensione di questa ennesima crescita dell’astensione. Ma ieri i segnali erano tutti negativi, e tra gli addetti ai lavori (politici e sondaggisti) serpeggiava un certo pessimismo.

 

La politica, dunque, si conferma malata. E la malattia non solo contagia tornate elettorali in genere meno colpite dal fenomeno (quelle amministrative) ma non è arginata nemmeno dalla presenza diffusa di liste del Movimento Cinque Stelle, che si immaginavano capaci di convogliare la disaffezione e la protesta dall’astensionismo al voto per il loro simbolo. Non è accaduto. E non basta. Per i candidati di Beppe Grillo, infatti, la vigilia non sembrava preannunciare risultati particolarmente brillanti: quasi a riprova del fatto che il movimento del comico genovese non solo non «guarisce» la cattiva politica, ma ne viene negativamente contagiato una volta che – agli occhi dei cittadini – ha con essa contatti troppo ravvicinati.

 

Sarebbe il caso che si cominciasse a tener conto sul serio (cioè mettendo in campo risposte) della crescita esponenziale del fenomeno-astensione. Occorre ci si convinca che non si è, ormai, di fronte ad una crisi passeggera – è quel che si immaginò al tempo del suo primo segnalarsi: diciamo dopo Tangentopoli – quanto ad una tendenza che pare sempre più inarrestabile. Convincersene vuol dire operare concretamente per rallentare – se non fermare – una deriva negativa e perfino pericolosa: operare varando leggi elettorali e riforme che riavvicinino il cittadino agli eletti e alle istituzioni, e accelerando sul piano del taglio ai costi della politica (mettendo da parte annunci, promesse e inutili populismi).

 

E non farebbe male lo stesso governo a raccogliere il segnale che arriva da questa sorta di diserzione di massa: il Paese non è fuori dalla crisi e non sta meglio di prima solo perché – dopo mesi di estenuanti scontri e trattative – un governo finalmente è in campo. Conta quel che fa, e come lo fa. Continuare a ripetere ad ogni tornante – che siano le sentenze per Berlusconi o il voto di sette milioni di italiani – che quel che accade «non avrà ripercussioni sul governo» non è un buon modo né per difenderlo né per aiutarne la sopravvivenza. L’esistenza in vita, il governo Letta-Alfano dovrà guadagnarlo sul campo. E la strada, onestamente, appare ancora tortuosa e in salita.

da - http://lastampa.it/2013/05/27/cultura/opinioni/editoriali/record-astenuti-per-il-governo-una-prova-in-pi-n4tJIYqaCu1f9YUq9wiJlN/pagina.html
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« Risposta #220 inserito:: Maggio 29, 2013, 06:25:09 pm »

Editoriali
29/05/2013

Il flop grillino non illuda i vecchi partiti


Federico Geremicca

Si sono fatti amare poco, e questo è fuori discussione. E il loro capo, Beppe Grillo, è il leader più detestato nella «cittadella politica».
In pochi mesi, gli insulti, lo spirito censorio e l’assoluta indisponibilità al confronto, hanno fatto del M5S un corpo estraneo rispetto al sistema politico nel quale - pure - il 24 e 25 febbraio avevano fatto irruzione.

 

Ce n’era a sufficienza, dunque, perché la prima sconfitta elettorale attirasse sul movimento critiche e commenti al vetriolo. Nulla di nuovo: chi vince irride all’avversario, chi perde si lecca le ferite. Ma dietro le reazioni sarcastiche, sembra trapelare - stavolta - un di più di eccitazione, quasi un’euforia, che pare spiegarsi - in alcuni casi - con un sentimento che va oltre la soddisfazione per la semplice sconfitta dell’avversario politico: l’idea, insomma, che per Grillo e il suo movimento sia cominciata la parabola discendente (il che, per altro, è possibile), che i «duri e puri» dello scontrino abbiano i mesi contati e che tra non molto - insomma - si potrà tornare a suonare la musica di prima. 

