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Autore Discussione: FEDERICO GEREMICCA -  (Letto 158083 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Marzo 26, 2011, 12:08:43 pm »

26/3/2011

Sulla pelle di Lampedusa

FEDERICO GEREMICCA

Fotogrammi che fanno il giro del mondo. Immortalano centinaia di uomini accampati con tende e fuochi su una collina come fossero apaches; fermano l’immagine di decine e decine di ragazzini tunisini che dormono per terra avvolti in giacche a vento e teli.

Fotografano l’isola di Lampedusa ridotta a pattumiera, migliaia di buste di plastica portate via dal vento, puzza ed escrementi ovunque, l’odore acre della creolina nei luoghi pubblici trasformati in dormitori. Tv francesi, tedesche, americane, canadesi... I cameramen si fregano le mani: come per Napoli e la monnezza. Non è una gran figura, a volerla dire con qualche ottimismo. E nei tinelli e nei salotti di Lione o di Los Angeles qualcuno, certo, si starà chiedendo com’è possibile che un civilissimo Paese occidentale, la settima od ottava potenza del mondo, una comunità di sessanta milioni di persone, insomma, non riesca ad accogliere (in maniera cristiana, verrebbe da dire...) poche migliaia di migranti. Se lo chiedono in mezza Europa. E forse sarebbe ora di cominciare a chiederselo anche da noi.

Dopo settimane e settimane di fatica e di obbedienza, se lo è chiesto - per esempio - Dino De Rubeis, sindaco dell’isola. E si è risposto. «Contro di noi c’è una strategia malefica», dice alla fine di una burrascosa assemblea con le mamme di Lampedusa: che si conclude con la decisione di chiudere a tempo indeterminato tutte le scuole dell’isola. «La tragedia di Lampedusa - continua - più grande è e meglio è. Serve a chiedere i soldi all’Europa. E magari a prendere un poco di voti al Nord perché, potranno dire, vedete che i tunisini li teniamo tutti a Lampedusa e al Sud?».

Di fronte a quel che accade qui ormai da settimane - i grovigli umani, i ragazzini tunisini con gli occhi sbarrati, la sporcizia, i rischi di infezione - e considerato il Paese in cui questo accade, non ci sono che due possibilità: o quel Paese è in mano a un governo di uomini inetti, oppure a un governo di cinici politicanti. Il sindaco di Lampedusa opta per la seconda delle due possibilità. Ed è difficile dargli torto. La tesi è: c’è una drammatizzazione dell’emergenza, un tanto peggio tanto meglio dal quale trarre tragica forza nel contenzioso con l’Europa e magari anche qualche vantaggio interno, sfruttando le immagini infernali di Lampedusa per passare alla linea dura, rimpatri, respingimenti e indiscriminate dichiarazioni di clandestinità. Solo che questa «strategia malefica» del tanto peggio tanto meglio - difficile da contestare di fronte a quel che si vede qui - si gioca tutta intera sulla pelle di Lampedusa. Che ieri, infatti, ha vissuto tre rivolte. Quella del pane, quella delle mamme e quella dei ragazzini arrivati dalla Tunisia.

La prima è divampata alle due del pomeriggio, quando sulla banchina della stazione marittima è arrivato il camion con il cibo per i migranti: pareva uno dei mezzi della nettezza urbana e aveva due ore di ritardo. Momenti di tensione, cibo rifiutato, urla, centinaia di tunisini che vengono giù dalla collina su cui sono accampati. Tre ore prima era stata la volta delle mamme: se vogliono la tragedia allora noi di tragedie ne vogliamo due, e poi vediamo che succede. Non intendono più mandare i bambini a scuola per le condizioni igieniche dell’isola e perché hanno paura. Propongono: chiudiamo le scuole, drammatizziamo. Il sindaco accetta. E poco dopo, tocca ai ragazzini tunisini stipati nei tre stanzoni dei locali puzzolenti della riserva marina: rifiutano il cibo perché è indecente. Guardiamo in una delle buste: fagioli bolliti di un colore indefinibile. Uno dei ragazzini si taglia le vene dei polsi perché non vuole più stare qui: è soccorso e medicato.

Nei bar dell’isola le tv trasmettono le immagini dei ministri Maroni e Frattini volati in Tunisia per cercare di convincere le nuove autorità di quel Paese ad arginare le partenze via mare. Stringono un accordo, sperano che sia rispettato: ma non si capisce quanto ci credano. Il fatto, forse, è che non si può puntare sempre sulla politica del piattino in mano: chiedere all’Europa che gli immigrati siano equamente spartiti tra i Paesi membri, e sentirsi rispondere - ovviamente - che una cosa così non si è mai vista; chiedere ai tunisini - che hanno ben altri problemi, a cominciare dalla pressione alle frontiere di terra - di fermare le partenze, sentendosi rispondere forse, e sapendo che per le autorità di quel Paese più gente va via e meglio è. Bisognerebbe metterci del proprio. Come ha tentato di fare ieri la nave San Marco.

Tonnellate di acciaio arrivate alle nove della mattina per portar via 500 migranti: e rimaste lì, alla fonda, fino a sera (e i tunisini, naturalmente, sulla banchina prima al sole e poi al freddo). Dal Viminale non sapevano dirle verso quale porto fare rotta. Tutti i centri di accoglienza sarebbero pieni. Alle sette della sera, infine, l’ordine: imbarcateli e portateli a Taranto. Tutti in una tendopoli dalle parti di Manduria. Che non sarà la Sicilia, certo, ma sempre Sud è...

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« Risposta #136 inserito:: Marzo 28, 2011, 04:55:13 pm »

Cronache

28/03/2011 - REPORTAGE

Altri mille profughi E l’Italia alza le mani di fronte all’emergenza

Dalla costa del Paese di Gheddafi ora c'è da attendersi un fiume ininterrotto di nuovi arrivi

Nulla chiude "il rubinetto libico" che porta i migranti sull’isola

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A LAMPEDUSA

Quasi un migliaio in 24 ore, e altri, molti altri in arrivo. Il primo barcone giunto l’altra notte - quello sul quale una donna eritrea ha messo al mondo un bambino bello e fortunato - era dunque solo l’avanguadia: il «rubinetto libico» è stato dunque aperto, e dalla coste del Paese di Gheddafi ora c'è da attendersi un fiume ininterrotto di nuovi arrivi. Il ministro Roberto Maroni lo aveva detto alcune settimane fa: 50mila, 100mila, 200mila, sarà un’invasione. Ma per fronteggiare l’ondata di etiopi, eritrei, sudanesi e ghanesi in arrivo dalla Libia, non si è trovato di meglio che continuare in una mortificante politica dello scaricabarile: l’Europa scarica sull’Italia, l'Italia scarica su Lampedusa e Lampedusa, da ieri, scarica su Linosa - poco più che uno scoglio in mezzo al mare - cui toccherà ospitare il flusso libico.

Non che tutto questo significhi, purtroppo, che - contemporaneamente - si siano fermati gli sbarchi dei migranti tunisini. Ieri, in poche ore, sono giunti sull’isola altri 500 fuggiaschi. E a sera era atteso a Lampedusa un altro barcone dal carico macabro. Su un’isola che ha imparato a soprannominare zone e personaggi di questa interminabile tragedia - la «collina della vergogna», il «centro dei disperati», la «base di donne e bambini» - il barcone è subito diventato la «barca della morte»: a bordo, infatti, vi sono i cadaveri di due migranti deceduti durante la traversata. Magari anche la piccolissima Linosa meriterà un qualche soprannome: ieri, infatti, una donna eritrea ha dato alla luce un bambino morto per scarsa assistenza un paio di ore dopo.

Si fa fatica a scriverlo: ma di fronte a quanto accade l’Italia sembra un Paese con le mani alzate, una nazione civile e sviluppata arresasi di fronte all’annunciata emergenza, un governo che va a tentoni, cambia strategia ogni 24 ore e sforna idee balzane con stupefacente continuità. Ieri è toccato al presidente siciliano, Lombardo, venire finalmente qui a dire la sua: «Perché non pensare a traghetti e navi da crociera qui, davanti all’isola, per ospitare i migranti e alleggerire la morsa su Lampedusa?». E perché, allora, non requisire alberghi e case private? Oppure pensare ai treni in disuso? La sensazione - che qui è assai più che un’ipotesi - è che si proceda a fari spenti. Nulla ci sarebbe da dire di difficoltà di fronte ad eventi improvvisi e imprevisti: ma è due mesi che sull’Isola si va avanti così e la gente è stufa di sentire ogni volta una storiella diversa.

Diciamo, allora, della contabilità: che può sembrare una faccenda burocratica ed è - invece - il miglior termometro della situazione. Tra aerei (tre voli speciali) e navi (un traghetto della Grimaldi) ieri hanno lasciato Lampedusa - diretti in Sicilia e in Puglia - quasi 1.100 emigrati tunisini. Cinquecento tra eritrei, ghanesi ed etiopi sono stati portati via da Linosa con la «Palladium», la nave che collega Lampedusa ad Agrigento. Tanti vanno via ma tanti altri - spesso di più - arrivano. Ieri all’alba Antonino Grimaudo, comandante di un peschereccio di Mazara, ha soccorso 300 fuggiaschi provenienti dalla Libia e poi dato l’allarme alla Capitaneria di Lampedusa: «Erano stremati - dice - bevevano acqua di mare. A bordo la grande maggioranza era composta da donne».

Il rumore degli elicotteri in perlustrazione e degli aerei da ricognizione scandisce le ore delle giornate lampedusane e spesso si confonde con il sibilo dei caccia da guerra che sorvolano l’isola. Non c'è corpo - dai Carabinieri alla Guardia di Finanza, dalla Capitaneria di porto alla Polizia - che non abbia a Lampedusa propri uomini ormai disintegrati da una fatica che non ammette soste. Nemmeno di notte. Dice Laura Boldrini, portavoce dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati politici: «Non c’è nulla di quanto sta accadendo che non fosse in qualche modo prevedibile. Del possibile arrivo dalla Libia di una marea di profughi aveva parlato il nostro stesso governo settimane fa. Si è evocata la parola invasione: e dalle notizie che noi abbiamo, il momento potrebbe essere arrivato. Solo che ci siamo fatti trovare impreparati. E invece il modello Lampedusa deve riprendere a funzionare a pieno ritmo: qui accoglienza, identificazione e poi via tutti verso altri centri in Italia. Con l’avvio del flusso dalla Libia, l'isola non può restare occupata da migliaia di tunisini».

