LA-U dell'OLIVO
Novembre 26, 2024, 09:57:05 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 16 17 [18] 19 20
  Stampa  
Autore Discussione: FEDERICO GEREMICCA -  (Letto 158389 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #255 inserito:: Maggio 22, 2014, 05:48:34 pm »

Elezioni 2014
21/05/2014

Quell’esasperazione indice della sete di cambiamento
L’unico tema a unire i contendenti è l’ostilità alla Germania

Federico Geremicca
ROMA

Se ci avessero detto che a una manciata di ore dalla fine della campagna elettorale Renzi sarebbe sembrato un leader moderato e i toni di Marine Le Pen (e perfino quelli della Lega) un argomentare appena sopra le righe, naturalmente non ci avremmo creduto. 

Infatti, pur avendo chiaro fin dall’inizio che la sfida Renzi-Grillo-Berlusconi avrebbe partorito iperboli ed esagerazioni, nessuno poteva umanamente immaginare che si sarebbe conclusa addirittura a colpi di «assassino» e di «lupara» (anche se, per fortuna, «bianca»...). 

Invece è andata così. E paradossalmente, proprio i toni esasperati hanno aiutato - o dovrebbero aver aiutato - a capire alcune cose. La prima (e forse la più importante, perché destinata a riproporsi nel tempo) è che il Paese - per la crisi che attraversa e per i gruppi dirigenti che si ritrova - resta disperatamente assetato di cambiamento.

Un desiderio di novità così esasperato che perfino il primo dei rinnovatori - e cioè Renzi il «rottamatore» - è apparso in difficoltà a fronteggiarlo: nemmeno le slides di inizio campagna, infatti, l’andare a piedi tra la gente e il tono rimasto informale anche una volta indossato l’abito da premier, sono apparsi sufficienti - evidentemente - a convincere la gente circa lo spessore del cambiamento avviato. 

La seconda cosa che si è plasticamente intesa, è che la parabola di Silvio Berlusconi pare ormai definitivamente compiuta. La ripetitività delle promesse - proposte in ogni campagna elettorale e poi quasi sempre disattese - è parte di quel declino. Il grosso della difficoltà, però - e l’aspetto è sorprendente - sta nella circostanza che quello che fino a ieri veniva considerato il «re dei comunicatori» fa fatica a tenere il passo dei due suoi competitor ed è ridotto, di fatto, al ruolo di comprimario: perfino battute e barzellette sembrano antiche. E se non sono antiche, è l’opinione pubblica che - considerata tutta l’acqua passata sotto i ponti - non pare più disposta ad apprezzarle ed a riderci su. La terza cosa - e non era scontata - è che non è vero che Renzi-Grillo-Berlusconi non sono d’accordo su niente. C’è un tema che, seppur con sfumature di toni - li accomuna: l’attacco frontale - c’è chi ha evocato i lager e che si è lasciato andare a poco eleganti apprezzamenti personali - alla Germania ed ad Angela Merkel. Le ambasciate europee a Roma inviano quotidianamente report nei rispettivi Paesi per informare sui toni, gli argomenti e le previsioni di questa campagna elettorale: non è antipatriottico dire che ci stiamo facendo la figura dei poveracci, un Paese che non sapendo con chi prendersela e non conoscendo la pratica (e nemmeno la teoria) dell’autocritica, dirotta all’estero cause e origini delle sue difficoltà. L’ultimo aspetto emerso con crescente chiarezza col passar dei giorni è il fatto che, in realtà, si sono svolte tre campagne elettorali contemporanee ma del tutto diverse. Renzi, costretto a smettere i panni del «rottamatore» (impossibile tenere il livello di Grillo...) ha scelto un profilo «responsabile», giocando ogni sua carta sulle cose fatte o avviate dal governo: la sua è una campagna che parla di cose, di progetti e di speranze. Silvio Berlusconi, invece, è partito con toni durissimi ma poi - richiamato dai magistrati che lo sorvegliano - ha scelto un filone che potremmo definire della nostalgia. 

Quel che poteva essere e non è stato. Piatto forte di questa linea sono, naturalmente, i complotti (i colpi di Stato): quello dei giudici - denunciato sottovoce, però - quello dell’Europa e degli Stati Uniti che vollero la sua testa nel novembre di tre anni fa, quello ordito da Fini prima e Alfano poi, e via dicendo. Infine Grillo, che meriterebbe un capitolo a parte: infatti sta facendo la sua solita campagna elettorale, l’unica che conosca. Che si voti per il Parlamento italiano o per quello europeo (e perfino per le regionali in Sicilia) è assolutamente indifferente: tutti a casa, o noi o loro, via i ladri ma prima di cacciarli ci restituiscano i nostri soldi. Musica per le orecchie di un Paese provato, e spesso disgustato. E poiché il coraggio aiuta gli audaci... nel giro di dieci giorni tre retate (il caso-Scajola, il caso Expo e l’arresto di Paolo Romano) hanno fornito propellente fresco per la sua campagna. Gli ultimi sondaggi lo davano oltre il 25% ottenuto un anno fa. Al Sud, si dice, dovrebbe dilagare. Ma siamo alla fine, fortunatamente. Il 26 maggio si saprà chi ha vinto e si conteranno i danni procurati. Infatti, dopo una campagna dichiaratamente antieuropea e costellata di annunci di referendum per uscire dall’Euro, toccherà proprio all’Italia andare a presiedere il semestre europeo. Sembra una barzelletta. Purtroppo non lo è...

Da - http://lastampa.it/2014/05/21/italia/speciali/elezioni/2014/quellesasperazione-indice-della-sete-di-cambiamento-l2J9GqdybBzia1nvUb8KBP/premium.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #256 inserito:: Giugno 22, 2014, 06:00:08 pm »

Editoriali
20/06/2014

La corsa per non essere tagliati fuori
Federico Geremicca

Un po’ meno sindaci e un po’ più di consiglieri regionali; un po’ meno membri nominati dal Quirinale e un po’ più competenze da esercitare. Per il «nuovo Senato», dunque, l’accordo sarebbe cosa fatta, o giù di lì. E anche l’Italia degli scettici - quella del non si può fare, non ci riusciranno mai - sembra rassegnata alla sconfitta.

Del resto, si era inteso già da qualche giorno che il dado era ormai tratto: lo si era inteso, per la precisione, da quando perfino la Lega e il movimento di Beppe Grillo avevano deciso di saltare sul carro delle riforme. Che poi, in tutta evidenza, è il tradizionale carro del vincitore: che anche in questa circostanza - come per le primarie, per gli 80 euro e per le elezioni europee - porta il nome di Matteo Renzi. Dopo mesi di confronto e discussione, insomma, la strada delle riforme sembra finalmente in discesa. Ed è una svolta rispetto alla quale il voto del 25 maggio ha avuto un effetto assolutamente determinante.

C’è voluto del tempo perché i partiti metabolizzassero le tante sorprese riservate dalla consultazione europea.

I risultati prodotti dall’iperbolico 40,8% incassato dal Pd a trazione Renzi hanno faticato a manifestarsi, ma ora - e non è affatto detto che sia finita - sono sotto gli occhi di tutti: il Pd più «pacificato» di quanto lo fosse anche alla vigilia del voto; Forza Italia che si lecca le ferite e resta aggrappata a un tavolo (quello appunto delle riforme) che è rimasto uno dei pochi ai quali può ancora sedere; la Lega di Salvini pronta ad accomodarsi; la Sel di Nichi Vendola che si scioglie come un gelato al sole; e infine - novità delle novità - Beppe Grillo che chiede di esser presente alla partita e assicura che intende parteciparvi «in modo rapido e responsabile». Si assiste, insomma, ad una sorta di corsa a non restar tagliati fuori. 

La svolta, in fondo, è comprensibile: con l’aria che tira - aria manifestatasi inequivocabilmente appunto col voto europeo - il mestiere dei «gufi» e dei «rosiconi» (per dirla alla Renzi) cioè dei «frenatori», si è fatto difficile e soprattutto rischioso. Mettersi in scia del premier, insomma, potrebbe essere - per i suoi avversari e per il Paese stesso - un buon affare o comunque il male minore: ed è questo - con l’eccezione della giovane formazione della coppia Meloni-Crosetto - quello che i più hanno deciso di fare. Per Matteo Renzi l’occasione è unica. E il fatto che tutto ciò avvenga alla vigilia del suo semestre di presidenza europea, accentua ulteriormente la sua forza ed il suo potere contrattuale. 

 Si tratterà, naturalmente, di non sbagliare alcuna mossa, né sul piano dell’attività di governo (dove molte delle riforme annunciate attendono ancora una traduzione legislativa) né su quello dei rapporti politici. E da questo punto di vista la partita più delicata è senz’altro quella che lo attende proprio di fronte alla più inattesa delle sorprese: la svolta annunciata da Beppe Grillo. Inutile nascondere che l’incontro fissato per mercoledì si candida ad essere forse ininfluente nel merito dei problemi che affronterà (le riforme) vista la grande distanza tra le rispettive posizioni, ma certamente assai rilevante sul piano politico. È evidente, infatti, che qualunque sia la ragione per la quale Grillo ha ritenuto fosse giunto il momento di «aprire» a Renzi (tatticismo politico, tentativo di rallentarne il cammino, ripensamento autentico) la risposta che il premier ed il Pd riterranno di dover dare, non potrà non pesare sui rapporti futuri tra «grillini» e democratici. Ma è una partita che comporta dei rischi anche per Beppe Grillo. Infatti, l’idea che il Movimento abbia subito uno stop alle ultime elezioni in ragione del suo tenersi del tutto fuori dalle diverse partite politiche e parlamentari in corso, non ha controprova ed è molto - per dir così - politologica.