 

Il consenso ottenuto dal M5S e l’uso che di quel consenso è stato fatto, sono due cose diverse e meriterebbero due ragionamenti del tutto diversi.
Nulla di quanto scritto in queste prime ore può esser contestato, a proposito delle ragioni della sconfitta di Grillo: candidati poco noti, la deludente azione politica - se vogliamo chiamarla così - svolta dai parlamentari eletti, il profilo più nazionale che locale del movimento e il ruolo svolto da Grillo stesso, certo meno presente ed efficace che in occasione delle elezioni politiche. Detto tutto ciò, però, sarebbe illusorio immaginare che le ragioni alla base del consenso ottenuto solo tre mesi fa, si siano eclissate, superate da un positivo evolvere della situazione.

 

La crisi del M5S, insomma, non cancella e non toglie drammaticità ai motivi che avevano dato forza al movimento: in particolare non toglie dal campo
l’urgenza di una profonda riforma del sistema politico, del suo modo di funzionare e della modalità e quantità di risorse pubbliche che vi vengono destinate. Proprio il finanziamento ai partiti è stato - contemporaneamente - il miglior cavallo di battaglia di Grillo e l’affondo più doloroso subito dalle forze politiche tradizionali. Ma se su questo piano qualcosa si è mosso - inutile negarlo - è stato sotto l’azione pressante (e spesso sgradevole, è vero) del M5S; e se qualcosa di nuovo è accaduto anche nelle istituzioni - si pensi al profilo dei Presidenti di Camera e Senato - le ragioni vanno ricercate ancora lì: nel successo delle liste di Grillo (e qui, in fondo, è la vera differenza tra il disertare le urne ed esprimere comunque un voto, anche se di chiara protesta).

 

Lunedì, mentre venivano chiuse le urne, le agenzie di stampa battevano la notizia della condanna a 3 anni e 4 mesi per Franco Fiorito, che nella sua funzione di capogruppo Pdl alla Regione Lazio si era appropriato di più di un milione di euro dei finanziamenti destinati al suo partito: altri processi sono in arrivano e molti filoni di indagine restano aperti a conferma che anche questa emergenza (oltre alle altre che stringono il Paese) è tutt’altro che superata.

 

La cosa migliore da fare - ora che anche il Movimento Cinque Stelle è investito da una diversa ma ugualmente profonda crisi - sarebbe dunque andare avanti sulle riforme e sui tagli già annunciati dal governo, così da dimostrare che (Grillo o non Grillo) il sistema è in grado di riformarsi.
La cosa peggiore, invece, sarebbe pensare di averla scampata, tirare un sospiro di sollievo perché «quei rompiscatole hanno perso e sono finiti», e tornare all’andazzo di prima. Sarebbe un errore imperdonabile: un po’ come quel malato che continua ad avere la febbre ma butta via il termometro in modo che, non potendo misurarla, può illudersi di non averla più...


da - http://lastampa.it/2013/05/29/cultura/opinioni/editoriali/il-flop-grillino-non-illuda-i-vecchi-partiti-bgO4p8fQT4LuRGLmqxuwXK/pagina.html
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« Risposta #221 inserito:: Giugno 11, 2013, 05:41:31 pm »

Editoriali
10/06/2013

Il governo e la corsa di Matteo

Federico Geremicca


Dalle parti del centrosinistra - e del Pd, più in particolare - va ormai radicandosi (fino ad esser giunta ad un passo dall’ufficialità) una incontrollabile novità. Infatti, c’è un giovane amministratore, Matteo Renzi, che potrebbe presto porre la propria candidatura alla guida del partito sull’onda di una linea che prevede il no all’ineleggibilità di Berlusconi, è critica con le «toghe rosse», ha da ridire sul ruolo svolto dal sindacato, ritiene perfettamente normale andare a pranzo con Briatore e a cena con finanzieri più o meno discussi, è scettica verso un governo guidato da un esponente del suo stesso partito e reclama - infine - «una sinistra finalmente non decoubertiniana»: che se ne frega, cioè, delle vecchie compatibilità e delle buone maniere, perché l’importante è vincere. Punto e basta. 

 

La prima reazione, di fronte a un elenco così (ma si potrebbe continuare...) è ovvia: o il potenziale candidato ha sbagliato partito oppure sono in molti nel partito (perché gli aficionados aumentano) ad aver sbagliato candidato. In realtà, è possibile una terza ipotesi: e che cioè - pur con tutte le approssimazioni e le cose da meglio definire - la sinistra italiana stavolta si trovi davvero di fronte a quel rischio-possibilità di radicale rinnovamento che da più parti (e perfino dal suo stesso interno) è ormai da tempo invocato.