E invece così è. Nessuna delle iniziative propagandate è al momento a regime: non lo sbandierato centro di Mineo, non il piano concordato tra governo e regioni italiane. E sull’altare di questa inefficienza, Lampedusa continua a pagare un prezzo altissimo. L'avvio della stagione turistica, previsto per Pasqua, è già certamente compromesso; e sulla stagione estiva, nessuno è disposto a scommettere una lira. Le immagini dell’isola fanno il giro d’Italia e del mondo: sporcizia ovunque, tunisini che dormono in grotte, dentro a barche e sulle spiagge. Buste di plastica che il vento ha seminato ovunque o affondato in mare. Difficile immaginare che a qualcuno possa saltare in testa di venire a trascorrere le vacanze in un inferno così...

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« Risposta #137 inserito:: Marzo 31, 2011, 06:05:04 pm »

Politica

31/03/2011 - UN SOGNO AD OCCHI APERTI

"Speriamo che ci aiuti, vogliamo diventare come la Sardegna"

Promesse: Rimboschimento, campo da golf, esenzioni fiscali, casinò e nuova scuola.

Prima di ripartire incontro con le mamme e gli albergatori

In serata lo choc: affonda barcone, per i superstiti ci sono 11 morti

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A LAMPEDUSA

Alla fine di questa giornata che ha trasformato l’Isola in una specie di Disneyland - con casinò, case colorate, nuove scuole e niente tasse per tutti - alla fine di questo sogno ad occhi aperti, i lampedusani dicono che l’unica buona notizia, in verità, è che «Berlusconi s’è comprato una villa qua». L’ha vista su Internet, nella notte tra martedì e mercoledì, e l’ha presa senza nemmeno visitarla. Un milione e mezzo di euro, pare. Quasi completamente abusiva, pare. «Ma se l’ha comprata - dice Antonio, il titolare di uno dei più noti albergo-ristorante dell’isola - magari si occuperà davvero di questo posto. Come ha fatto in Sardegna...».

Ma questa è la fine, la considerazione conclusiva di una giornata tesa e nervosa, che l'isola ha vissuto con sentimenti contrastanti (applaudire o fischiare? Credere o non credere?) e Berlusconi al solito modo suo: aneddoti e battute, ironie e stilettate. Come fosse a Roma: mentre invece era circondato da 12 mila disperati - per metà tunisini e per metà lampedusani - che da cinquanta giorni vivono in una puzzolente pattumiera. «Svuoteremo quest’isola in 48-60 ore» ha annunciato subito, parlando da una gradinata davanti al Comune, dopo che il sindaco di Lampedusa aveva tentato di arginare le contestazioni. «E basta con quei minchia di striscioni, con i razzetti e le botte: è il momento di ascoltare, non di contestare, altrimenti chiudo tutto e me ne vado a casa».

E ascoltare Berlusconi è stato un piacere, come sempre. Perché non solo ha annunciato il «piano di liberazione» di Lampedusa (sei navi, ma a ieri erano solo tre, per trasferire altrove tutti gli immigrati) ma ha spinto l’acceleratore sul futuro dell’isola: che lui vorrebbe diventasse come Portofino. «Sorvolandola ho visto un certo degrado del verde e dei colori - ha detto parlando davanti al Comune, tra il governatore Lombardo e il sindaco di Lampedusa -. Interverremo anche su questo». Naturalmente qui si pensa che sarebbe meglio intervenire prima per riportare l'isola in una situazione da Paese occidentale: «Ma come si fa a fischiarlo - dice l'ex sindaco Martello - quando promette gasolio gratis per i pescatori, programmi su Rai e Mediaset per rilanciare l’immagine di Lampedusa, la creazione di una zona franca, la costruzione di fogne e la sistemazione di tutte le strade?».

L'elenco delle cose promesse agli isolani - al di là del «piano di liberazione» - è impressionante, perfino eccessivo, visto che qui chiedevano solo di poter tornare a camminare per le strade in sicurezza e senza rischiare infezioni e malattie. Proviamo a riassumere, ma qualcosa certo ci sfuggirà: rimboschimento, ritinteggiatura delle case, un casinò, un campo da golf, esenzioni fiscali, bancarie (mutui) e previdenziali, l’istituzione di una zona franca, una semplificazione di ogni procedura detta «burocrazia zero», gasolio a prezzi ridotti per i pescatori e perfino gratis per i primi giorni, una nuova scuola, fogne ovunque, il potenziamento dell'ospedale che è semichiuso, programmi tv per pubblicizzare l’isola nel mondo. E dulcis in fundo: «Visto quello che ha sopportato, il governo candiderà Lampedusa al premio Nobel per la pace...». Addirittura.

I lampedusani che stavano ad ascoltarlo si sono stropicciati gli occhi. Qualcuno ha abbozzato un sorrisetto ironico. Lo stesso presidente del Consiglio deve aver avuto il sospetto di aver esagerato, e allora ha detto: «Ieri notte mi chiedevo: come fare affinché mi credano? E allora ho pensato: mi compro una casa a Lampedusa, divento isolano anch’io. Sono andato su Internet, ne ho trovato una bellissima e l'ho presa. E vi dico questo: la casa è qui e se non manterrò le promesse, siete autorizzati ad imbrattarla». Berlusconi è andato a vederla subito dopo aver fatto un rapido giro (in auto e con i finestrini chiusi) sulla banchina del porto e vicino alla maleodorante «collina della vergogna», dove migliaia di tunisini sopravvivono da settimane accampati in tende di stracci e plastica come una tribù indiana.

Nel pomeriggio, prima di ripartire, ha incontrato nei locali del Comando dell'aviazione militare, rappresentanti delle Ong presenti sull’isola, il comitato delle mamme in lotta e gli albergatori. A tutti, senza peli sulla lingua, ha ripetuto che l’isola è brutta e ridotta in condizioni da far pena. Qui molti, in verità, se ne erano già accorti. La conferenza (assai veloce: il premier era atteso a Roma per una festa a Villa Miani in onore del governatore Polverini) gli ha dato l’occasione di maltrattare un paio di giornalisti che si erano permessi di chiedere se, per caso, questa tournée sull’isola non servisse a distogliere l’attenzione dalle polemiche sul processo breve. Apriti cielo, naturalmente.

Silvio Berlusconi è volato via - seguito dal governatore siciliano, onestamente perplesso - poco dopo le sei del pomeriggio. Agli isolani e ai giornalisti è toccato tornare con i piedi per terra. L'isola era uguale a prima. Via Roma piena di tunisini; la «collina della vergogna» sempre lì; e sempre lì anche le navi per portar via gli immigrati, ancora vuote in rada. Le prime operazioni di imbarco sono cominciate a tarda sera. Bisogna accelerare, perché 48-60 ore non sono poi tante. In più, a sera fatta, una motovedetta della Capitaneria entrava in porto con sei nuovi clandestini a bordo. Solo sei, ma sul gommone, raccontano, erano partiti in diciassette. Undici sarebbero morti in mare: tra loro c’era un bambino. Lampedusa si rimbocca le maniche e ricomincia a piangere.

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« Risposta #138 inserito:: Aprile 10, 2011, 04:42:10 pm »

Politica

10/04/2011 - REPORTAGE

Il Cavaliere soddisfatto festa al bar con i cannoli

"L'isola è svuotata".

Resta la candidatura al Nobel, saltano casinò e campi da golf

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A LAMPEDUSA

Un cannolo. Un po’ di paste di mandorla. E un tè caldo, nonostante il sole già arroventato. Sono le tre e mezza del pomeriggio, e Silvio Berlusconi se ne sta tranquillamente seduto a un tavolino del bar dell’Amicizia, il più frequentato dell’isola. Certo, deve sorbirsi la recita dell’ennesima poesia («Il vento e la zappa») del vecchio don Pino, proprietario del locale. Ma l’umore è buono: e poi ha potuto appena fare i complimenti a Giorgia, una delle bariste, che - capelli biondi e occhi azzurri - è stata per settimane l’attrazione di centinaia di migranti tunisini. Al tavolo con lui, tra Prefetti e comandanti di ogni arma, anche la bella Gabriella Giammanco, deputata pdl, forse sull’isola in missione di piacere.

Del resto, la visita è stata un piacere anche per il presidente del Consiglio, tornato sull’isola e fiero di poter registrare che la più importante delle promesse fatte ai lampedusani nel suo viaggio precedente, sia stata mantenuta: tunisini in giro non se ne vedono più, gli ultimi arrivati - assieme a oltre 500 migranti del centro Africa provenienti dalla Libia - sono stati sistemati tra il centro di identificazione e la base Loran e sono già in via di trasferimento. Dopo quasi due mesi di emergenza acutissima - con migranti, donne e bambini stipati praticamente ovunque o a zonzo per le strade di Lampedusa - l’isola insomma è svuotata: e Berlusconi incassa, orgoglioso, il risultato ottenuto.