Al contrario, è assai concreta la possibilità che il suo elettorato - o gran parte di esso - possa non apprezzare affatto il «mischiarsi» del Movimento con i partiti politici «tradizionali», i suoi riti, le sue riunioni e i suoi necessari compromessi. Il «popolo di arrabbiati» che ha votato Grillo in segno di protesta proprio contro il sistema dei partiti, potrebbe insomma restar deluso e sconcertato dalla mossa: ecco, anche loro sono come gli altri. È un rischio: ma forse, al punto cui era giunto, un rischio che Grillo non poteva non correre...

Da - http://lastampa.it/2014/06/20/cultura/opinioni/editoriali/la-corsa-per-non-essere-tagliati-fuori-GHPEYiTZeh9XHWkv9kchxO/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #257 inserito:: Agosto 09, 2014, 05:37:29 pm »

Il prezzo politico di un successo

09/08/2014
Federico Geremicca

C’è un commento che, forse più di altri, dà il senso ed offre una spiegazione alla lunga e durissima battaglia campale combattutasi per mesi dentro e fuori l’aula di Palazzo Madama. E’ quello di Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato, co-protagonista della riforma approvata, e certo non entusiasta, mesi fa, del testo che le venne trasmesso dal governo: «E’ la prima volta nella storia costituzionale mondiale - ha annotato - che una Camera abolisce se stessa». 

Cominciamo da qui non per fingere di ignorare per quali e quante tensioni la fine del bicameralismo paritario abbia fatto da calamita: ma per sottolineare la portata comunque epocale della riforma (e sarebbe il caso di dire autoriforma) approvata ieri a Palazzo Madama. Funzioni più circoscritte e comunque largamente diverse rispetto alla Camera dei Deputati; membri scelti con elezioni di secondo grado (dunque non direttamente dai cittadini); nessuna indennità di funzioni e via elencando.

L’estenuante ping-pong di leggi che rimbalzano per mesi tra le due Camere è dunque finalmente destinato a finire. 

Si può senz’altro dire (demagogicamente) che con l’archiviazione del bicameralismo paritario gli italiani non mangeranno di più e meglio: ma andrebbe aggiunto che almeno non dovranno più imprecare contro le lungaggini e i tempi esasperanti che tanto discredito hanno arrecato al sistema dei partiti. Il senso vero della riforma è qui, più che nella riduzione (irrisoria) dei costi della politica e del numero di «politici di professione». Un passo importante è dunque stato compiuto: alla Camera se ne potranno muovere altri per migliorare quel che è da migliorare.

E’ quasi superfluo dire che il voto di ieri rappresenta un successo per Matteo Renzi, che aveva bisogno come l’aria di incassare un risultato che bilanciasse - almeno sul piano dei commenti e dell’immagine - la piccola slavina di cattive notizie arrivate dal fronte dell’economia: la questione sta nel capire quanto gli sia costato questo successo, e che prezzi politici abbia dovuto e dovrà pagare.

Infatti, i rapporti con la minoranza Pd - sempre più in campo ed agguerrita - sono ai minimi storici; le relazioni con quel che resta del partito di Vendola e con il Movimento Cinque Stelle sono ulteriormente peggiorati; e il Nuovo centrodestra di Alfano è sempre più sospettoso e incerto sul da fare, considerata l’anomala alleanza di cui è parte. Un quadro che non rappresenta certo un buon viatico, insomma, per le riforme economiche alle quali - necessariamente - il governo dovrà metter mano alla ripresa di settembre.

 

Resta l‘asse con Silvio Berlusconi, certo: ma è onestamente impensabile immaginare un’automatica trasposizione del «patto del Nazareno» dal piano delle riforme costituzionali a quello delle ricette per rilanciare l’economia. Matteo Renzi, insomma, potrebbe ritrovarsi in autunno politicamente più debole e addirittura - in rapporto ai provvedimenti che porterà al voto - senza maggioranza a Palazzo Madama. Una situazione che, se non cambiasse, lascia ipotizzare una sorta di bis del calvario percorso da Romano Prodi col suo ultimo governo (2006-2008). 

Il premier, naturalmente, ha ancora molte ed efficaci carte da giocare. La sua perdurante popolarità è la prima; la sua tenacia è la seconda; la minaccia di portare «gufi» e dissidenti al voto in primavera è la terza. La discussione che a partire da settembre si aprirà sulle modifiche e sullo stesso destino dell’Italicum sarà una buona cartina di tornasole per verificare progetti e intenzioni di Renzi e di un rinfrancato Berlusconi. Non sarà una partita facile per il più giovane premier della storia repubblicana, e molti scenari restano aperti. Uno solo, però, lo si può escludere fin da ora: un Renzi che vivacchi e scenda a compromessi. L’ex sindaco di Firenze sa che fermarsi equivarrebbe a perdersi. E la linea dunque sarà, come sempre, avanti tutta: verso nuove riforme oppure verso le elezioni.

Da - http://www.lastampa.it/2014/08/09/cultura/opinioni/editoriali/il-prezzo-politico-di-un-successo-FYeAbmHrKebGekCoSGvdpJ/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #258 inserito:: Settembre 06, 2014, 05:04:48 pm »

Le due strategie degli anticasta. Renzi snobba, Casaleggio si “mischia”
Secondo no del premier a Cernobbio. Il guru insieme ai “banchieri massoni”
Parte oggi la 40esima edizione del Workshop Ambrosetti.
Casaleggio era stato a Cernobbio anche nel 2013

05/09/2014
Federico Geremicca
ROMA

Che un giovane Presidente del Consiglio partito lancia in resta contro i «salotti buoni» decida di disertare il tradizionale appuntamento di Cernobbio - vero e proprio attico con terrazza della finanza italiana - può far storcere il naso ma, come si dice, ci sta. Ci sta forse meno il fatto che - per il secondo anno consecutivo - ormeggi sulle sponde del lago di Como Gianroberto Casaleggio, mente informatica di un movimento il cui leader non fa mistero di considerare i banchieri dei volgari truffatori (epiche le sue battaglie contro i vertici di Mps) e il mondo dell’economia e della finanza, più in generale, un’accozzaglia di massoni, con tanto di cappuccio e grembiulino. 

Ma in fondo, se lo si assume come ennesimo cortocircuito di certi populismi nostrani, può starci anche questo.

E’ vero che Matteo Renzi non è più lo scapestrato sindaco di Firenze e che polverose regole di galateo politico avrebbero consigliato una sua presenza a Cernobbio: ma almeno due circostanze rendono invece coerente la sua discussa scelta. 

La prima - forse meno rilevante - la potremmo definire di carattere storico-personale: Renzi sul lago non c’è mai andato, non ha mai frequentato i cosiddetti «salotti buoni» e quei salotti non lo hanno mai apprezzato, in ragione del suo modo spiccio di far politica . «Ci considerano dei barbari», ha confessato al tempo della scalata avviata col suo piccolo esercito di «rottamatori».

Certo ha qualche simpatia e qualche amicizia personale in quel mondo, ma si tratta - naturalmente - di rapporti «scandalosi» e criticati: le cene con Davide Serra, i pranzi con Flavio Briatore, allo stadio con quell’altro panzer di Diego Della Valle. Poca roba, però: e insufficiente a ridurre le distanze da un universo che non ama e dal quale non è stato mai amato. Questa prima circostanza, è un’ottima premessa - diciamo così - per introdurre la seconda spiegazione ad un’assenza altrimenti incomprensibile.

 I «salotti buoni» e le «élite» economiche-culturali del Paese (da certi industriali ai «professoroni», per capirci) sono diventati, da un po’ di tempo, il nuovo nemico di Matteo Renzi, un leader che fin dai tempi dell’assalto alla Provincia di Firenze ha sempre nutrito la sua politica e il suo «populismo democratico» con l’assalto ad un nemico: in origine i Ds «arroganti», poi i vertici («bolliti») del Pd, quindi la «casta» da rottamare e, rottamata quella, ecco i gufi, i rosiconi e gli animatori dei «salotti buoni».

Un nemico sempre e comunque, insomma: per dare un credo alle truppe, sostanziare una causa e magari parlar d’altro, in una finora efficacissima opera di distrazione di massa. E i nemici, naturalmente, sono sempre populisticamente impopolari: quanti cittadini elettori, infatti, possono considerare le élite economico-finanziarie del Paese incolpevoli per la situazione in cui versiamo?