 

È una ipotesi - quest’ultima - naturalmente più difficile da liquidare con un semplice «tanto si sa che Renzi è di destra»: e certamente più impegnativa circa la valutazione degli approdi cui potrebbe portare. 

 

Ieri, incalzato dalle domande dei colleghi de «la Repubblica», il sindaco di Firenze ha chiesto a Guglielmo Epifani di fissare data e regole del Congresso Pd. E ha aggiunto: «Stavolta non mi faccio fregare: prima le regole e poi dico se mi candido». Ma che si decida a farlo oppure no, è chiaro fin da ora che il pacchetto di «provocazioni» immesso da Renzi nel dibattito precongressuale dei democratici, segnerà - e non poco - l’intera discussione: a maggior ragione per la contemporanea presenza sulla scena di un governo che ha seminato depressione e insoddisfazione nelle file Pd.

 

Ecco, il governo: che sembra essere il più esposto di fronte al possibile tsunami della candidatura (e poi dell’elezione) di Renzi alla guida del Pd. E infatti non è certo per caso che, da quando presiede il suo esecutivo di «larghe intese», Enrico Letta cerchi di curare il più possibile i rapporti con l’«amico Matteo». L’altro giorno i due sono rimasti faccia a faccia a Firenze per un paio d’ore, cercando di capire se sia possibile una qualche intesa tra un leader che è a Palazzo Chigi e ci vuole restare, ed un altro che ne è fuori e ci vuole entrare. Non è semplice: e infatti, per quanto i riflessi di una antica e comune «democristianità» abbiano aiutato a smussare gli angoli, è proprio questo quel che è emerso dall’incontro.

 

Per tanti motivi - a cominciare dalle dichiarate ambizioni di Renzi - bisogna dunque cominciare ad abituarsi all’idea che una eventuale ascesa del sindaco di Firenze alla guida del Pd porterebbe con sé (anche solo oggettivamente) rischi serissimi per la tenuta del governo. Letta lo sa, e Renzi non lo nasconde: «Questo governo - ha ripetuto ancora ieri - non aiuta il bipolarismo». Il problema è che, pur di fronte a questa eventualità, è estremamente difficile che i due possano raggiungere un’intesa capace di evitare un quasi certo scontro frontale.

 

Enrico Letta, infatti, si trova nella posizione di non poter spingersi troppo oltre nelle rassicurazioni sul futuro, essendo legato ad alleanze interne al Pd (da Bersani a Franceschini) fatta anche di leader che non intendono stender tappeti rossi per l’arrivo dell’«amico Matteo»; e Renzi, d’altra parte, non si fida: e soprattutto, è poco incline a stringer patti quando non è lui ad esser il più forte. D’altra parte, è vero che è giovane, ma ha visto e letto di troppi accordi politici stretti e poi traditi: dal patto «della staffetta» tra De Mita e Craxi (Anni 80) a quello «della crostata» tra D’Alema e Gianni Letta (Anni 90) ce ne fosse uno andato in porto...

 

Dunque, meglio le mani libere. Che è precisamente la rotta che Matteo Renzi terrà da qui fino al momento in cui saranno fissate le regole per il Congresso. E se alla fine decidesse di candidarsi, una cosa può esser certa: nel bene o nel male, nulla sarebbe più come prima. Per il Pd, certo: ma anche per lo strano governo delle «larghe intese»... 

da - http://lastampa.it/2013/06/10/cultura/opinioni/editoriali/il-governo-e-la-corsa-di-matteo-SpNb0846M35bhXCRIDZO7H/pagina.html
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« Risposta #222 inserito:: Agosto 19, 2013, 07:48:54 pm »

Editoriali
19/08/2013

Strategia di sopravvivenza

Federico Geremicca


Ben coperto sotto l’ampio ombrello protettivo di Giorgio Napolitano e con un paio di avvertimenti a quelli che ha definito i «professionisti del conflitto», Enrico Letta ha tratteggiato ieri - dalla tribuna del Meeting di Rimini - quella che potremmo definire la sua strategia per la sopravvivenza. «Gli italiani - ha pronosticato - puniranno tutti quelli che anteporranno i loro interessi personali e di parte a quelli del Paese».