Che in una settimana si sia riusciti a fare quel che non si era fatto nei due mesi precedenti può, naturalmente, prestarsi a critiche e malizie di ogni sorta. Ma più che impegnarsi in obiezioni retrospettive, conviene - forse guardare avanti: a quel che sarà, o a quel che potrebbe essere. Un po’ come accadde al tempo della monnezza di Napoli, infatti, anche qui a Lampedusa non è mai stata in discussione la possibilità tecnica, la capacità, di portar via dall’isola quattro o cinquemila migranti: il punto, a Napoli come qui, è sempre stato il dopo. Va bene, possiamo togliere la monnezza dalle strade o i tunisini da Lampedusa, ma poi dove li mettiamo? A Napoli si è punto e a capo precisamente perché il problema era e resta lo smaltimento dei rifiuti e il fatto che nessuno vuole nuove discariche o inceneritori; a Lampedusa, con i migranti, potrebbe accadere lo stesso, considerata la ritrosia delle Regioni ad accoglierli, l’assoluta indisponibilità di molti altri Paesi europei e il fatto che gli sbarchi siano ripresi appena il mare è tornato navigabile.

Silvio Berlusconi pare assolutamente consapevole del rischio, tanto che la conferenza stampa che ha tenuto nei locali della base dell’Aviazione militare non avuto i toni trionfalistici che pure era lecito attendersi. Il premier, anzi, non ha nascosto nessuna delle difficoltà sul tappeto: la posizione di Francia e Germania, il braccio di ferro con le Regioni, la difficoltà delle autorità tunisine a rispettare i patti sottoscritti e - soprattutto - il fatto che la guerra in Libia potrebbe davvero riversare nel nostro Paese (e a Lampedusa prima di tutto) decine e decine di fuggiaschi in cerca di asilo politico... Per ora, comunque, Berlusconi registra il successo della prima fase: «Il piano di liberazione di Lampedusa ha trovato attuazione», dice. Il resto verrà: la candidatura al Nobel, gli spot per il rilancio turistico dell’isola, gli accordi con l’Eni per il prezzo del gasolio, la defiscalizzazione di alcune attività, la zona franca (non ha più parlato, però, di casinò e campi da golf...).

Si vedrà. Per intanto ieri il premier ha deciso di dare un’occhiata un po’ più approfondita all’Isola. E’ tornato sulla collina della vergogna, quasi del tutto ripulita, ha girato in auto per le vie del centro, ma soprattutto si è fatto portare sul pianoro dal quale osservare la spiaggia dell’Isola dei conigli e la baia della Tabaccara. Naturalmente, essendo sempre senza soluzione il piccolo giallo della villa che il premier intenderebbe comprare qui a Lampedusa (ieri ha mostrato un contratto d’acquisto per «Villa Due palme», subordinato però ad alcune severe clausole) tra i giornalisti si è subito diffusa l’idea che Berlusconi fosse sceso sulla spiaggia dei conigli per vedere la famosa casa di Domenico Modugno (da qualche anni di proprietà di Valerio Baldini, alto dirigente di Mediolanum). Il premier non ha confermato questa ipotesi, però...

Però ad accoglierlo per la breve visita all’Isola dei conigli è stata Giusy Nicolini, direttrice della riserva naturale che comprende la piccola isola. Racconta: «Il presidente ha cominciato a parlare subito della villa. Che Baldini lo ha invitato più volte, che lui non è mai riuscito a venirci, che il posto è meraviglioso e che la casa anche... Ci si può arrivare via mare? mi ha chiesto. E d’estate quanta gente ci viene in spiaggia? E si può scendere fin giù con l’auto...? Insomma, un cortese interrogatorio. Se vuole comprarla non lo so - conclude Giusy Nicolini -. Che gli sia piaciuta da morire, invece, è sicuro. Del resto, sa, non è certo l’unico...».

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« Risposta #139 inserito:: Aprile 19, 2011, 04:52:09 pm »

Politica

19/04/2011 - GIUSTIZIA- RETROSCENA

Il silenzio del premier spinge il Colle ad intervenire

Il Presidente ha aspettato invano per tre giorni una presa di distanza del Cavaliere

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Ha aspettato un giorno, poi due, poi tre. Ha sperato fino all’ultimo che, dopo la dissociazione di questo o quell’esponente della maggioranza di governo, «l’ignobile provocazione del manifesto affisso nei giorni scorsi a Milano» (parole del Quirinale) venisse finalmente stigmatizzata dallo stesso presidente del Consiglio. Alla fine, quando ha avuto chiaro che questo non sarebbe accaduto, la decisione: e stavolta non una nota di critica per i toni e i modi, non un generico invito alla moderazione e nemmeno un messaggio alle Camere oppure al Paese. Piuttosto, il passo più istituzionale possibile, un’iniziativa che coinvolgerà e rappresenterà tutte le istituzioni: comprese quelle che mai avrebbero voluto che il prossimo Giorno della Memoria (9 maggio) venisse dedicato alle vittime del terrorismo, magistrati in testa a tutti.

Attesa da molti e temuta da altrettanti, ecco - dunque - la mossa del Quirinale. Che il Capo dello Stato intervenisse di fronte all’ormai incontrollabile escalation polemica in materia di giustizia era inevitabile: più difficile - piuttosto - era scegliere modi e toni capaci di evitare che a scontro si aggiungesse scontro, con tutto quel che avrebbe potuto seguirne. Di qui la decisione di non scegliere la via dell’ennesimo richiamo esplicitamente diretto al capo del governo, a vantaggio di un’iniziativa dal profilo inequivocabilmente istituzionale: il Giorno della Memoria - celebrazione voluta tre anni fa proprio da Giorgio Napolitano - ricorderà i magistrati assassinati dal terrorismo. Già, proprio quei magistrati definiti brigatisti nell’«ignobile manifesto» milanese e pesantemente attaccati come «eversori» dallo stesso presidente del Consiglio (che non ha avuto remore nel parlare addirittura di «brigatismo giudiziario»).

In verità, la scelta della via da seguire non è stata semplicissima. Da una parte, infatti, era evidente la necessità di una scesa in campo del Quirinale in difesa della magistratura (dalla Corte Costituzionale fino al singolo pm) sottoposta ad attacchi di gravità crescente; dall’altra - e altrettanto evidente - vi era la necessità di non contribuire a un ulteriore surriscaldamento del clima: col rischio, addirittura, di agevolare il capo del governo in una strategia che, giorno dopo giorno, si va sempre più manifestando in tutta la sua chiarezza.

Non si tratta di una strategia inedita: l’attacco alle «toghe rosse» e l’indice puntato verso «i comunisti» sono praticamente un classico per Berlusconi alla vigilia di ogni campagna elettorale. Con l’importante voto amministrativo di maggio alle porte (Torino, Napoli, Bologna e soprattutto Milano) il leader del Pdl ha ricominciato a suonare lo stesso ed evidentemente noto spartito. Per il Quirinale, dunque, l’esigenza era doppia: difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura senza fornire altra «benzina polemica» al capo del governo, così da poter corroborare una linea tipo «sono tutti contro di me, giudici, Alta Corte, poteri forti e perfino il Presidente della Repubblica...». Il fatto che la mossa del Quirinale non potrà comunque non essere intesa anche come un richiamo severo alle più recenti sortite di Silvio Berlusconi lascia immaginare che essa non risulterà particolarmente indigesta al capo del governo. Anzi. Nonostante l’attenzione del Colle a scegliere con cura un’iniziativa (il Giorno della Memoria, appunto) che non si prestasse a letture inevitabilmente polemiche, è facile prevedere che proprio in questo senso sarà - invece - utilizzata dal presidente del Consiglio. In questo - bisogna riconoscerlo - Berlusconi continua a dimostrare una indubbia abilità tattica: tanto che per l’avversario politico la scelta, a volte, sembra essere tra il non reagire (rischiando di apparire arrendevole, se non peggio) o passare all’attacco, col rischio di enfatizzare ulteriormente ogni argomento propagandistico del Berlusconi versione campagna elettorale.

Ieri il premier ha taciuto. Nessuna replica né diretta né indiretta all’annuncio che il Quirinale intende dedicare il 9 maggio ai magistrati vittime del terrorismo. Non è escluso che qualche commento possa arrivare di qui ad allora. Ma è soprattutto un altro l’interrogativo che comincia a fare il giro dei «palazzi romani»: che farà Berlusconi il 9 maggio? Potrà partecipare a una celebrazione che suonerà oggettivamente critica nei suoi confronti? E potrà mai, al contrario, disertare una cerimonia in ricordo di magistrati che hanno dato la vita per il loro Paese? Un bel rebus. Alla cui soluzione, forse, Silvio Berlusconi ha cominciato a pensare già ieri sera...

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« Risposta #140 inserito:: Maggio 28, 2011, 11:05:53 am »

Elezioni 2011

28/05/2011 - REPORTAGE

E a Napoli per Silvio più fischi che applausi


Il Cavaliere duetta con D'Alessio, promette di non acquistare Hamsik e assicura: niente crisi anche se perdo ai ballottaggi

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A NAPOLI

È vero, sì, va bene, ha scelto Napoli: però che delusione. E infatti avete mai visto Berlusconi rinunciare al solito «bagno di folla» tra il lungomare e piazza del Plebiscito? Oppure trattenersi dal salutare la gente con tanti ciao ciao mentre l’auto sfreccia (si fa per dire, trattandosi di Napoli...) per le vie del centro città? O addirittura - inedito tra gli inediti - entrare col folto seguito all’Hotel Vesuvio dal garage, cioè dalla porta di servizio? Sì, va bene, ha scelto Napoli: ma c’è qualcosa che non va. Come se tra la sua Milano e la Napoli che sembrava sua, Silvio Berlusconi avesse scelto il male minore. Una scelta quasi obbligata, insomma, compiuta con umore nero e tradottasi, alla fine, nel disastro dell’apparizione sul palco di piazza Plebiscito, accolto con qualche applauso, molti fischi e tanti spazi vuoti. Ha duettato con Gigi D’Alessio, ha promesso che non comprerà Hamsik, ma non ha convinto del tutto la piazza.