Detto questo, sarebbe però un errore non vedere un altro aspetto del modo di far politica di Renzi, che l’assenza da Cernobbio conferma in maniera evidente: una certa allergia ad esser «sponsorizzato» e la riproposizione di quel che un tempo (con qualche approssimazione) veniva definito il «primato della politica». L’unica chiamata estiva alla quale il premier ha risposto è stata quella dei boy scout a San Rossorre: niente Cernobbio oggi, e niente Meeting di Cl, ieri. «Non mi lascio né intimidire né condizionare», ama ripetere Renzi: a maggior ragione da quelli che uno stesso dirigente Pd (non renziano) definisce «luoghi della politica morta»...

Più difficile dire, invece, che idea abbia del Forum Ambrosetti Gianroberto Casaleggio, detto il guru, che l’anno passato intrattenne la platea con una contrastata lezione sulle sorti magnifiche e progressive di Internet. Ci torna per la seconda volta: e non per lanciare pietre, come suggeriva l’anno scorso qualche militante grillino in rete. Partecipa nelle vesti di presidente della «Casaleggio Associati» o di numero due del Movimento? Poiché scindere le due parti in commedia è difficile, anche la risposta è complicata.

Comunque, nella gara ingaggiata con Renzi a chi è più antisistema, stavolta i Cinque Stelle perdono per distacco. Eppure per il Movimento - e per lo stesso sistema politico - potrebbe non essere un male. Infatti, se la tanto invocata «costituzionalizzazione» dei Cinquestelle avesse come passaggio obbligato la presenza del guru a Cernobbio (tra massoni e truffatori...) anche i più scettici applaudirebbero convinti. Ma è poi così? Nel pendolo responsabili-irresponsabili di un Movimento disposto a dialogare con Farage, i jiadisti e ora i «banchieri massoni», ma non col governo italiano, il dubbio è lecito: tocca a loro, a Grillo e Casaleggio, dimostrare che la lezione del voto europeo non è arrivata invano.

Da - http://lastampa.it/2014/09/05/italia/politica/le-due-strategie-degli-anticasta-renzi-snobba-casaleggio-si-mischia-fFQHfGB6YJZW8wJ9y0AWPN/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #259 inserito:: Novembre 03, 2014, 05:45:24 pm »

Il duello delle due sinistre

26/10/2014
Federico Geremicca

Non aveva sbagliato, Matteo Renzi, quando si era detto certo del fatto che «la manifestazione della Cgil è contro di me». Ma forse nemmeno il premier avrebbe potuto immaginare quanto - e con che intensità - la giornata di protesta voluta da Susanna Camusso avrebbe appunto assunto questo profilo - questo carattere, diciamo - così personale. Ai leader della minoranza Pd che ieri hanno sfilato in corteo a Roma, è infatti toccato ascoltare slogan di una durezza forse inaspettata: «Un sogno nel cuore, Renzi a San Vittore». 

Immaginabile l’imbarazzo, considerato che il premier è pur sempre il segretario del partito in cui continuano a militare... 

La giornata di lotta contro le politiche del lavoro messe in campo dall’esecutivo è stata un successo (e non era scontato): un milione di persone - giunte per di più da ogni angolo d’Italia - non si muovono da casa per obiettivi sbagliati o poco sentiti. Ma il quinto raduno della Leopolda - per le presenze, i temi trattati e la vivacità del confronto - non è stato da meno. E questo, in tutta evidenza, costituisce un problema.

Il doppio successo, infatti, non facilita lo scioglimento del grumo polemico che ormai avvelena il Partito democratico: né i renziani né gli antirenziani - lo diciamo così per semplificare - appaiono in crisi di credibilità o a corto di argomenti. Il che, a prima vista, potrebbe sembrare un paradosso, ma invece non lo è: in maniera sempre più evidente, infatti, i primi ed i secondi parlano ormai a pezzi di società, a «pubblici», si potrebbe dire, del tutto diversi. Anzi: così diversi che è sempre più difficile immaginarne la coesistenza (e la rappresentanza) sotto una stessa insegna.

Questa diversità, questa distanza, ha avuto ieri - come sempre accade quando ci sono manifestazioni pubbliche - una rappresentazione addirittura plastica: in corteo a Roma con la Cgil, Cuperlo, Epifani, Bindi, Fassina, Cofferati e molti parlamentari Pd; alla tribuna o ai «tavoli tematici» della Leopolda, invece, imprenditori come Cucinelli, Bertelli e Farinetti, finanzieri come Davide Serra, e sei ministri del governo in carica. E per dirla ancor più chiaramente: mentre da piazza San Giovanni si preannunciava un possibile sciopero generale, dal «garage italiano» della Leopolda, si chiedeva la limitazione del diritto a scioperare (almeno nel settore pubblico...).

In che modo - e sulla base di quali compromessi - questa distanza, questa diversità, possano trovare un punto di sintesi è sempre più difficile da immaginare. Che una mediazione possa esser raggiunta affrontando il cosiddetto «merito delle questioni», sembra esser smentito - o quanto meno reso assai arduo - dalla cronaca recente, che ha visto «i due Pd» scontrarsi vivacemente proprio sul terreno delle cose da fare (dalla riforma del Senato fino al più recente Jobs Act, lo scontro è stato continuo).

Né pare più semplice siglare una tregua alla vecchia (e spesso oscura) maniera: qualche poltrona in cambio della fine delle ostilità...

E’ per questo che l’ipotesi di una separazione rimane in campo, e sarebbe sbagliato metterla frettolosamente da un canto come una pura «fantasia». C’è chi sostiene, anzi, che l’eventualità acquisterebbe rapidamente maggior concretezza se il campo degli oppositori di Renzi avesse (trovasse) un leader capace di unire il fronte e competere (anche sul piano mediatico: paradosso dei paradossi...) con la forza d’impatto del premier-segretario. In presenza della perdurante indisponibilità di Maurizio Landini a cambiare mestiere, il problema - però - resta irrisolto: con il carico di confusione e incertezza che ciò comporta.

Confusione, incertezza e un muro contro muro di fronte al quale anche i comportamenti personali - in questo o in quell’altro fronte - si fanno oscillanti, difficili. Tra la piazza e la Leopolda, qualcuno (D’Alema e Veltroni, per dire) ha preferito restare a casa e qualcun altro (come i governatori Chiamparino e Rossi) ha deciso di rifugiarsi in questo o quel convegno. Scelte in fondo comprensibili considerato che da domani, voltata pagina, tutto tornerà come prima. Le manifestazioni e i convegni, è vero, non creano lavoro: e spesso, purtroppo, non risolvono nemmeno i problemi... 

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/26/cultura/opinioni/editoriali/il-duello-delle-due-sinistre-v201GvJK0HmomEbg00mKnO/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #260 inserito:: Gennaio 10, 2015, 03:40:37 pm »

A rischio la sintonia con il Paese

07/01/2015
Federico Geremicca

Sono stati giorni non facili, gli ultimi, per il premier Matteo Renzi. A volerla dire tutta, anzi, le due settimane appena trascorse sarebbero letteralmente da buttar via. Una inebriante miscela fatta di eccesso di sicurezza, superficialità e senso di onnipotenza, ha infatti prodotto errori, scivoloni e forzature delle quali non si sentiva affatto la mancanza: soprattutto in un momento delicato come questo.

Se è a un tale modo di governare che il premier si riferiva con il suo ormai noto «meglio arrogante che disertore», ebbene quel modo - in tutta evidenza - non va: e all’ex sindaco di Firenze andrebbe ricordato che tra il disertare e il maramaldeggiare vi sono infinite - e spesso utilissime - vie di mezzo. Non percorrerle, a volte può rivelarsi errore fatale.

Quel che più colpisce nelle ultime gravi disavventure di Renzi (citiamo per tutte il caso del volo di Stato per Courmayeur e la cosiddetta norma fiscale «salva-Berlusconi») è che sembrano segnalare l’improvviso smarrimento della caratteristica che in quest’ultimo anno ha fatto del segretario-premier un leader popolarissimo e a suo modo diverso: la sintonia con il «comune sentire» della maggioranza dei cittadini italiani.

Infatti, avventurarsi con tanta disinvoltura nei campi minati rappresentati dai «privilegi della casta» e dall’evasione fiscale (soprattutto se riferibile anche a Silvio Berlusconi) è idea che, ancora qualche mese fa, non avrebbe mai nemmeno sfiorato il presidente del Consiglio. Il fatto che questo accada oggi, invece, testimonia - a parte tutto il resto - l’aprirsi di un solco insidioso e di una grande distanza dal «sentimento pubblico» che rischiano di fare di Renzi un premier non poi così diverso dai suoi predecessori. 

Segnalati però i pericoli che incombono sulla tenuta e la credibilità del capo del governo (preoccupanti, alla vigilia di quella sorta di percorso di guerra che lo attende in questo gennaio) e restando il Paese in attesa di chiarimenti su entrambe le questioni citate, non si può - contemporaneamente - non annotare un aspetto delle polemiche divampate che colpisce e, in qualche modo, perfino sorprende: un aspetto che si potrebbe definire di nostalgia della «resistenza» al berlusconismo.