 

Ma oltre tale avviso il premier non è potuto andare, essendo la situazione fuori da ogni controllo e le possibilità di intervento del governo sulla questione delle questioni (lo stato giudiziario di Silvio Berlusconi) praticamente nulle.

 

Ed è dunque affidandosi ad uno schema classico in politica (le cose buone fatte, e quelle che restano da fare) che Letta ha voluto avviare la ripresa delle attività dopo l’inesistente pausa estiva. I problemi che il governo ritrova sulla sua strada sono quelli - politici e programmatici - di due settimane fa: aggravati, naturalmente, dalla sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha di fatto messo Silvio Berlusconi in un angolo. Il premier non ha affrontato la questione nemmeno incidentalmente, limitandosi ad annotare (citando il calo dello spread) che il Paese ha alle spalle «due anni in cui un percorso doloroso si è compiuto» e che lui - Letta - non vuole «minimamente che qualcuno interrompa questo percorso di speranza».

 

Che quel cammino possa però proseguire con Silvio Berlusconi fuori dal Parlamento (e per di più incandidabile alle prossime elezioni) pare, al momento, poco più che una flebile speranza: ma è su quella speranza che il Presidente del Consiglio intende lavorare. E’ per questo che Letta chiede ai «professionisti del conflitto» - i falchi di ogni latitudine, si suppone - di abbandonare facili rendite di posizione e accompagnare il Paese verso l’uscita dalla crisi: ma il tono, inevitabilmente, è più quello di una ragionevole richiesta, piuttosto che il fermo richiamo all’ordine da parte di un premier che sa di controllare la sua maggioranza.

 

Enrico Letta, dunque, si posiziona così in attesa degli eventi: sapendo che si tratta di eventi rispetto ai quali - per ragioni diverse e numerose - le sue possibilità di intervento restano ridotte. Provvedimenti-simbolo come la rimodulazione dell’Imu o l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, vengono rinviate o restano al palo di fronte agli espliciti disaccordi nella maggioranza: una situazione di sospensione che solo la soluzione della questione delle questioni è forse in grado di sbloccare. Ma dalla sentenza della Cassazione sono ormai passate quasi tre settimane, e la situazione - piuttosto che rasserenarsi - pare farsi peggiore ogni giorno di più.

 

In un quadro di tal genere - esposto a venti che col governo dovrebbero entrarci poco o nulla: dal Congresso pd ai guai del Cavaliere, dallo scalpitare di Renzi all’agitarsi dei «duri» del Pdl - in un quadro così, dicevamo, Enrico Letta chiede da Rimini alla sua maggioranza senso di responsabilità e la predisposizione, comunque, di una «rete protettiva» nel caso tutto crolli: e il riferimento, naturalmente, è a una nuova legge elettorale (invocata da tempo dal Presidente Napolitano) giudicata dal premier «il cambiamento più urgente che ci sia» ed evocata come primo impegno per il Parlamento alla ripresa di settembre.

 

Peccato che l’urgenza di tale riforma sia urlata ai quattro venti da anni, e che quattro diversi governi (Prodi, Berlusconi, Monti e ora Letta) e altrettante differenti maggioranze non vi abbiano mai messo mano. Ora, in acque ridiventate tempestose, si torna a invocare la riscrittura di una legge per la quale gli aggettivi negativi non si contano più. Il proposito annunciato dal premier è certamente lodevole e positivo: che esso trovi concreta realizzazione, è un altro discorso. Ma se in mezzo a tanti rinvii e a tante tensioni questa fosse davvero la volta buona, non si potrebbe che esserne estremamente soddisfatti...

 da - http://lastampa.it/2013/08/19/cultura/opinioni/editoriali/strategia-di-sopravvivenza-uaIjUoisxZVjd7h7BFyqwO/pagina.html
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« Risposta #223 inserito:: Agosto 23, 2013, 11:32:23 pm »

Editoriali
21/08/2013

Resistere, l’ultima guerra del Cavaliere

Federico Geremicca


Il verbo scelto da Silvio Berlusconi per rassicurare il popolo del centrodestra intorno al suo futuro e alle sue intenzioni («Io resisto») ha un grande potere evocativo ed è foriero di una evidente suggestione: infatti, rimandando al drammatico «resistere, resistere, resistere» pronunciato da Borrelli nell’inverno di 11 anni fa, l’annuncio del Cavaliere fotografa un evidente capovolgimento delle posizioni (e dei rapporti di forza). 