Del resto, la situazione è quella che è: sia sul piano politico che su quello dello stato della città. Le ultimissime rilevazioni continuano a dire di un De Magistris nei panni della lepre e Gianni Lettieri - un po’ a sorpresa - in quelli dell’inseguitore. Il clima si è notevolmente appesantito nelle ultime ore: scambi di accuse grevi intorno a voti comprati e venduti, annunci di ricorso alla magistratura, il comitato elettorale di Lettieri dato alle fiamme a Santa Lucia. E questo venerdì di fine maggio s’è anche incaricato di ricordare - a chi lo avesse dimenticato nella concitazione elettorale - che impresa sarà governare Napoli da lunedì in poi: un intero quartiere, quello di Chiaia, svegliato nella notte dal tritolo col quale il racket ha fatto saltare in aria il bar Guida, nell’elegante via dei Mille; e poi la morte in ospedale, dopo giorni di agonia, del turista americano scippato in via Marina, trascinato per terra e ridotto in fin di vita: un altro ottimo spot per la città, che ormai maledice, avvertendone la macabra ironia, il vecchio motto che recita «vedi Napoli e poi muori»...

Che la situazione sia tesa e il risultato assai incerto, se non perfino compromesso, lo si avvertiva con inedita nettezza ieri nella hall del Vesuvio, dove i maggiorenti del Pdl si sono riuniti in attesa del Cavaliere. Nessuna traccia del candidato sindaco («debole», secondo la sentenza di Berlusconi), organizzazione affidata al noto e discusso Cosentino, molta meno gente del solito e una «papi girl», Francesca Pascale, prima guardata con sospetto e poi indirizzata ai piani alti dell’albergo, dov’era stata bloccata una suite per Berlusconi. L’idea che il presidente del Consiglio limitasse il suo sostegno a Lettieri ad una comparsata e a qualche battuta durante il concerto di Gigi D’Alessio, è parsa a molti un pessimo segnale. Ma questo è stato il massimo concesso alla sua Napoli da Berlusconi: uno che - ed è questo quel che preoccupa i suoi fan, quaggiù - sa bene come, dove e quanto spendersi. Il premier ha confermato di avere allo studio un provvedimento per fermare l’abbattimento delle case abusive e ha escluso una crisi anche in caso di doppia sconfitta. Ma oltre non è andato.

Del resto non può essere considerata semplicemente una smargiassata la battuta con la quale Luigi De Magistris ha salutato l’arrivo di Berlusconi in città: «E’ venuto a sostenermi. Dirà di nuovo che i napoletani sono senza cervello se votano per me e i napoletani si vendicheranno votandogli contro». Può essere. Ma può anche essere che, alla fine, la voglia di cambiamento tout court prevalga, l’alternanza appaia la scelta migliore e Luigi De Magistris perda la sua sfida: che all'inizio - va comunque detto - sembrava più una provocazione che una cosa seria. A giudicare dal clima di ieri - che vale quel che vale, naturalmente - non pareva però questa l’aria che tira in città. E perfino i «concerti contrapposti» trasmettevano questa sensazione...

Nella grande piazza Plebiscito, folla per D’Alessio e Sal da Vinci. Però «tutta gente - si sentiva dire in giro - che a votare manco ci andrà». Sul lungomare, in un clima più festoso, bandiere e giovani per Arbore, Teresa de Sio e i 99 Posse. La sfida dei concerti, insomma, l’ha vinta il centrosinistra. Magari è un segnale. Anche se i più anziani tra i sostenitori di De Magistris, incrociando le dita, ricordavano il vecchio detto «piazze piene, urne vuote». Fosse ancora davvero così, si potrebbe serenamente dire che la corsa dell’ex pm è finita ieri sera, mentre il sole calava sul lungomare...

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« Risposta #141 inserito:: Giugno 01, 2011, 06:03:48 pm »

Elezioni 2011

01/06/2011 - PERSONAGGIO

Sentimenti e rifiuti, il laboratorio politico di De Magistris

Napoli, l'ex pm: il voto mi ripaga delle amarezze del passato

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A NAPOLI

Quando uno ha per le mani una cosa che non sa ancora bene che cos’è; quando il vagheggiato «nuovo» si afferma travolgendo tutto, perfino al di là delle più ottimistiche speranze; e quando poi si deve far quadrare il cerchio tra tradizione e innovazione, e magari non si sa nemmeno da dove cominciare, ecco, quando ci si trova di fronte a tutto questo, lo si battezza «laboratorio politico», si prende tempo e poi si vedrà. Furono un «laboratorio politico» (finito come finito...) le giunte varate a Palermo da Leoluca Orlando a cavallo tra gli Anni ‘80 e ‘90; è senz’altro un «laboratorio politico» il cantiere aperto in Puglia, ormai da tempo, da Nichi Vendola; e quella del «laboratorio politico», appunto, è la via scelta per sè anche da Luigi De Magistris, il neo-sindaco a furor di popolo che ieri ha rivelato di non disprezzare, in via di principio, nemmeno l’appellativo di Masaniello... E che gli piaccia giocare al Masaniello, si è visto bene ieri, quando «’o giudice» si è presentato ai giornalisti per la sua prima, vera, distesa conferenza stampa da «padrone» della città.

Gli viene chiesto: signor sindaco, avrà rapporti con Cosentino, coordinatore regionale Pdl, sospettato di qualche contiguità con la camorra? «Per niente. Quel signore non ha cariche istituzionali. Non ho voglia di incontrarlo e non ho nessun obbligo a farlo». Teme ostruzionismi da Regione e Provincia, governate dalla destra? «Ostruzionismi? Non ho avuto segnali del genere, anzi. D’altra parte, bisogna stare attenti: il voto di Napoli è inequivoco e contiene indicazioni chiare. Chi fa politica lo ha capito e ne terrà conto anche nel suo interesse, ne sono certo...». E Berlusconi? «Devo ringraziarlo, veramente. Quello dei napoletani senza cervello se votavano me, è stato lo spot migliore della mia campagna elettorale. Gli avevo promesso una torta: la stiamo preparando. Stia tranquillo, il presidente, che gli arriverà...».

Forte sulle questioni nazionali e generali, allusivo quanto basta circa le sue ambizioni future, Luigi De Magistris non ha ancora granchè da dire sulla squadra che varerà e sulle sue priorità. «L’immondizia è la numero uno, certo. La prima delibera riguarderà la monnezza. La linea sarà quella della campagna elettorale: raccolta differenziata porta a porta, separare secco e umido, compostaggio e niente nuovo termovalorizzatore. E vedrete: convincerò il presidente della Regione a revocare il bando per costruirne uno a Napoli est». L’altra faccenda di cui occuparsi in fretta è la legalità: «C’è un problema urgente di sicurezza urbana. Non possiamo andare avanti a turisti scippati o addirittura uccisi, come l’americano di qualche giorno fa. Ho già sentito il questore. Qualche idea ce l’ho, ne parleremo...».

Essendo Napoli una bruttissima gatta da pelare ed essendo il lavoro di sindaco della città «forse l’impegno più difficile che ci sia in un momento così» (parole di Giorgio Napolitano), la postazione conquistata dal «Masaniello del Vomero» può somigliare, indifferentemente, a una splendida rampa di lancio o a un terribile patibolo. Che ha in testa De Magistris? Ha paura del fallimento o è pronto - come tanti sindaci e governatori prima di lui - a un poderoso ritorno sul palcoscenico romano? «’O giudice» non ha ancora le idee chiarissime. Quel che gli pare necessario - secondo l’abc del far politica - è però prender tempo e non spaventare nessuno. Quindi eccolo aggrapparsi al famoso «laboratorio»... «Le mie ambizioni, dite? Riuscire a mantenere gli impegni presi in campagna elettorale, governare per cinque anni e poi magari per altri cinque e non disperdere quella connessione sentimentale che si è creata con una parte così grande di questa città».

Tutto qui, signor sindaco? «Tutto qui? Mica è poco... Lunedì ho vissuto il giorno più bello della mia vita. Un giorno che mi ripaga di tante amarezze del passato». Se fosse tutto qui, perchè si è dimesso dal suo partito? «Ecco, vorrei chiarire... Io ero il responsabile del settore giustizia dell’Idv, e certo non è incarico cui posso ancora assolvere. Ma con Di Pietro, checchè se ne dica, i rapporti erano buoni prima e sono buoni adesso, solo che...». Solo che? «Niente. Ma io voglio lavorare a questo laboratorio politico che è diventata Napoli. Qui può nascere un nuovo centrosinistra, ne sono sicuro. Ma il mio impegno e la mia ambizione sono restare qua: lo dico davanti a tutti così che sia chiaro a tutti».

Il «Masaniello del Vomero», dunque, conosce e sa usare anche le parole della prudenza: faccenda che forse completa il profilo di un amministratore ormai leader politico e della quale converrà tener conto. L’uomo che i napoletani hanno scelto come «padrone» - alla stessa maniera e con lo stesso plebiscitario consenso che fu riservato ad Achille Lauro prima e a Valenzi e Bassolino poi - non è insomma liquidabile alla maniera di un becero giustizialista punto e basta. Può crescere e riservare sorprese, come accadde ai tempi del «governatore con l’orecchino» (Vendola) o più recentemente del «sindaco rottamatore» (Renzi). Ma non deve sottovalutare che inferno è Napoli: una città che, storicamente, prima ti porta in trionfo e ti incorona la testa; ma poi, alcune volte, quella testa te la taglia...

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« Risposta #142 inserito:: Giugno 04, 2011, 04:34:20 pm »

4/6/2011

Primarie, un mito riabilitato


FEDERICO GEREMICCA

Come talvolta accade di fronte a certi annunci di Silvio Berlusconi, la tentazione (purtroppo dettata dall’esperienza) sarebbe quella di non prendere il premier troppo sul serio. Un riflesso simile è scattato anche ieri, di fronte all’affermazione del presidente del Consiglio di «non esser contrario», a certe condizioni, all’uso delle primarie per eleggere i dirigenti del suo partito, il Pdl. Lo scetticismo - nel caso in questione non è dettato da riserve pregiudiziali, ma dalla circostanza che lo stesso premier, appena un paio di giorni prima, aveva nominato il nuovo segretario del partito (Angelino Alfano) nel chiuso di una delle sue stanze di Palazzo Grazioli: e non pare, stando alle cronache, dopo un confronto particolarmente animato e magari concluso da un voto...