Questa «resistenza» - spesso a uso strumentale e in larga misura ormai inattuale - ha segnato soprattutto le reazioni (ed i sospetti) intorno al giallo del decreto fiscale. Una «manina» per aiutare l’ex Cavaliere; un «inciucione» per ridare a Berlusconi agibilità politica in cambio dei suoi voti per il Quirinale; l’ennesimo frutto avvelenato del patto del Nazareno (che più che un patto pare esser un trattato, considerata la quantità di cose che prevedrebbe...). Solo dopo questo tipo di reazione - quasi un riflesso condizionato - si è allargata la riflessione al decreto fiscale in sé: se fosse cosa buona o sbagliata, utile o dannosa, a prescindere dall’impatto sulle vicende che riguardano Berlusconi.

 

Per 48 ore, insomma, tutto è parso tornare indietro nel tempo, a quando la bussola del fare o non fare del centrosinistra era orientata, appunto, sull’antiberlusconismo (salvo il non varare, dalla postazione di governo, quelle riforme - dal conflitto di interessi in giù - che avrebbero potuto limitare un certo strapotere dell’ex Cavaliere). Quell’abitudine, alimentata da incerte ricostruzioni, si rivela non morta: tanto che anche di fronte all’annuncio del premier che il nuovo decreto vedrà la luce il 20 febbraio, il sospetto avanzato è che quella data così distante serva a contrattare da posizione di forza i voti berlusconiani per il Quirinale.

Si tratta di una lettura degli avvenimenti politici che prescinde largamente da quanto accaduto nell’ultimo anno. Da quando è entrato nel tunnel del patto del Nazareno, Berlusconi ha visto il proprio declino accelerare. Oggi è un leader apertamente contestato all’interno del suo partito, ha perso tutte le elezioni svoltesi, secondo alcuni sondaggi è a capo addirittura della quarta forza politica del Paese (superato perfino dalla Lega) ed è opinione diffusa che pagherebbe di tasca propria per non restar tagliato fuori dall’elezione del nuovo presidente. Se fosse perfino ricandidabile alle prossime elezioni, l’en plein per Renzi sarebbe completo: considerato che giudica il Cavaliere - e forse non a torto - come il miglior avversario possibile in un duello elettorale.

Comunque stiano le cose, molte risposte non tarderanno ad arrivare, visto che il premier va incontro ad un gennaio cruciale. Lo comincia nel modo peggiore: col «vento in faccia», direbbe lui. Il guaio è che all’inevitabile vento della crisi, il governo ci sta aggiungendo del suo: segno di superficialità e confusione. Viatico pessimo per l’imminente battaglia del Quirinale...

Da - http://www.lastampa.it/2015/01/07/cultura/opinioni/editoriali/a-rischio-la-sintonia-con-il-paese-hC86Ci33EGwyHfHD6inEOJ/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #261 inserito:: Gennaio 22, 2015, 05:25:14 pm »

La vittoria rischiosa di Matteo
22/01/2015

Federico Geremicca

Non si tratta, al solito, di seminare pessimismo e preoccupazione, ma nel giorno in cui la nuova legge elettorale supera al Senato l’ostacolo più difficile e fa rotta verso la definitiva approvazione, l’interrogativo non può essere che questo: quanto tempo ancora potranno reggere equilibri politici che paiono, ormai, definitivamente frantumati?

L’interrogativo sarebbe non da poco in qualunque momento della vita politica del Paese. 

Ma è del tutto evidente che assume peso e valore particolarissimi ad una settimana esatta dall’avvio delle votazioni per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, infatti, escono personalmente vincitori – se vogliamo dir così – dalla durissima giornata di ieri: ma i loro partiti appaiono ormai incontrollabili, divisi in fazioni, organizzati in correnti e percorsi da sospetti al limite della denuncia penale. 

Renzi vince la sua partita sulla legge elettorale perché media con la sua minoranza interna finché possibile: ma poi, di fronte a 47 mila emendamenti, prende atto che il dissenso non è semplicemente di merito, che il vero obiettivo è dare un colpo mortale a lui ed al suo «patto del Nazareno» e dunque accelera, tira dritto e incassa il risultato. Al netto delle ironie e della propaganda di nuovo dilagante, occorre ammettere che la cosiddetta «politica degli annunci» comincia a produrre risultati, qualunque sia il giudizio di merito sui provvedimenti: dal Job Acts alla riforma della Pubblica Amministrazione, fino alle Grandi Riforme (Senato e legge elettorale) qualche risultato si comincia a vedere.

Anche Silvio Berlusconi, se si vuole, vince il suo match: ma è tutt’altro tipo di partita, rispetto a quella del premier. L’ex Cavaliere combatte per la sopravvivenza politica e – non avrebbe senso negarlo – per il futuro delle sue aziende. E’ forse davvero alla sua ultima grande battaglia: Matteo Renzi ce l’ha chiaro e sta cercando di ricavare il massimo dell’utile possibile dal cosiddetto «patto del Nazareno. Da quando lo ha stipulato, il declino elettorale di Berlusconi s’è fatto inarrestabile, come hanno confermato tutte le ultime tornate elettorali: Forza Italia è ormai il terzo, se non il quarto, partito italiano. Una situazione impensabile ancora un anno fa, quando gli uomini dell’ex Cavaliere erano al governo con Enrico Letta...

Ciò nonostante, a Renzi viene contestata dalla minoranza interna una sorta di «intelligenza col nemico». L’accusa ufficiale, insomma, è quella di aver stipulato un patto con l’avversario che conterrebbe clausole inconfessabili e segrete. Vedremo. Per ora la fronda interna a Forza Italia contesta a Berlusconi precisamente il contrario: e cioè di aver svenduto il partito, di averlo trasformato in «una piccola lista civica renziana» (Fitto) e di averne addirittura deciso il suicidio, accettando – cosa realmente incomprensibile – che l’Italicum assegni il suo premio di maggioranza non alla coalizione (come inizialmente concordato) ma al partito che ottiene più voti.

 

In realtà, è ben altra – e da tempo – l’accusa alla quale, secondo la minoranza, Renzi deve rispondere: aver snaturato il Pd, averlo trasformato in un «partito personale» e spostato «a destra» fin quasi a cambiarne i confini etici (ed è la ragione, per dire, dell’addio di Sergio Cofferati). Quello in atto, insomma, è un vero e proprio «rigetto» di parte del Pd verso il suo segretario. E l’accusa che gli è mossa è di quelle assai pesanti: una sorta di «indifferenza etica» inaccettabile in un leader pd. E’ per questo che in casa democratica volano gli stracci e ci si confronta a base di insulti e provocazioni: parassiti, inciucisti e perfino disonesti...

In tutto ciò, il merito delle questioni resta sullo sfondo. L’Italicum non è certamente la migliore delle leggi elettorali possibili, ma diventerà comunque legge e cancellerà il pessimo Porcellum. Si poteva fare meglio, naturalmente: soprattutto, diciamola tutta, avrebbero potuto fare meglio, in passato, quelli che per anni non hanno messo mano ad alcuna riforma perché il «Parlamento dei nominati», in fondo, stava bene quasi a tutti. Vedremo, comunque, se – come accusa oggi la minoranza pd – il voto di ieri al Senato sancisce davvero la nascita di una nuova maggioranza (politica, intendiamo: perché in materia di riforme costituzionali ed elettorali, maggioranze precostituite non dovrebbero essercene).

Se così fosse, la via dritta – naturalmente – non potrebbero che essere la crisi di governo e, con ogni probabilità, nuove elezioni anticipate. Certo, ci vorrà un Presidente della Repubblica in carica per sciogliere le Camere e permettere il voto. Ma questo è un altro film, le cui scene-chiave si gireranno la prossima settimana. Un altro film. E se anche le premesse non incoraggiano, si spera assai diverso da quello girato in Parlamento giusto due anni fa... 

Da - http://www.lastampa.it/2015/01/22/cultura/opinioni/editoriali/la-vittoria-rischiosa-di-matteo-3H8G4j1uKAsOIMlniPTW3L/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #262 inserito:: Febbraio 13, 2015, 02:31:55 pm »

Il Nazareno è finito ma solo un po’
11/02/2015

Federico Geremicca

Poiché, come si dice, anche l’occhio vuole la sua parte, la nuova vita di Forza Italia come partito di «opposizione integrale» è cominciata ieri in Parlamento in maniera un po’ così... Alla Camera, in particolare, sul testo di riforma del Senato, qualche voto contro la legge, qualche altro a favore, qualcun altro chissà. 

Del resto, perfino in politica - a volte - non è cosa proprio agevole dirsi improvvisamente contrari a cose sulle quali fino al giorno prima si eran stretti patti e fatti accordi. 

Comunque sia, con le dimissioni del co-relatore della riforma (Sisto) e l’intervento del capogruppo Brunetta, il cosiddetto Patto del Nazareno può dirsi pubblicamente, ufficialmente e parlamentarmente rotto. Il partito di Berlusconi annuncia ora un’opposizione «selettiva» (si capirà col tempo cosa significhi) e rivendica la libertà «di non esser scontento». Si vedrà in fretta quali effetti sortirà sul quadro politico la fine della discussa intesa tra Pd e Forza Italia: è certo, però, che in passato la rottura di «patti» politici importanti ha prodotto effetti tutt’altro che irrilevanti...