 

E quasi si propone come la chiusura di un cerchio diabolico.

 

I due orgogliosi annunci di resistenza rappresentano forse i momenti più cupi e aspri di uno scontro - quello tra il centrodestra e parte della magistratura - che condiziona da ormai due decenni la vita politica italiana: una sorta di Guerra dei Vent’anni dentro la quale, però, c’è un pezzo di storia di questo Paese e la parabola di un leader che ora si scopre solitario e senza successori. Non solo. Gli effetti di questa Guerra - ed i vizi seminati - si riverberano oggi sull’«affaire Berlusconi», trasformandolo in qualcosa di diverso da quel che semplicemente è: da caso giudiziario a caso politico, con il conseguente corollario di polemiche, richieste e proposte inevitabilmente confuse e spesso non praticabili.

 

La trasformazione dei problemi giudiziari di Silvio Berlusconi in problemi «politici» - meglio ancora: in problemi della politica - è stata in questi vent’anni una costante dell’agire del centrodestra italiano. Non a caso, il «resistere, resistere, resistere» pronunciato nel gennaio del 2002 dall’allora Procuratore generale della Corte d’Appello di Milano, era appunto riferito alle annunciate nuove leggi del governo Berlusconi in materia di giustizia: leggi capaci di determinare, secondo Borrelli, il «naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo baluardo della questione morale». Scudi, legittimi impedimenti, prescrizioni e depenalizzazioni sono stati, per anni, la «via politica» (e legislativa) attraverso la quale il Cavaliere ha cercato - spesso con successo - di arginare i propri problemi giudiziari. Oggi, però, la situazione è molto diversa: e lo si capisce bene dallo smarrimento che pare caratterizzare l’azione del Pdl e del suo leader colpito.

 

La novità, come è evidente, sta nel dover fare i conti con una sentenza passata definitivamente in giudicato: e la difficoltà, giunti a questo punto, nasce dal dover prender atto di esser di fronte a una situazione che ha dell’irreversibile. Abituato a «ridurre il danno» di inchieste e processi attraverso le leggi e la politica (il complotto dei magistrati, le norme ad personam...) è di nuovo per questa via che il Cavaliere sta cercando una soluzione che gli permetta di rimanere in campo: ma la politica - e le leggi - stavolta possono aiutarlo in poco o in nulla, e il Pdl si avvita in un rosario di richieste mutevoli e confuse.

 

La grazia, la commutazione della pena, la richiesta che il Senato non voti la decadenza di Berlusconi, l’attacco alla legge-Severino (con possibile ricorso alla Corte Costituzionale), la richiesta di un nuovo intervento del Quirinale, l’arma finale della crisi di governo con la minaccia di puntare alle elezioni... Nessuno, in verità, ha ancora capito quale sia davvero la carta sulla quale il Cavaliere e il Pdl intendono scommettere: una incertezza, un disorientamento che rende ancor più confusa - e dunque meno governabile - la situazione.

 

«Resistere, resistere, resistere», incitò undici anni fa Francesco Saverio Borrelli, da sempre considerato da Berlusconi il «nemico numero uno», il capo indiscusso del «partito dei giudici», il leader carismatico delle «toghe rosse». «Io resisto! Non mollo», contrattacca oggi il Cavaliere. In mezzo, undici anni di guerra senza quartiere, undici anni che hanno prodotto cumuli di macerie politiche e giuridiche. Potrebbe anche bastare, per un Paese esausto e incattivito. Ma la parola fine, invece, pare non dover arrivare mai...

da - http://lastampa.it/2013/08/21/cultura/opinioni/editoriali/resistere-lultima-guerra-del-cavaliere-onpJEPEps7eqGrI6louccK/pagina.html
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« Risposta #224 inserito:: Settembre 03, 2013, 09:26:59 am »

Editoriali
21/08/2013

Resistere, l’ultima guerra del Cavaliere

Federico Geremicca


Il verbo scelto da Silvio Berlusconi per rassicurare il popolo del centrodestra intorno al suo futuro e alle sue intenzioni («Io resisto») ha un grande potere evocativo ed è foriero di una evidente suggestione: infatti, rimandando al drammatico «resistere, resistere, resistere» pronunciato da Borrelli nell’inverno di 11 anni fa, l’annuncio del Cavaliere fotografa un evidente capovolgimento delle posizioni (e dei rapporti di forza). 