Fatta questa premessa, però, la novità potrebbe essere di quelle davvero rilevanti: e segna, comunque, la «rivincita» di uno strumento - le primarie, appunto - spesso bistrattato e caricato di colpe e responsabilità certo non sue. La consultazione di iscritti e militanti - storicamente a esclusivo appannaggio del centrosinistra - è stata infatti fin qui giudicata più per il verdetto finale di volta in volta sancito, che per i meccanismi e i processi, oggettivamente positivi, messi in moto: partecipazione dei cittadini a scelte importanti, riavvicinamento degli elettori ai loro partiti, maggior autonomia e autorevolezza per i prescelti con voto popolare. Tutti fattori dei quali la democrazia italiana (alle prese con un progressivo aumento delle astensioni dalle urne) mostra di aver bisogno come dell’aria.

E invece, fin qui, si è di volta in volta ironizzato (sia da destra che da sinistra) su «primarie finte» o plebiscitarie, su «primarie-suicidio» per il Pd, su «primarie-scandalo» quando la consultazione (è il recentissimo caso di Napoli) è degenerata in brogli veri o presunti e denunce alla magistratura. Raramente è parso opportuno - invece - soffermarsi sulla lungimiranza dei cittadinielettori, riconoscendo loro almeno parte del merito di scelte vincenti (si pensi ai casi di Milano e a Cagliari) che i partiti difficilmente sarebbero stati in condizione di compiere. Il risultato di questo «tiro incrociato» è stata, com’era inevitabile, la messa in discussione tout court delle primarie: strumento, però, largamente rilegittimato dalle ultime elezioni amministrative e dalla inattesa scelta di campo di Silvio Berlusconi.

Il presidente del Consiglio, come si annotava, si è limitato a sostenere di non esser contrario (a condizione che siano ben regolamentate) a primarie che riguardino la scelta dei dirigenti di partito: ma è evidente - e il Pd ne sa qualcosa - che una volta imboccata quella via è poi difficile spiegare perché vadano individuati attraverso consultazioni popolari i segretari di partito e non - invece - i sindaci o i candidati a qualunque carica istituzionale elettiva. Che Berlusconi abbia comunque aperto all’uso di questo strumento anche da parte del centrodestra - sia pur con i limiti che dicevamo - è senz’altro una significativa novità. Della quale, però, si potrebbero forse discutere i tempi.

Le primarie, infatti, per quanto si possa tentare di adattarle alle diverse convenienze e situazioni (primarie di partito o di coalizione) restano uno strumento classicamente funzionale a sistemi politici bipolari, se non addirittura bipartitici (valga per tutti l’abusatissimo esempio americano). Ora la domanda è: è questa la direzione verso cui marciano i comportamenti elettorali degli italiani e i progetti di alcuni tra gli stessi partiti di centrodestra e centrosinistra? Con tutto il gran parlare che si fa di crisi del bipolarismo e di una nuova legge elettorale proporzionale che accantoni per sempre la «sbornia maggioritaria» degli ultimi tre lustri, che utilità (e che destino) potranno avere le primarie? Lo si vedrà, e forse anche rapidamente. Per ora si può annotare, con un po’ di ironia, come Nichi Vendola non sia più solo nella difesa strenua delle primarie: da ieri può contare sul sostegno anche di Silvio Berlusconi. E’ una novità: sorprendente, forse. Ma certo non da nulla...

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« Risposta #143 inserito:: Giugno 06, 2011, 12:35:18 pm »

4/6/2011

Primarie, un mito riabilitato

FEDERICO GEREMICCA

Come talvolta accade di fronte a certi annunci di Silvio Berlusconi, la tentazione (purtroppo dettata dall’esperienza) sarebbe quella di non prendere il premier troppo sul serio. Un riflesso simile è scattato anche ieri, di fronte all’affermazione del presidente del Consiglio di «non esser contrario», a certe condizioni, all’uso delle primarie per eleggere i dirigenti del suo partito, il Pdl. Lo scetticismo - nel caso in questione non è dettato da riserve pregiudiziali, ma dalla circostanza che lo stesso premier, appena un paio di giorni prima, aveva nominato il nuovo segretario del partito (Angelino Alfano) nel chiuso di una delle sue stanze di Palazzo Grazioli: e non pare, stando alle cronache, dopo un confronto particolarmente animato e magari concluso da un voto...

Fatta questa premessa, però, la novità potrebbe essere di quelle davvero rilevanti: e segna, comunque, la «rivincita» di uno strumento - le primarie, appunto - spesso bistrattato e caricato di colpe e responsabilità certo non sue. La consultazione di iscritti e militanti - storicamente a esclusivo appannaggio del centrosinistra - è stata infatti fin qui giudicata più per il verdetto finale di volta in volta sancito, che per i meccanismi e i processi, oggettivamente positivi, messi in moto: partecipazione dei cittadini a scelte importanti, riavvicinamento degli elettori ai loro partiti, maggior autonomia e autorevolezza per i prescelti con voto popolare. Tutti fattori dei quali la democrazia italiana (alle prese con un progressivo aumento delle astensioni dalle urne) mostra di aver bisogno come dell’aria.

E invece, fin qui, si è di volta in volta ironizzato (sia da destra che da sinistra) su «primarie finte» o plebiscitarie, su «primarie-suicidio» per il Pd, su «primarie-scandalo» quando la consultazione (è il recentissimo caso di Napoli) è degenerata in brogli veri o presunti e denunce alla magistratura. Raramente è parso opportuno - invece - soffermarsi sulla lungimiranza dei cittadinielettori, riconoscendo loro almeno parte del merito di scelte vincenti (si pensi ai casi di Milano e a Cagliari) che i partiti difficilmente sarebbero stati in condizione di compiere. Il risultato di questo «tiro incrociato» è stata, com’era inevitabile, la messa in discussione tout court delle primarie: strumento, però, largamente rilegittimato dalle ultime elezioni amministrative e dalla inattesa scelta di campo di Silvio Berlusconi.

Il presidente del Consiglio, come si annotava, si è limitato a sostenere di non esser contrario (a condizione che siano ben regolamentate) a primarie che riguardino la scelta dei dirigenti di partito: ma è evidente - e il Pd ne sa qualcosa - che una volta imboccata quella via è poi difficile spiegare perché vadano individuati attraverso consultazioni popolari i segretari di partito e non - invece - i sindaci o i candidati a qualunque carica istituzionale elettiva. Che Berlusconi abbia comunque aperto all’uso di questo strumento anche da parte del centrodestra - sia pur con i limiti che dicevamo - è senz’altro una significativa novità. Della quale, però, si potrebbero forse discutere i tempi.

Le primarie, infatti, per quanto si possa tentare di adattarle alle diverse convenienze e situazioni (primarie di partito o di coalizione) restano uno strumento classicamente funzionale a sistemi politici bipolari, se non addirittura bipartitici (valga per tutti l’abusatissimo esempio americano). Ora la domanda è: è questa la direzione verso cui marciano i comportamenti elettorali degli italiani e i progetti di alcuni tra gli stessi partiti di centrodestra e centrosinistra? Con tutto il gran parlare che si fa di crisi del bipolarismo e di una nuova legge elettorale proporzionale che accantoni per sempre la «sbornia maggioritaria» degli ultimi tre lustri, che utilità (e che destino) potranno avere le primarie? Lo si vedrà, e forse anche rapidamente. Per ora si può annotare, con un po’ di ironia, come Nichi Vendola non sia più solo nella difesa strenua delle primarie: da ieri può contare sul sostegno anche di Silvio Berlusconi. E’ una novità: sorprendente, forse. Ma certo non da nulla...

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« Risposta #144 inserito:: Giugno 10, 2011, 10:36:25 am »

Politica

10/06/2011 - DEMOCRATICI: LA SPINA NEL FIANCO

Renzi: domenica il voto non è contro il premier

Matteo Renzi potrebbe occupare la poltrona che è stata di Sergio Chiamparino. «Non sono nè rompiscatole nè normalizzato»

«Un errore politicizzare i referendum, tanto se perde non si dimette»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Solitamente, quando si comincia un’intervista sostenendo che «ora io non vorrei guastare il clima di festa e passare per il solito rompiscatole, però...», ecco, quando si inizia così, in genere i guai sono già dietro l’angolo. Ed è precisamente questo l’avvio del breve colloquio con Matteo Renzi, il giovane sindaco di Firenze, che - secondo alcuni maliziosi il vertice pd vorrebbe sistemare alla guida dell’Anci con il non confessato obiettivo di «normalizzarlo».

Intanto, sindaco, conferma?

«Non confermo e non smentisco. Ma aggiungo: nè rompiscatole né normalizzato...».

Che vuol dire?

«Vuol dire, semplicemente, che intendo continuare a fare quel che ho fatto finora: e che stiamo per ripartire. In autunno, tra ottobre e novembre, faremo la Leopolda 2, cioè lo sviluppo di “Prossima fermata Italia”; e prima ancora riuniremo a Firenze un gruppo di amministratori - vecchi e nuovi - per una sorta di primarie delle idee. Ripartiamo dai contenuti: 100 cose da fare subito per l’Italia. Così da non disperdere il significato delle elezioni appena vinte».

Vede rischi di dispersione?

«Direi di sì. Intanto mi parso sbagliato caricare di tanti significati politici i referendum. Stiamo offrendo a Berlusconi la possibilità di una rivincita. Se il quorum non venisse raggiunto, potrà dire di aver pareggiato i conti con le amministrative; e se invece ce la si farà, alzi le mani chi crede che il premier si dimetterà davvero».

Lei non ci crede?

«Perché, lei sì? Cioè lei pensa che, essendo rimasto al suo posto nonostante i processi, i bunga bunga, lo stato del Paese e tutto il resto, Berlusconi perde il referendum e si dimette? In più, c’è anche una questione di merito: che riguarda il Pd come affidabile forza di governo».

In che senso?