Patti, per altro, mai interamente rispettati e sempre traditi da qualcuno dei contraenti. Il «patto della staffetta», che prevedeva che Bettino Craxi cedesse a Ciriaco De Mita la guida del governo nella seconda fase della legislatura, fu rotto dal leader socialista nel febbraio del 1987 addirittura con una intervista tv a Gianni Minoli: dopo arrivarono le elezioni anticipate. E il relativamente più recente «patto della crostata» (giugno 1997) siglato in materia di Grandi Riforme a casa di Gianni Letta tra le coppie D’Alema-Marini e Berlusconi-Fini, fu infranto d’un colpo da Berlusconi, quando ritenne di averne tratto il massimo utile.

Anche in quel caso - proprio come per il Patto del Nazareno - si sussurrò di accordi inconfessabili tra D’Alema e Berlusconi: il sostegno del Cavaliere alle riforme istituzionali in cambio dello stop a leggi in materia di tv (che avrebbero danneggiato Mediaset) e ad un colpo di freni circa la regolamentazione del conflitto di interessi. D’Alema pagò un prezzo pesante - nacque allora il Dalemoni... - all’intesa con Berlusconi: la rottura di quel patto portò prima alla fine della Bicamerale (e del processo di riforme) e qualche tempo dopo alla crisi del governo di Romano Prodi...

Patti infranti e terremoti politici, insomma. Ma il presidente del Consiglio si dice convinto che stavolta non sarà così. La previsione del premier-segretario si fonda su due elementi di fatto difficilmente contestabili: il primo, i rapporti di forza concretamente in campo; il secondo, l’invincibile istinto di sopravvivenza di un Parlamento che, a torto o a ragione, vede farsi più concreta la prospettiva di una legislatura che arrivi fino alla sua scadenza naturale (2018). Vedremo se la previsione si rivelerà esatta. Certo, alcuni elementi sembrano avvalorarla.

Il più evidente è quello del possibile o presunto ingresso in gioco dei cosiddetti «responsabili» o «stabilizzatori» parlamentari (soprattutto senatori) pronti, si dice, a correre in soccorso della maggioranza. Il fenomeno - una sorta di movimento lento - è già perfettamente visibile. Ai fini pratici (sostegno al governo che perde i voti di Forza Italia sulle Grandi Riforme) l’effetto non cambia: ma la sensazione è che più che ad una «campagna acquisiti» del Pd, quel movimento sia il frutto del solito e italianissimo «salto sul carro del vincitore». A testimonianza di tradizioni, chiamiamole così, durissime a morire...

Se le cose stanno così, allora non è difficile capire le ragioni dell’ottimismo - un ottimismo quasi irridente - di Matteo Renzi: «Berlusconi oggi segue Brunetta e la Rossi, non più Letta e Verdini... Tornerà? Non credo. Ma l’importante è che torni la crescita, non che torni lui» ... 

Da - http://www.lastampa.it/2015/02/11/cultura/opinioni/editoriali/il-nazareno-finito-ma-solo-un-po-vCFBDEZMXCkmglKoHAIxZL/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #263 inserito:: Marzo 07, 2015, 03:59:12 pm »

L’economia ha fiducia, il partito meno

28/02/2015
Federico Geremicca

C’è qualcosa di effettivamente paradossale, a questo punto, nell’asprezza della discussione che continua a contrapporre - in maniera sempre più dura - il presidente del Consiglio e la minoranza del suo partito. La giornata di ieri, da questo punto di vista, può esser considerata esemplare: infatti, segna una sorta di punto di non ritorno nello scontro interno al Pd, proprio nel giorno che può esser considerato di svolta – o di avvio di svolta – per l’affaticata economia italiana. 

Due dati, dal forte valore simbolico, sembrano infatti far finalmente intravedere un po’ di luce in fondo al tunnel: lo spread sceso addirittura sotto i 100 punti (era oltre i 550 ancora tre anni e mezzo fa) e la ripresa, seppur lievissima, della crescita del prodotto interno lordo (che l’Istat stima a +0,1 nel primo trimestre di quest’anno, dopo oltre quattordici trimestri di calo o di assoluta stagnazione).

A questi dati ne andrebbero aggiunti un altro paio che interessano – più limitatamente – proprio Renzi e il Partito democratico. 

Il primo: la fiducia degli italiani nei confronti del presidente del Consiglio torna a salire e sfiora quota 50%; il secondo: l’ultimo sondaggio della Swg fotografa un Pd in buona salute e di nuovo oltre il 40% dei consensi (40,2, con una crescita di quasi un punto percentuale). Per apprezzare tale risultato basta annotare che gli immediati inseguitori del Partito democratico – Forza Italia e M5S – risultano più che doppiati e fermi ad un modesto 16,1%.

Naturalmente, sia i dati economici citati, sia lo stato di salute del governo e del Pd, possono essere variamente interpretati. Possono perfino esser considerati – senza ironia alcuna – ancora allarmanti e insufficienti: ma non sembrano giustificare, a dir il vero, quella sorta di Aventino riservato ieri dalla minoranza democratica al suo segretario, con la non partecipazione all’annunciata riunione dei gruppi parlamentari pd di dirigenti del peso di Bersani, Cuperlo, Bindi, Civati, Fassina e via elencando.

Dai leader che si oppongono a Matteo Renzi, sono arrivate critiche di ogni genere per motivare la scelta di disertare l’appuntamento voluto dal segretario-presidente. E non è che da altri mondi della sinistra politica e sindacale siano invece giunte carezze all’indirizzo del premier. Dopo il grande scontro sul Jobs Act, Susanna Camusso ieri lo ha accusato di «far confusione» sulla scuola; e Barbara Spinelli, europarlamentare, gli ha imputato addirittura di aver adottato il Piano di Rinascita di Gelli e della P2...

Che l’opposizione a Renzi da parte della minoranza Pd sia solo parzialmente (molto parzialmente) motivata da obiezioni di merito, lo si era inteso già da un po’: del resto, non c’è atto qualificante di questo governo – dalle riforme del Senato e della legge elettorale, fino al Jobs Act e agli interventi in materia di banche o di giustizia – rispetto al quale la minoranza Pd non abbia fatto le barricate e, a volte, perfino non votato i provvedimenti in esame. Possibile, allora, che un governo guidato dal segretario del Pd proceda sempre e solo con scelte sgradite prima di tutto a un pezzo proprio del Partito democratico?

Non è possibile, ovviamente. E la sensazione è che Matteo Renzi debba rispondere – agli occhi del vecchio gruppo dirigente Pd, battuto alle ultime primarie – di due peccati capitali. Il primo consiste nell’esser entrato nella stanza dei bottoni senza bussare e senza chieder permesso a nessuno: scegliendo la via della sfida aperta, cioè, senza attendere una qualche cooptazione da parte dei vecchi leader. Il secondo è forse ancor più grave: aver «aperto» a Berlusconi, averlo considerato (in materia di riforme) un interlocutore obbligato, aver seppellito – insomma – quell’«antiberlusconismo istintivo» che è stato per quasi vent’anni il maggior collante del centrosinistra italiano, se non addirittura l’unico.

Se le cose stanno così, è difficile immaginare che i «separati in casa» – Renzi e la minoranza interna – possano continuare in tal modo per molto tempo ancora. E’ vero che Bersani e i leader che si oppongono al presidente-segretario continuano a giurare di non volere una scissione, ed è giusto dar credito a questa assicurazione. Ma c’è una domanda alla quale, a questo punto, non si può sfuggire. Prima c’era la già sensazionale opposizione in Parlamento ai provvedimenti del governo, ora si è arrivati a questa sorta di Aventino «casalingo»: ecco, dopo la diserzione delle riunioni convocate dal segretario, quale può esser il passo successivo? 

DA - http://www.lastampa.it/2015/02/28/cultura/opinioni/editoriali/leconomia-ha-fiducia-il-partito-meno-34nRVrR3by4KMyTqJF0sxN/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #264 inserito:: Luglio 30, 2015, 10:23:50 pm »

Azzollini, un errore che mette a rischio l’identità del Pd
Il voto del Senato che sconfessa la posizione della Giunta è una scelta incomprensibile

29/07/2015
Federico Geremicca
Roma

Un’altra scelta poco comprensibile, un altro capitombolo: e stavolta sul terreno più delicato, quello che un tempo si sarebbe definito della «questione morale». Il voto con il quale il Senato ha detto no alla richiesta d’arresto per il senatore Azzollini ha scatenato una sorta di rivolta nella base Pd - e tra i leader della minoranza interna - che contesta ai vertici del partito di aver cambiato la posizione sostenuta in Giunta per le autorizzazioni (sì all’arresto) in una pilatesca «libertà di coscienza», i cui effetti ora sono sotto gli occhi di tutti.