 

E quasi si propone come la chiusura di un cerchio diabolico.

 

I due orgogliosi annunci di resistenza rappresentano forse i momenti più cupi e aspri di uno scontro - quello tra il centrodestra e parte della magistratura - che condiziona da ormai due decenni la vita politica italiana: una sorta di Guerra dei Vent’anni dentro la quale, però, c’è un pezzo di storia di questo Paese e la parabola di un leader che ora si scopre solitario e senza successori. Non solo. Gli effetti di questa Guerra - ed i vizi seminati - si riverberano oggi sull’«affaire Berlusconi», trasformandolo in qualcosa di diverso da quel che semplicemente è: da caso giudiziario a caso politico, con il conseguente corollario di polemiche, richieste e proposte inevitabilmente confuse e spesso non praticabili.

 

La trasformazione dei problemi giudiziari di Silvio Berlusconi in problemi «politici» - meglio ancora: in problemi della politica - è stata in questi vent’anni una costante dell’agire del centrodestra italiano. Non a caso, il «resistere, resistere, resistere» pronunciato nel gennaio del 2002 dall’allora Procuratore generale della Corte d’Appello di Milano, era appunto riferito alle annunciate nuove leggi del governo Berlusconi in materia di giustizia: leggi capaci di determinare, secondo Borrelli, il «naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo baluardo della questione morale». Scudi, legittimi impedimenti, prescrizioni e depenalizzazioni sono stati, per anni, la «via politica» (e legislativa) attraverso la quale il Cavaliere ha cercato - spesso con successo - di arginare i propri problemi giudiziari. Oggi, però, la situazione è molto diversa: e lo si capisce bene dallo smarrimento che pare caratterizzare l’azione del Pdl e del suo leader colpito.

 

La novità, come è evidente, sta nel dover fare i conti con una sentenza passata definitivamente in giudicato: e la difficoltà, giunti a questo punto, nasce dal dover prender atto di esser di fronte a una situazione che ha dell’irreversibile. Abituato a «ridurre il danno» di inchieste e processi attraverso le leggi e la politica (il complotto dei magistrati, le norme ad personam...) è di nuovo per questa via che il Cavaliere sta cercando una soluzione che gli permetta di rimanere in campo: ma la politica - e le leggi - stavolta possono aiutarlo in poco o in nulla, e il Pdl si avvita in un rosario di richieste mutevoli e confuse.

 

La grazia, la commutazione della pena, la richiesta che il Senato non voti la decadenza di Berlusconi, l’attacco alla legge-Severino (con possibile ricorso alla Corte Costituzionale), la richiesta di un nuovo intervento del Quirinale, l’arma finale della crisi di governo con la minaccia di puntare alle elezioni... Nessuno, in verità, ha ancora capito quale sia davvero la carta sulla quale il Cavaliere e il Pdl intendono scommettere: una incertezza, un disorientamento che rende ancor più confusa - e dunque meno governabile - la situazione.

 

«Resistere, resistere, resistere», incitò undici anni fa Francesco Saverio Borrelli, da sempre considerato da Berlusconi il «nemico numero uno», il capo indiscusso del «partito dei giudici», il leader carismatico delle «toghe rosse». «Io resisto! Non mollo», contrattacca oggi il Cavaliere. In mezzo, undici anni di guerra senza quartiere, undici anni che hanno prodotto cumuli di macerie politiche e giuridiche. Potrebbe anche bastare, per un Paese esausto e incattivito. Ma la parola fine, invece, pare non dover arrivare mai...

da - http://www.lastampa.it/2013/08/21/cultura/opinioni/editoriali/resistere-lultima-guerra-del-cavaliere-onpJEPEps7eqGrI6louccK/pagina.html
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