«Vorrei capire se, per caso, noi non si stia cambiando linea su questioni importanti. Quando siamo stati al governo, abbiamo avuto posizioni giustamente assai liberalizzatrici. Ora chiediamo di votare sì al quesito numero due sull’acqua, cioè sulla remunerabilità degli investimenti per l’erogazione dell’acqua pubblica. Vorrei ricordare che la norma la introdusse nel 2006 il governo Prodi: con un provvedimento firmato dall’allora ministro Di Pietro...».

Lei non è d’accordo?

«No. A Firenze ho fortemente voluto un investimento da 70 milioni che consentirà la depurazione al 100% dell’acqua in città. Rispetto chi cambia idea in nome dell’opportunità politica, ma chi amministra ha il dovere della coerenza. E di produrre risultati concreti».

Il risultato delle elezioni amministrative, invece, l’aveva molto soddisfatta, è così?

«Certamente. Ma ora bisogna non disperdere - o addirittura rinnegare - le principali indicazioni che ci hanno consegnato».

Che sarebbero?

«La prima è senz’altro l’insensatezza del continuare a inseguire il cosiddetto Terzo polo. Casini da solo prendeva più voti di quanti ne ha presi assieme a Fini: gli elettori chiedono progetti chiari e riconoscibili, e il loro non lo è. Basta a inseguire Bocchino».

E la seconda?

«Che le primarie sono insostituibili e devono essere libere. Dopo il primo turno, c’era chi voleva seppellirle».

Le primarie sono sempre libere, no?

«Nient’affatto. Per libere intendo che il Pd non deve parteciparvi con un proprio “candidato ufficiale”, come ha fatto a Milano, a Cagliari e altrove: prendendole di santa ragione».

Tradotto?

«Alle primarie per la scelta del candidato premier ci vogliono più candidati democratici. Noi, almeno, ne metteremo certamente in campo uno».

Sarà lei?

«Sarà, preferibilmente, una donna under 40. Poi vedremo. Ma la mia generazione non può correre il rischio corso da quelli che oggi hanno 50 o 60 anni, e che a furia di aspettare magari hanno sprecato un’occasione».

E Bersani?

«Sarà candidato, ci mancherebbe. Per intanto, mi pare stia lavorando bene».

La convince, oggi, ripartire puntando sulla riforma della legge elettorale?

«La gente ci capisce poco. Mi verrebbe da citare il filosofo Benigni: uninominale all’inglese, doppio turno alla francese o bagno alla turca, purché sia una cosa chiara. Ecco: Bersani presenti una sua proposta di riforma, ma ci aggiunga la riduzione del numero dei parlamentari. Spero lo faccia. E se lo fa, giuro che corro io ai banchetti per raccogliere le firme...».

da - lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/406422/
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« Risposta #145 inserito:: Giugno 14, 2011, 11:01:22 pm »

Politica

10/06/2011 - DEMOCRATICI: LA SPINA NEL FIANCO

Renzi: domenica il voto non è contro il premier

Matteo Renzi potrebbe occupare la poltrona che è stata di Sergio Chiamparino. «Non sono nè rompiscatole nè normalizzato»

«Un errore politicizzare i referendum, tanto se perde non si dimette»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Solitamente, quando si comincia un’intervista sostenendo che «ora io non vorrei guastare il clima di festa e passare per il solito rompiscatole, però...», ecco, quando si inizia così, in genere i guai sono già dietro l’angolo. Ed è precisamente questo l’avvio del breve colloquio con Matteo Renzi, il giovane sindaco di Firenze, che - secondo alcuni maliziosi il vertice pd vorrebbe sistemare alla guida dell’Anci con il non confessato obiettivo di «normalizzarlo».

Intanto, sindaco, conferma?

«Non confermo e non smentisco. Ma aggiungo: nè rompiscatole né normalizzato...».

Che vuol dire?

«Vuol dire, semplicemente, che intendo continuare a fare quel che ho fatto finora: e che stiamo per ripartire. In autunno, tra ottobre e novembre, faremo la Leopolda 2, cioè lo sviluppo di “Prossima fermata Italia”; e prima ancora riuniremo a Firenze un gruppo di amministratori - vecchi e nuovi - per una sorta di primarie delle idee. Ripartiamo dai contenuti: 100 cose da fare subito per l’Italia. Così da non disperdere il significato delle elezioni appena vinte».

Vede rischi di dispersione?

«Direi di sì. Intanto mi parso sbagliato caricare di tanti significati politici i referendum. Stiamo offrendo a Berlusconi la possibilità di una rivincita. Se il quorum non venisse raggiunto, potrà dire di aver pareggiato i conti con le amministrative; e se invece ce la si farà, alzi le mani chi crede che il premier si dimetterà davvero».

Lei non ci crede?

«Perché, lei sì? Cioè lei pensa che, essendo rimasto al suo posto nonostante i processi, i bunga bunga, lo stato del Paese e tutto il resto, Berlusconi perde il referendum e si dimette? In più, c’è anche una questione di merito: che riguarda il Pd come affidabile forza di governo».

In che senso?

«Vorrei capire se, per caso, noi non si stia cambiando linea su questioni importanti. Quando siamo stati al governo, abbiamo avuto posizioni giustamente assai liberalizzatrici. Ora chiediamo di votare sì al quesito numero due sull’acqua, cioè sulla remunerabilità degli investimenti per l’erogazione dell’acqua pubblica. Vorrei ricordare che la norma la introdusse nel 2006 il governo Prodi: con un provvedimento firmato dall’allora ministro Di Pietro...».

Lei non è d’accordo?

«No. A Firenze ho fortemente voluto un investimento da 70 milioni che consentirà la depurazione al 100% dell’acqua in città. Rispetto chi cambia idea in nome dell’opportunità politica, ma chi amministra ha il dovere della coerenza. E di produrre risultati concreti».

Il risultato delle elezioni amministrative, invece, l’aveva molto soddisfatta, è così?

«Certamente. Ma ora bisogna non disperdere - o addirittura rinnegare - le principali indicazioni che ci hanno consegnato».

Che sarebbero?

«La prima è senz’altro l’insensatezza del continuare a inseguire il cosiddetto Terzo polo. Casini da solo prendeva più voti di quanti ne ha presi assieme a Fini: gli elettori chiedono progetti chiari e riconoscibili, e il loro non lo è. Basta a inseguire Bocchino».

E la seconda?

«Che le primarie sono insostituibili e devono essere libere. Dopo il primo turno, c’era chi voleva seppellirle».

Le primarie sono sempre libere, no?

«Nient’affatto. Per libere intendo che il Pd non deve parteciparvi con un proprio “candidato ufficiale”, come ha fatto a Milano, a Cagliari e altrove: prendendole di santa ragione».

Tradotto?

«Alle primarie per la scelta del candidato premier ci vogliono più candidati democratici. Noi, almeno, ne metteremo certamente in campo uno».

Sarà lei?

«Sarà, preferibilmente, una donna under 40. Poi vedremo. Ma la mia generazione non può correre il rischio corso da quelli che oggi hanno 50 o 60 anni, e che a furia di aspettare magari hanno sprecato un’occasione».

E Bersani?

«Sarà candidato, ci mancherebbe. Per intanto, mi pare stia lavorando bene».

La convince, oggi, ripartire puntando sulla riforma della legge elettorale?

«La gente ci capisce poco. Mi verrebbe da citare il filosofo Benigni: uninominale all’inglese, doppio turno alla francese o bagno alla turca, purché sia una cosa chiara. Ecco: Bersani presenti una sua proposta di riforma, ma ci aggiunga la riduzione del numero dei parlamentari. Spero lo faccia. E se lo fa, giuro che corro io ai banchetti per raccogliere le firme...».

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« Risposta #146 inserito:: Giugno 20, 2011, 08:30:28 am »

16/6/2011

Ennesima bufera sul governo

FEDERICO GEREMICCA

E ora il quadro non solo è completo, ma è anche fosco come soltanto nei momenti peggiori. Frasi a effetto informano che «i palazzi tremano», che agli arresti c’è finito «l’uomo che porta dritto nelle stanze del governo», che l’enfant prodige di certo segretissimo malaffare potrebbe mettere nei guai un sacco di bella gente.

Nessuno può sapere se è davvero così e se accadrà, ma voci insistenti raccontano di un Berlusconi pessimista e preoccupato: prima le elezioni, poi i referendum, quindi la solita magistratura... La conclusione? «Ci vogliono far fuori», avrebbe confidato uno sconsolatissimo presidente del Consiglio, una volta informato dell’arresto di Luigi Bisignani.

Pur prescindendo dalla solita lettura di parte dell’iniziativa della magistratura napoletana (avviata mesi e mesi fa...) non si può tuttavia negare come i timori del capo del governo vadano facendosi sempre più fondati: l’errore sta però nel cercare lontano dalla politica - e dall’azione del governo, e dallo stato della sua maggioranza - le ragioni delle crescenti difficoltà. I colpi subiti con le elezioni prima e il referendum poi non c’entrano nulla - in tutta evidenza - con i presunti tentativi di «far fuori» il premier e il suo esecutivo per via giudiziaria. E a volerla dire tutta, anzi proprio la reazione a questi rovesci ha dato il senso di una vicenda politica ormai in vista del capolinea: una sorta di passaggio di fase, di chiusura di stagione che pare aver preso una china inarrestabile.

I segnali sono molteplici e, purtroppo, contemporanei. Intanto, la reazione nervosa e scomposta, appunto, del principale degli alleati di governo di Silvio Berlusconi, e cioè quella Lega che appare sempre più come il dominus della situazione. Scegliere come cavalli di battaglia per la ripartenza il trasferimento di qualche ministero al Nord e il no alla guerra in Libia - con la parziale, modesta e discutibile motivazione che essa starebbe determinando un aumento del flusso migratorio verso il Nord - è forse la prova migliore di un pericoloso stato confusionale, a voler essere generosi. Né è stata più convincente, a dir la verità, la reazione del partito del presidente, con la pretesa di varare su due piedi la sempre promessa (e oggi difficilmente proponibile) riforma fiscale. Il risultato ottenuto è stato infatti doppiamente negativo: si è aperto un delicatissimo contenzioso col ministro Tremonti e si è seminato a piene mani altro nervosismo nella coalizione.