Qualunque siano le ragioni della correzione di rotta - salvare la maggioranza di governo o sottovalutazione del clima che attraversa il Paese - essa si è rivelata sbagliata e poco comprensibile, per un partito che - in altre occasioni - ha chiesto e ottenuto dimissioni di ministri addirittura nemmeno indagati. Il vicesegretario Serracchiani ha commentato l’accaduto parlando di «occasione persa». Il punto è che occasione dietro occasione (dal caso-Crocetta alla vicenda di Mafia Capitale) quel che rischia di andar perduta è l’identità del Pd. Con tanti ringraziamenti da parte di Lega e M5S. 

Da - http://www.lastampa.it/2015/07/29/italia/politica/azzollini-un-errore-che-mette-a-rischio-lidentit-del-pd-f6MjKK37RrkwyCtHFML0jI/pagina.html
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #265 inserito:: Febbraio 18, 2016, 11:52:16 am »

Se la politica volta le spalle al Paese

17/02/2016
Federico Geremicca

Tutto da rifare o quasi. E non è una buona notizia, né per chi aspetta da anni una legge sulle unioni civili, né per i partiti politici e i movimenti che ieri, nell’austera aula del Senato, sono finiti travolti e poi sepolti dai loro stessi bizantinismi. Se ne riparlerà di nuovo stamane, ma dopo le mosse e le contromosse di ieri, non sono più in molti a scommettere che la tanto attesa legge vedrà davvero la luce, tra gli stucchi e i velluti di Palazzo Madama.

Cos’è successo, dunque, ieri? Semplicemente che il Movimento Cinque Stelle, pur di impedire un successo di Renzi, ha completato il suo dietro-front (avviato con la decisione di lasciare libertà di voto sulla stepchild adoption) annunciando il suo no al cosiddetto «emendamento canguro», col quale il Pd intendeva sgombrare il campo dalle migliaia di emendamenti presentati alla legge; ma è anche successo che lo stesso Pd, alle prese con non pochi problemi interni, non è stato in grado - né attraverso mediazioni, né attraverso la ricerca di nuovi accordi - di venir fuori dalla ragnatela di cavilli delle ultime settimane e di parare il colpo a tradimento del Movimento di Beppe Grillo.

Per Matteo Renzi, che decollava dall’Argentina per far ritorno a Roma proprio mentre il Senato s’impantanava, una pessima notizia. Una pessima notizia proprio a pochi giorni dal suo «secondo compleanno» a Palazzo Chigi. A parzialissima consolazione, il premier-segretario può incassare solo un marginale risultato d’immagine: e cioè, che proprio il Pd - alla fine - si sia dimostrato l’unica forza politica a voler davvero una legge che tuteli i diritti delle coppie omosessuali.

Non sappiamo, naturalmente, quanto il premier sia soddisfatto di tutto ciò. Al contrario, si può affermare in assoluta sicurezza che lo spettacolo andato in scena per settimane intorno alla legge sulle unioni diritti civili, sia stato tra i peggiori degli ultimi tempi. Una questione che è nervi e sangue per migliaia di coppie omosessuali è stata infatti trasformata in una Torre di Babele fatta di «canguri», inglesismi e «affidi rafforzati» capace di sgomentare qualunque normale cittadino. E se a questo si aggiungono i trucchi e gli sgambetti ideati per lucrare un qualche consenso elettorale, il quadro è completo.

Certo, a colpire di più è forse la scelta compiuta dal Movimento Cinque Stelle che, pur di evitare che il governo mettesse a segno un punto, ha progressivamente sbiadito - fino ad annullare - il suo sostegno alla legge, di fatto tradendo l’esito della consultazione tenuta tra i suoi aderenti. Gli uomini di Grillo potranno argomentare questa scelta in mille modi: ma non si sfugge alla sensazione che questioni di tattica politica ed elettorale abbiano finito per prevalere sugli interessi impellenti e concretissimi di migliaia e migliaia di cittadini. Un risultato davvero non eccelso per un Movimento nato per sconfiggere la vecchia politica.

Sia come sia, dopo mesi di estenuanti polemiche politiche, di manifestazioni di piazza contrapposte e di interventi a gamba tesa di questo o quell’esponente delle gerarchie vaticane, quel che resta è un desolante fallimento. Questo è il risultato di cui si discuterà domani in Europa (che continua da anni a chiedere all’Italia di dotarsi finalmente di una legge sulle unioni civili); ed è questo - ancora - ciò di cui dovranno prender atto i singoli, le coppie e le associazioni omosessuali che speravano in una norma che desse loro diritti da sempre negati.

E’ presto per dire quale sarà, ora, il destino della cosiddetta legge-Cirinnà. Stamane, infatti, il Senato tornerà a riunirsi, sperando che le trattative condotte nella notte abbiano sortito un qualche risultato. Vedremo. Ma se è vero, come si sostiene, che la speranza è l’ultima a morire, bisogna pur dire che ieri pareva tristemente agonizzante. 

Da - http://www.lastampa.it/2016/02/17/cultura/opinioni/editoriali/se-la-politica-volta-le-spalle-al-paese-yuTL0vqz8beUhDnhjmaXUI/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #266 inserito:: Giugno 09, 2016, 11:30:05 am »

L’Italia dopo il voto: una nuova geografia politica

06/06/2016
Federico Geremicca

Per le sorprese, se poi davvero arriveranno, bisognerà aspettare i ballottaggi: e dunque due settimane che già si annunciano di fuoco. Infatti, il primo turno di questa tornata amministrativa andata in scena ieri, è parso una sorta di sintesi delle previsioni e dei sondaggi intorno ai quali si è discusso e litigato fino a qualche giorno fa.

Anche se non c’è stato il crollo paventato di fronte a elezioni che non hanno entusiasmato e che sono state anzi a lungo surclassate dal futuribile e lontano referendum costituzionale; in nessuna grande città - comprese quelle dove era in pista anche il sindaco uscente - c’è un vincitore da incoronare al primo turno; l’avanzata dei Cinque Stelle c’è stata, ma porta al ballottaggio esponenti grillini in due sole grandi città: Roma e Torino; il centrodestra regge sostanzialmente soltanto a Milano e il Pd - infine - resta in campo praticamente ovunque, e giocherà la partita della vita in ballottaggi che si annunciano, però, tutt’altro che semplici.

Nel cuore della notte, a scrutinio ancora in corso e in mezzo a grandinate di proiezioni ed exit poll spesso contraddittori tra loro, qualche elemento di riflessione cominciava a farsi possibile. Intanto la conferma di un dato che appare, però, in costante evoluzione: il recente bipolarismo italiano (centrodestra contro centrosinistra) ha ormai definitivamente ceduto il passo ad un tripolarismo (centrodestra-centrosinistra-M5S) che pare però incubare, a sua volta, un bipolarismo nuovo e inatteso (centrosinistra-M5S). La migliore cartina di tornasole del processo in atto è Roma, dove un centrodestra diviso tra Giorgia Meloni e Alfio Marchini, nella notte rischiava l’esclusione dal ballottaggio a vantaggio, appunto, di M5S e Pd.

La Capitale, in particolare, è la culla della vera e propria esplosione della candidata grillina - Virginia Raggi - che sfiora il 40% (stando alle proiezioni) e mette una pesantissima ipoteca sulla vittoria finale. Roma nelle mani di una trentasettenne sconosciuta fino a ieri, è fenomeno che ha richiamato in città nugoli di troupe e giornalisti di tutto il mondo: considerato il risultato, è facile scommettere che si fermeranno per raccontare la definitiva capitolazione della città...

Matteo Renzi - che come premier ha depotenziato il valore di questa tornata elettorale, ma come segretario del Pd si è speso invece senza risparmio - può esser soddisfatto solo a metà di questi primi risultati: tra 15 giorni, infatti, il Partito democratico potrebbe aver riconfermato la guida di città importanti come Torino, Milano e Bologna, uscendo però sconfitto a Roma e non riconquistando Napoli (già perduta nelle elezioni precedenti). Il bicchiere è mezzo vuoto, insomma: anche in considerazione del risultato non brillante fatto registrare dai sindaci uscenti a Torino e a Bologna.
Lo sguardo, a partire da stamane, è già rivolto alla sfida dei ballottaggi: che sono, notoriamente, una partita del tutto diversa rispetto al primo turno. Non sarà inutile, però, guardare con attenzione al voto delle piccole e medie città per cogliere gli spostamenti di fondo nella geografia politica del Paese. Molto sembra essersi mosso: come e verso dove lo si comincerà a capire da stamane.
Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2016/06/06/cultura/opinioni/editoriali/litalia-dopo-il-voto-una-nuova-geografia-politica-ZUZbBEHUcgnqR1VqiTpeQN/pagina.html
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #267 inserito:: Giugno 26, 2016, 12:25:04 pm »

Intervista a Renzi: “Non torno al Pd delle correnti. Se vogliono cacciarmi, ci provino”
Il premier: “Il sì al referendum è la scelta più anti-establishment possibile. Il Jobs Act crea posti, è di sinistra. I gufi? Ormai ho rinunciato alle battute”
Premier e segretario: Matteo Renzi, 41 anni, è presidente del Consiglio dal 22 febbraio del 2014 e leader del Pd eletto alle primarie del dicembre 2013


24/06/2016
Federico Geremicca
Roma

Il suo ufficio: «Eccolo, spesso mi tocca passarci le giornate». La stanza dove dorme, metà studio-salotto e metà camera da letto: «Non sbirciate, c’è disordine...». La mitica Sala Verde, quella dei mega-incontri (ormai storia passata...) con sindacati e parti sociali: «Bella, no?». E poi la stanza nella quale c’è il telefono bianco sul quale è solito chiamarlo Barack Obama. 