Segnali molteplici, dicevamo. L’aria da si salvi chi può che comincia a tirare tra i gruppi e i gruppetti parlamentari che al momento garantiscono al governo la maggioranza nelle aule di Camera e Senato è uno di questi: e si tratta di un brutto affare, che il premier sbaglierebbe a sottovalutare. Un altro - tradizionale spia dello stato degli equilibri politici del momento - è la situazione in cui versa la Rai, in bilico tra epurazioni e paralisi, con nomine annunciate e rinviate in attesa di capire che accadrà: e nell’attesa, naturalmente, tutto resta fermo, con danni evidenti per la maggior azienda culturale del Paese. Poi il Parlamento che ha toccato sconcertanti limiti di produttività, il governo che lavora appena 15 ore in tre mesi... Insomma, ce ne sarebbe a sufficienza per serrare le fila e ripartire dal buon senso: ma l’aria che tira non pare affatto quella.

L’aria che tira, infatti, racconta di un mondo politico (di maggioranza, a dir la verità) col fiato sospeso per quel che accadrà tra qualche giorno a Pontida, giusto sul «pratone» fino a ieri più noto per i fumi delle salsicce alla brace che per le strategie lì elaborate. Berlusconi si chiede cosa chiederà Bossi: i cittadini, magari, si domandano invece se tutto quel che chiederà verrà concesso. L’Italia interromperà il suo impegno nella missione libica perché così vuole Calderoli? Tremonti (fino a ieri definito il miglior ministro dell’Economia d’Europa) finirà spalle al muro perché Maroni chiede coraggio e una riforma fiscale da varare su due piedi? E basterà qualche ufficio di rappresentanza o Reguzzoni vuole dei veri e propri ministeri tra Milano e Varese? E soprattutto: Berlusconi dirà sì a una qualunque di queste richieste?

L’aria è quella del passaggio di fase, del cambio di stagione. Ma c’è modo e modo di chiudere un capitolo per aprirne un altro. Berlusconi e Bossi lo ricordino e scelgano il migliore. Il migliore per il Paese, naturalmente, non per il destino delle rispettive botteghe.

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« Risposta #147 inserito:: Giugno 20, 2011, 04:59:54 pm »

20/6/2011

La spinta propulsiva è finita

FEDERICO GEREMICCA

E passi per i tanti militanti che affollano il pratone di Pontida vestiti da Alberto da Giussano, con mantello, spadone e tutto il resto, nonostante i trenta gradi all’ombra. E passi anche per quelli che sfoggiano elmi da unni o da vichinghi, con belle corna lunghe e arcuate.

Ma quando in attesa dell’arrivo di Bossi il segretario della forte Lega di Bergamo chiama sul palco «i templari del bel fiume Serio» - e loro sul palco ci salgono davvero - allora il dubbio svanisce, e si può dire con certezza che da queste parti qualcosa non va: o almeno non va più. E non va più perché il folklore va bene quando adorna e rappresenta - come è stato fino a ieri - una linea corsara, furba e spesso fin troppo aspra; ma quando quella linea non c’è più, quando l’affanno è evidente e il Capo non ha una rotta da indicare alla sua gente, allora non resta che il folklore: e di folklore anche una forza come la Lega, ben radicata nelle valli di quassù, lentamente può morire.

Forse è questo, al di là degli ultimatum veri o presunti spediti all’indirizzo di Silvio Berlusconi, il messaggio che arriva da Pontida: il vecchio Carroccio è nei guai, fermo e incerto sulla via da imboccare perché scosso e stupito - forse perfino più del Pdl - dal doppio capitombolo elezioni-referendum. La battuta d’arresto ha lasciato cicatrici profonde in un partito non abituato alla sconfitta: e la reazione, a cominciare dal gran raduno di ieri, non sembra affatto all’altezza dei problemi che ha di fronte. E’ come se, gira e rigira, la Lega avesse esaurito la propria spinta propulsiva, fosse d’improvviso a corto d’argomenti e a nulla servisse - anzi - riproporre gli stessi con più enfasi e più durezza.

E’ un problema non da poco perché - al di là delle tattiche su quando e come votare - riguarda il futuro stesso del movimento. Ed è un problema - alla luce di quel che si è visto e sentito ieri a Pontida, tra bandieroni e facce dipinte di verde - che la Lega farebbe bene ad affrontare. Dovrà chiedersi, per esempio, quale ulteriore forza espansiva può avere un movimento che chiede la fine dei bombardamenti in Libia non perché lì continuino a morire donne e bambini, ma perché costano troppo e poi finisce che arrivano nuovi immigrati a Ponte di Legno o a Gallarate. O che ha individuato l’approdo della Grande Guerra a Roma ladrona nella richiesta che almeno qualche ministero, anche di serie B, venga trasferito al Nord. Si può crescere ancora con slogan e obiettivi così? Forse nelle valli. O lungo le sponde di fiumi custoditi dai templari... Ma già se si guarda a Milano, moderna capitale del Nord, occorrerebbe interrogarsi sul perché alle ultime elezioni solo un cittadino su 10 ha deciso di votare Lega.

Quella della modernità - modernità di linea, di organizzazione e di idee e proposte per il Paese - è un’altra questione che ieri a Pontida è saltata agli occhi in maniera ineludibile. Sembra paradossale dirlo della Lega che al suo irrompere sulla scena modernizzò non poco in quanto a temi (quello della sicurezza nelle città, per dirne uno) e perfino in quanto a proposte istituzionali (il federalismo): ma ieri il folklore e il richiamo all’identità, utilizzati per supplire all’assenza di linea, sono apparsi d’improvviso vecchi, inattuali e quasi figli di un’altra epoca. Tra un supermercato e un nuovo grande parcheggio, la modernità sta letteralmente (e simbolicamente) mangiandosi il pratone di Pontida: e a fronte dei tanti cambiamenti, la Lega risponde riscoprendo la secessione (tema degli esordi), l’identità padana e inasprendo la lotta ai clandestini (triplicato il tempo di internamento nei Cie). Difficile andar lontano, così. E difficile anche - se non in virtù dei meri numeri - mettere davvero spalle al muro l’amico-nemico Berlusconi.

Se serviva una controprova di quanto fosse ormai logorato il rapporto tra la Lega e il premier, ieri la folla di Pontida - una gran folla, come solo nei momenti di grandi vittorie o di grandi difficoltà - l’ha fornita. Fischi ogni volta che veniva citato il suo nome, grandi striscioni per invocare «Maroni premier». Bossi ha definito la leadership di Berlusconi alle prossime elezioni «non scontata»: ma si è dovuto fermare lì, avendo chiaro che una parola in più lo avrebbe spinto in un vicolo al momento del tutto cieco. Il punto è che la base leghista - antiberlusconiana per ragioni quasi antropologiche e caricata per anni a pallettoni fatti di slogan duri e modi spicci - digerisce sempre peggio certe prudenze (obbligate) del Gran Capo. E’ a Berlusconi, alle sue ossessioni giudiziarie e ai suoi bunga bunga che vengono infatti attribuite le sconfitte dolorose non solo di Milano ma di Comuni-simbolo nell’iconografia leghista, da Gallarate a Desio, fino a Novara. A fronte di questo, la prudenza dei capi è sempre meno accettata, e molti non nascondono di avercela anche con chi, nella Lega, si sarebbe «romanizzato»...

Un’immagine, ieri, ha colpito molti dei cronisti accorsi a Pontida. E’ accaduto quando, poco prima dell’arrivo di Bossi sul palco, volontari del servizio d’ordine leghista hanno sequestrato e poi minuziosamente sbrindellato un lungo striscione bianco con delle frasi vergate in nero: «Datevi un taglio. Abolite le Province e dimezzate il numero dei parlamentari. Ce lo avevate promesso». Una contestazione figlia dei furori del passato, certo; e frutto, magari, di quelle compatibilità politiche che nessun capo leghista, nelle valli, ha mai spiegato ai militanti della base e ai templari che vigilano sul fiume Serio... Un problema, anche questo. E a giudicare da certi umori, nemmeno semplicissimo da affrontare.

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« Risposta #148 inserito:: Giugno 23, 2011, 10:12:44 am »

23/6/2011

A sinistra è l'ora di decidere

FEDERICO GEREMICCA

Magari, come a volte gli capita, Antonio Di Pietro l’ha detto male, sbagliando toni, tempi e luogo: ma intorno al fatto che per le opposizioni stia arrivando il tempo di definire itinerario e profilo dell’alleanza che sfiderà il centrodestra alle prossime elezioni, i dubbi sono davvero pochi. Il leader dell’Idv poteva naturalmente scegliere un luogo diverso dall’aula di Montecitorio per porre a Pierluigi Bersani il problema dell’urgenza della costruzione dell’alternativa all’attuale maggioranza; e avrebbe certo fatto meglio a utilizzare toni meno aggressivi nei confronti di quello che lui stesso ha definito «il partito di maggioranza relativa», cioè il Pd.

Ma resta la sostanza della richiesta: ed è una sostanza che, sfrondata da inutili polemiche, è forse condivisa dallo stesso leader del Partito democratico.

La crisi lenta ma inesorabile dell’attuale maggioranza - e il conseguente calo di consensi nel Paese - è infatti solo uno degli «ingredienti» necessari affinché la coalizione di centrosinistra possa puntare a vincere le prossime elezioni: l’altro, in tutta evidenza, sta nella credibilità dell’alternativa proposta. E su questo, la strada da fare pare ancora lunga. Un paio di giorni fa, un sondaggio Ipsos ha confermato con evidenza come le cose stiano precisamente così: giudizio negativo sul governo, fiducia in Berlusconi ai minimi, il Pd che supera il Pdl ma ben il 60% degli interpellati che giudica «non credibile» l’alternativa di governo rappresentata dalle opposizioni.

Come fare, allora, a convincere gli elettori che il «nuovo» centrosinistra non pensa minimamente di riproporre l’indimenticata esperienza dell’Unione, che tanto condizionò (e poi affondò) l’ultimo governo di Romano Prodi? Intanto, evidentemente, fissando paletti che limitino l’alleanza a partiti realmente omogenei tra loro; quindi - e di conseguenza - lavorando a un programma che non ricordi nemmeno da lontano le 280 pagine di bizantinismi che in campagna elettorale costarono non pochi consensi al Professore; e infine individuando e proponendo agli italiani un candidato premier credibile per esperienza, consensi e autorevolezza. Il percorso non è certo facile, ma è sufficientemente obbligato perché si possa pensare di cominciare a muovere i primi passi. E il compito di indicare la rotta, oggi, non può che toccare al Pd. Pierluigi Bersani - leader dal passo lento ma sicuro, come hanno dimostrato i risultati delle amministrative e dei referendum - non pare smaniare dalla voglia di cominciare: e a parte l’annotazione che non si ha nemmeno un’idea vaga di quando si andrà alle urne, e la considerazione che il lavoro iniziale sarà certo il più aspro, c’è un’altra circostanza che può forse spiegare la prudenza del leader democratico. E riguarda la possibilità che alle elezioni ci si vada con una legge elettorale diversa dall’attuale. Come è chiaro, si tratterebbe di una novità non da poco: capace essa stessa, per altro, di risolvere almeno un paio dei problemi che sono di fronte al Partito democratico.

Il primo riguarda la qualità (e l’eterogeneità) delle alleanze da fare: una legge che non prevedesse più premi di maggioranza per la coalizione, renderebbe più semplice scegliere e selezionare gli eventuali compagni d’avventura. Il secondo riguarda senz’altro la premiership: un sistema elettorale che non rendesse vincolante e obbligatoria (nemmeno in maniera fittizia, come quello attuale) l’indicazione del premier, probabilmente svelenirebbe non poco l’intricata - e discussa - faccenda delle primarie. Si tratta di novità sulle quali anche altre forze politiche (dalla Lega al Terzo polo) stanno cominciando a riflettere: tanto che il problema di una riforma della legge elettorale probabilmente sarà - assieme allo stato dell’economia - il tema centrale del prossimo autunno.

I tempi, però, potrebbero comunque non esser lunghi: soprattutto se la crisi del centrodestra rendesse inevitabili elezioni nella prossima primavera. Per il Pd, dunque, il tempo delle decisioni potrebbe arrivare in fretta: e si tratterà di scegliere se praticare fino in fondo il tentativo di varare una nuova legge oppure fare quanto necessario per affrontare al meglio le urne con questo sistema elettorale. Sarebbe bene cominciare a pensarci, perché conta poco il fatto che oggi il vento sembri soffiare nelle vele delle opposizioni. Il Pd, infatti, non può aver dimenticato come si concluse la campagna elettorale della primavera 2006: sembrava vinta a mani basse, alla fine Prodi la spuntò per ventimila voti (con tutto quello che ne seguì). Errare è umano, insomma: perseverare, per di più alla luce di un’esperienza così recente, sarebbe invece imperdonabilmente diabolico...

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« Risposta #149 inserito:: Giugno 27, 2011, 10:01:11 am »

Cronache

25/06/2011 - REPORTAGE

Il lento declino della città-discarica. Ancora decine di roghi nei giorni passati

Non solo «caos monnezza»: il capoluogo campano annaspa mentre la politica non trova soluzioni.

Cresce la protesta: i negozianti minacciano la serrata. Disoccupati e abusivi scendono in piazza

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A NAPOLI

Quando l’altra sera, rientrati a casa, migliaia di napoletani si sono inaspettatamente trovati faccia a faccia con il loro sindaco, tanto chi l’aveva votato un paio di settimane fa quanto chi non si era fidato, hanno certamente pensato «questo è uscito pazzo». Dagli schermi delle tv locali e di diversi siti Internet, infatti, Luigi De Magistris - camicia azzurra con coraggiosi risvolti rosa - stava promettendo che non solo in cinque giorni avrebbe ripulito la città (Berlusconi aveva detto sette), ma che ogni quartiere di Napoli avrebbe presto avuto la sua «isola ecologica». Questo stava annunciando il sindaco a chi era appena riuscito - fortunosamente - a rientrare in casa evitando barricate di immondizia, blocchi stradali, roghi e labirinti di cassonetti rovesciati nei pochi tratti di strada lasciati miracolosamente liberi dalla monnezza.

La verità, naturalmente, è che Napoli non sarà liberata da questo schifo in cinque giorni; e anche che tratteremmo la notizia alla stregua di un miracolo se ogni quartiere della città davvero avesse un giorno - la sua «isola ecologica». Ciò nonostante, Luigi De Magistris non è un pazzo. Più probabilmente, istruito dalle amarissime vicende degli ultimi anni, ha deciso che forse l’unica via da battere è appunto tentare di apparire pazzo: visto che a mediare, a trattare e a rassicurare, qui ci hanno già rimesso le penne un paio di amministrazioni e un’intera classe dirigente. Quindi, le promesse iperboliche. Ma anche le denunce e gli avvertimenti: dobbiamo lottare contro dei «poteri occulti» (intendendo, forse, quanto di più evidente c’è: cioè la camorra) - ha informato il sindaco ma noi reagiremo, cominciando col far scortare i camion incaricati di rimuovere la monnezza dalla strada.

Quanti anni è che si va avanti così, sulla pelle di una città che nemmeno questo leggero vento di maestrale riesce ormai a liberare dagli effetti venefici dei roghi e dei fumi? I medici napoletani lanciano l’allarme infezioni, visto il caldo in arrivo; mentre il direttore della più grande Asl della città chiede addirittura al sindaco di chiudere gli spazi aperti di ristoranti e bar: «In questa situazione - spiega - non è possibile servire da bere e da mangiare all’aperto». I commercianti minacciano la serrata, stufi di dover liberare ogni mattina l’ingresso dei negozi da mucchi di spazzatura; e il sindaco, con una mossa drammaticamente ad effetto, dispone che i camion-compattatori siano accompagnati da uomini armati nei loro giri di raccolta per la città. Un tempo, per difendere l’immagine della città dalle analisi di detrattori spesso interessati, anche in dotti convegni meridionalisti era d’uso u n ’ e s p r e s s i o n e frutto d’un residuo d’orgoglio: «Napoli non è Calcutta» si esclamava a un certo punto, per dire che era pur sempre una grande città dell’Occidente europeo quella di cui si parlava. Oggi, nessuno ripete quella frase: e i cittadini di Calcutta probabilmente si offenderebbero di fronte a tale, mortificante paragone...

E mentre Napoli annaspa tra sacchetti nauseabondi e cassonetti in fiamme, la gara di solidarietà cui s’assiste tutt’intorno al destino della vecchia capitale del regno è davvero commovente. A Roma, la Lega - quella di Pontida e dei cori contro i napoletani blocca il decreto che avrebbe permesso il trasferimento in altre regioni di un po’ della monnezza accumulatasi; a Macchia Soprana, nel Salernitano, si preparano le barricate per impedire la riapertura della discarica che potrebbe accogliere parte dei rifiuti che soffocano Napoli; e a Castellammare un comitato di mamme è già in piazza al solo sospetto che un po’ dell’immondizia del capoluogo possa finire da quelle parti. Ci sarebbe da restare senza parole, stupefatti: se non fosse che son già tre anni che la musica è questa qui...

«La legge che distribuisce territorialmente le competenze in materia di rifiuti è illogica», annota sfiduciato il rettore dell’Università Massimo Marrelli. «Napoli si deve dotare di siti di trasferenza temporanea. E comunque, dove portare la spazzatura, al sindaco di Napoli glielo devono dire la Regione e la Provincia», ammonisce Alessandro Gatto, presidente regionale del Wwf. Ognuno ha la sua diagnosi, ognuno la sua ricetta e tutti - ovviamente - ottimi motivi di polemica, verso la destra o verso la sinistra. Evidente, naturalmente, il tentativo di cavalcare questa drammatica emergenza per cercare una rivincita dopo il naufragio elettorale di due settimane fa. Come se la città non fosse di tutti. O come se liberare Napoli dalla sua monnezza fosse una cosa - così come fu detto per la sicurezza - di destra o di sinistra...

Di destra o di sinistra - e ad aggravare la situazione di una città che non esplode solo perché non sa più con chi deve prendersela - sono le promesse elettorali rimaste sul terreno a inquinare quel che resta da inquinare. Ieri mattina, per esempio, mentre la città nella parte alta e nel centro antico zigzagava tra la sua immondizia, il palazzo della Regione era preso d’assalto da gruppi di comitati che chiedono sia mantenuta la promessa (fatta da Berlusconi) di bloccare le demolizioni di migliaia e migliaia di case abusive. Vogliono il decreto che fu annunciato in cambio del voto al candidato-sindaco del Pdl. Tensione, scontri e traffico in tilt. Altri cortei naturalmente con blocchi stradali e caos nella circolazione - li hanno inscenati per tutto il giorno gruppi di disoccupati e di operai di fabbriche in crisi. L’impatto, per chi viene da fuori, è terribile. E non solo perché Napoli stessa, ormai, somiglia a una gigantesca discarica: ma anche in ragione del visibile collasso contemporaneo del tessuto sociale, civile e produttivo della città.

E così, mentre il sindaco «fa il pazzo» e altri il Ponzio Pilato, si attende che qualcuno faccia quel che gli spetta, e cioè evitare l’emergenza sanitaria verso cui galoppa la città. Il tempo sta finendo e Napoli affonda: anche se lentamente, visto che le sue sabbie mobili sono fatte di sacchetti, cassonetti e rabbia solida come un grumo di dispiacere...

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/408694/
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