È ora di pranzo e Matteo Renzi passeggia sotto i soffitti a volta del terzo piano di Palazzo Chigi accompagnando in una sorta di «visita guidata» Maurizio Molinari, direttore de «La Stampa». Appare in buona forma, nonostante tutto. Fa sport e nuota ogni mattina. E anche l’umore non è male, nonostante tutto. 

«Mi viene da sorridere - conferma - a guardare la piccola folla che pensa di scendere dal carro del presunto sconfitto, con la stessa rapidità con la quale ci era salita», dice con la solita ironia. Ma sarebbe sbagliato immaginarlo superficialmente indifferente al voto (traumatico) dei ballottaggi di domenica scorsa. Il Pd, che riunisce oggi la Direzione, sembra una pentola in ebollizione: e attorno al segretario-premier - fuori e dentro il suo partito - sono in molti a intonare il de profundis, immaginandone l’imminente caduta. «È normale - dice -. Non mi sorprendo e non mi spavento. Ma al mio partito, domani (oggi per chi legge, ndr) farò un discorso chiaro: un discorso che somiglierà ad una sfida».

Il senso sarà: se hanno proposte le avanzino. Ma se qualcuno pensa alle sue dimissioni o ad un ritorno alla stagione dei «caminetti» tra capicorrente, resterà deluso: «Se vogliono quello - dice - hanno una via dritta: trovarsi un nuovo segretario. Il Congresso non è lontano, possono provarci». Né intende accettare la lettura del voto che va per la maggiore: e cioè che il Pd arretra e perde in ragione di una politica di governo troppo poco di sinistra. È un’idea che Matteo Renzi rifiuta. Così come non crede che siano state certe alleanze con Verdini a penalizzare il Pd oppure l’impostazione (personalistica, dicono) data al referendum costituzionale, del quale - per altro - offre una lettura nuova.
«Votare sì - spiega il premier - è la scelta più anti-establishment possibile, oggi: infatti, significa ridurre le poltrone alla politica e tagliarne notevolmente i costi. Magari i senatori Cinque Stelle voteranno no per conservare il posto: ma non vedo perché gli elettori di Grillo non dovrebbero dire sì. E in ogni caso - conclude - finita la nostra discussione interna io riprendo il giro d’Italia per far campagna sul referendum, che era e resta la madre di tutte le battaglie e di tutte le riforme».

Dunque è inutile attendersi correzioni di linea e di toni dopo la sconfitta ai ballottaggi? 

«Intanto a me pare impossibile un giudizio uniforme e omogeneo sui due turni a livello nazionale. Se ci limitiamo ai ballottaggi, naturalmente, la lettura è chiara: una vittoria dei Cinque Stelle evidente, innegabile e netta. Ma il voto non è stato solo questo».

E cos’altro è stato? 

«Si è votato in 1.500 comuni e in 20 hanno vinto i Cinque Stelle. In 7-800 comuni abbiamo vinto noi e negli altri, non pochi, l’ha spuntata il centrodestra, che dunque c’è. Il dato politico è che ha perso la Lega, mentre noi l’abbiamo spuntata in quella che era definita la battaglia-simbolo: Milano. Non è che solo perché lì abbiamo vinto allora quel voto diventa irrilevante... Ma capisco che la sorpresa negativa di Torino abbia cambiato il racconto possibile: che ora è totalmente impostato su un’altra linea, e cioè la crisi del Pd».

Per il quale lei invece non vede difficoltà? 

«Di questo discuteremo appunto in Direzione, dove io porrò un problema che è anche di metodo. Nell’ultimo anno, infatti, il Pd è finito sui giornali soprattutto per questioni interne: ora, se qualcuno pensa che si possano conquistare voti con una costante presa di distanze dal segretario o dall’attività di governo, pensa una cosa stramba davvero».

Non può certo pretendere che tacciano e obbediscano. Per altro, dal punto di vista della minoranza interna al suo partito, il reato di cui è accusato è grave: aver spostato a destra l’asse del Pd e del governo. E questo è quel che avreste pagato nel voto di domenica. 

«Il Jobs Act è la cosa più di sinistra fatta negli ultimi anni, perché permette ai giovani di avere un lavoro a tempo indeterminato, che significa un mutuo, uscire di casa, affrancarsi. Ci sono 455 mila posti di lavoro in più da quando io sono presidente del Consiglio, è troppo poco, ma il numero è enorme. Aggiungo: per me è di sinistra la politica europea che abbiamo fatto, una linea apprezzata sull’immigrazione e lo stop a chi immaginava avventure militari in Libia... Noi abbiamo fatto la legge sui diritti civili, sul terzo settore, sull’autismo, sulla corruzione... Se alla fine mi si spiega che tutto questo non è di sinistra, io non so più che cosa dire».

Però è questo quel che le contestano, no? 

«Sì. Ma il punto vero è che, comprensibilmente o meno, dentro l’anima profonda del gruppo dirigente che oggi sta nella minoranza c’è sempre il sentimento di una sorta di usurpazione: come se io mi fossi autoproclamato segretario o capo del governo, ignorando che ho vinto le primarie e che è stato il mio partito a chiedermi di fare il presidente del Consiglio».

Nemmeno la criticatissima alleanza con Verdini può esser oggetto di correzioni? Non è anche questa una virata a destra? 

«E secondo lei la Valente si allea a Napoli con Ala e la conseguenza è che Fassino - sindaco bravissimo - perde il ballottaggio a Torino? Sono argomentazioni che non stanno in piedi. Servono a montare polemiche non solo inutili ma perfino dannose. Se noi stessi trasmettiamo agli elettori un’idea di inaffidabilità del Pd, mi pare complesso poi riuscire a vincere delle elezioni».

Magari queste polemiche sono giustificate dall’altra accusa che le viene mossa: aver abbandonato il Partito democratico al suo destino, non curando l’organizzazione sui territori. 

«È dieci anni che il Pd discute di se stesso, della forma partito, con chi lo vuole solido e chi lo vuole liquido. Io non ho toccato nulla di quel che ho trovato, ho fatto campagna elettorale ovunque, sono tutte le domeniche alla scuola di partito... Il punto è: qual è l’alternativa al modello organizzativo attuale? Io porrò il problema in Direzione in modo molto franco. Abbiamo una rete sul territorio eccezionale: ma questa rete va usata, e non sempre avviene. Non solo: questo partito, in passato, aveva smesso di funzionare ed era diventato ostaggio delle correnti nazionali, per cui il luogo della sintesi erano i “caminetti”. Dunque: finché io faccio il segretario del Pd, “caminetti” non se ne fanno. Volete il partito delle correnti? Allora cacciate me».

D’Alema, in verità, denuncia anche un altro rischio: che siano gli elettori ad andarsene. Infatti sostiene che lei stia rottamando anche loro... 
«D’Alema è stato appena rieletto, anche con il nostro aiuto, presidente della Federazione che unisce tutte le fondazioni del socialismo europeo. Ecco, io spero che a Bruxelles i nostri amici socialisti europei non si siano accorti del fatto che, in piena campagna elettorale, tra il primo e il secondo turno faceva telefonate invitando intellettuali e uomini di cultura a dare una mano alla candidata che a Roma si opponeva al candidato del suo partito. Una candidata, per altro, immortalata dietro i banchetti no euro. Lasciamo stare... Ma se questo è il modello di Pd che hanno in testa, un partito che logora il suo segretario, facciano pure: io intanto parlo al Paese».

Romano Prodi le pone invece un’altra questione: quella delle crescenti disuguaglianze. È un tema che crede di aver sottovalutato come capo del governo e, più ancora, come segretario del Partito democratico? In fondo, è una delle cose che le vengono rimproverate «da sinistra», no? 

«Quello della lotta alle diseguaglianze è un tema enorme, e certo non solo italiano. Pensi alla campagna elettorale americana, per esempio. Trump affronta la questione in maniera demagogica, Sanders l’ha fatto con proposte più classiche. E il Pd come intende affrontarla per provare a risolverla? Io penso con il Jobs Act e i nuovi diritti e strumenti che stiamo introducendo: non con il reddito di cittadinanza e uno stipendio assicurato a tutti. Si potrà non esser d’accordo, ma io credo alla società delle opportunità e non a quella della rendita. Ma certo se ogni volta che interveniamo e facciamo qualcosa veniamo tacciati come amici delle lobby, oggi i petrolieri e domani le banche, per dire, si torna al solito punto».

La sua sembra una linea di chiusura totale. Non cambierà nulla, dunque, nel Pd? Impossibile, per esempio, pensare a una gestione unitaria o a un vicesegretario unico? 

«La gestione è giù unitaria, la segreteria è già unitaria. Vogliamo cambiare? Io non ho preclusioni. Ma è importante l’analisi di partenza: non siamo nella situazione di tracollo del Pd che viene descritta sui giornali o in Transatlantico. Certo, abbiamo perso comuni importantissimi, come Roma e Torino, abbiamo preso un colpo e brucia, fa male. Ma succede di perdere delle amministrative, non si può sempre vincere dappertutto. E dalle sconfitte si può imparare, comunque, se si vuole».

E a chi chiede un segretario che si occupi a tempo pieno del Pd cosa risponde? 

«Che lo Statuto non lo prevede. Vogliono cambiare lo Statuto? Qualcuno si alzi, lo dica e spieghi qual è il modello alternativo che propone».

Insomma, lei non sembra preoccupato dall’esito del voto. Non lo considera un campanello d’allarme, anche in vista del referendum costituzionale? 

«Il referendum non c’entra niente con le amministrative: ma approvare quella riforma è la condizione per la quale l’Italia può giocare la partita del futuro. Non sono in ballo io, ma davvero il domani del Paese. Anche se, naturalmente, confermo tutto quel che ho detto accadrà in caso di sconfitta».

Ma è vero che intende farlo slittare un po’ per permettere al fronte del sì di spiegare meglio le sue ragioni? 

«E perché? Tempo ce ne è. Il referendum avrà la tempistica prevista dalla Cassazione. Punto e basta. Di che parliamo?».

Quindi, avanti tutta come prima? Come se niente fosse successo? Nessun aggiustamento né sul piano dell’azione di governo né sulla linea del partito? C’è perfino chi le chiede di cambiare atteggiamento, meno arroganza, battute, presunzione... 

«Le ho appena detto che dalle sconfitte si può imparare molto. Io non dico facciamo finta di niente: dico discutiamo sul serio però, senza analisi strumentali e superficiali. Io accetto la sfida della riflessione, ma che sia in profondità. Non darò qualcosina a qualcuno, un dipartimento, un nuovo incarico di responsabilità, così che dicano “ha capito la lezione”. Io in Direzione dirò al Pd: discutiamo, ma poi tutti al lavoro sul territorio, nelle città, dietro ai banchetti. È una sfida».

E per quanto riguarda i suoi atteggiamenti un po’ guasconi? All’inizio forse piacevano, ora sembrano addirittura danneggiarla... 

«Io una riflessione su di me e su come sono percepito la devo fare. Il fatto non mi sconvolge né mi preoccupa, perché penso sia fisiologico - dopo due anni - che uno che governa si prenda gli insulti. Una volta Obama mi ha detto una cosa divertente: fino a che sei al governo ti giudicano sulla base delle loro aspettative, ma quando ci sono le elezioni ti valutano sul piano delle alternative... Sì, vedo un rischio di personalizzazione: ma da parte delle opposizioni contro di me. In alcune persone vedo non solo personalizzazione, ma addirittura odio. Sei considerato il responsabile di ogni male, insomma. Devo cambiare qualcosa? Certamente ho qualcosa da cambiare anch’io. Magari nei toni, nello stile, vedremo...».

Magari smetterla con i gufi e i professionisti delle tartine potrebbe comunque aiutare, no? 
«Ma io ho cambiato su questo. Ho smesso di insistere su questi aspetti, e non so è stato un bene o un male... Però ormai rinuncio alle battute. Detto questo, ammetto che se guardassi alcune tv e leggessi alcuni giornali, nemmeno io voterei per me, tante sono le critiche... Questo è un Paese dove, del tutto legittimamente, uno che si è messo a governare per cambiare le cose viene attaccato in continuazione. Ci sta. Certo, farei volentieri a meno di certo fuoco amico».
Torniamo alla polemica interna? 

«Solo perché l’accusa di non aver fatto e di non fare politiche di sinistra non la digerisco. Ne voglio discutere, voglio sentire le loro proposte. Ma ripeto: seriamente. Il senso di quest’intervista potrebbe essere: il Pd viene sfidato in positivo dal suo segretario. E li avviso: se vogliono passare le giornate a continuare ad attaccarmi, facciano pure. Ma io, da dopo Brexit ed il Consiglio europeo, me ne andrò in giro per il Paese a fare iniziative per il referendum costituzionale. Quella riforma è la madre di tutte le battaglie. Peserà sul futuro dell’Italia. Potrà assicurare stabilità. E glielo dico oggi, proprio nel giorno in cui nell’Italia dei 63 governi dal dopoguerra ad oggi, il mio diventa il quinto per longevità. Il quinto, dopo appena 28 mesi. Ed è evidente che qualcosa non va».

 
Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2016/06/24/italia/politica/intervista-a-renzi-non-torno-al-pd-delle-correnti-se-vogliono-cacciarmi-ci-provino-fDbkGrSdVpSnrgL8mNTloK/pagina.html
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #268 inserito:: Novembre 20, 2016, 11:54:23 am »

L’ultima caccia agli indecisi

Pubblicato il 18/11/2016
Ultima modifica il 18/11/2016 alle ore 07:22
Federico Geremicca

L’ultima fotografia legalmente possibile degli umori del Paese alla vigilia del referendum immortala un elettorato ormai sfinito che marcia verso il voto del 4 dicembre con le idee, però, non ancora del tutto chiare. Secondo la rilevazione dell’Istituto Piepoli (14 novembre) l’esercito degli indecisi rappresenterebbe tutt’oggi un quarto del totale: ed è proprio questo 25% o giù di lì di cittadini incerti ad esser ormai diventato l’ultimo territorio di caccia grossa per i sostenitori del Sì, costretti ad un finale di campagna che forse non immaginavano. 

Certo, dopo la débâcle americana - che ha rinverdito altri fiaschi clamorosi: a partire dal voto europeo del 2014 - sondaggi e sondaggisti sono stati investiti da commenti ironici o apertamente sarcastici. Eppure un filo comune lega la miriade di rilevazioni effettuate dall’avvio della campagna ad oggi: partito in vantaggio (56 a 44, per Piepoli) il Sì ora si trova a dover inseguire (46 a 54). E se gli indecisi sono via via diminuiti, restano in numero ancora così alto da non far dormire sonni tranquilli ai sostenitori del No.

È per questo che la bussola di Matteo Renzi è ormai decisamente orientata in quella direzione. Ed è per questo - per la conquista del voto degli indecisi - che si sentono e si continueranno a sentire tesi, argomenti e lettura dei fatti talvolta realmente sorprendenti.

L’ultimo in ordine di tempo, è la sorta di appello rivolto in queste ore dal premier-segretario alla cosiddetta «maggioranza silenziosa». Uno scandalo, secondo alcuni; mentre altri considerano quel richiamo poco più che un approdo inevitabile, considerati i tempi e l’aria che tira in giro per il mondo. 

Alla «maggioranza silenziosa», fece appello per primo Richard Nixon, facendo di quella entità - dunque - una «cosa di destra» nel senso comune. Sepolta nel corso degli anni, è stata ora rispolverata da Trump nella sua trionfale campagna: The silent majority is back and we’re going to take our country back (la maggioranza silenziosa è tornata e stiamo per riprenderci il Paese). Renzi l’ha evocata in questi giorni per la prima volta: ed il suo riferimento non stona con una linea che, fin da prima del referendum, è stata sempre attentissima - anche attraverso semplificazioni talvolta discutibili - a cogliere umori e consensi dell’elettorato di centrodestra.

Un mix di liberalismo in economia e di populismo in politica che Eugenio Scalfari - al suo manifestarsi - definì «populismo democratico»: e oggi si coglie appieno la fondatezza di quella definizione. Il punto che resta da definire è se questo «populismo democratico» sia davvero il male minore di fronte al dilagare di populismi assai meno democratici o se il rilancio di una politica di sinistra-sinistra sia un antidoto migliore: se si guarda al voto americano e alla condizione nella quale versano - dalla Gran Bretagna alla Francia, dalla Spagna alla Grecia - i laburismi e i socialismi europei, qualche dubbio è lecito.

Anche per questo, in fondo, il referendum del 4 dicembre e l’incertezza che lo circonda può esser considerato da Renzi una sorta di prova generale delle elezioni politiche che verranno. Nello scontro col fronte del No, infatti, il premier sta come sperimentando un ampliamento dello spettro delle risposte possibili ai problemi sul tappeto. E cosi, alle soluzioni classiche patrimonio della sinistra (e di scarso successo, in giro per l’Europa), sta accompagnando suggestioni e temi cari all’elettorato moderato: e cioè, all’imperscrutabile «maggioranza silenziosa». Fra tre settimane il verdetto: che riguarderà certo il referendum, ma potrà riverberare effetti anche molto più in là.

Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2016/11/18/cultura/opinioni/editoriali/lultima-caccia-agli-indecisi-BLfJ8XrFZExMUE4BM6goNJ/pagina.html
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #269 inserito:: Novembre 26, 2016, 09:16:16 pm »


Un premier 3.0 per rovesciare il pronostico

Pubblicato il 26/11/2016
Ultima modifica il 26/11/2016 alle ore 07:57
Federico Geremicca

Ci sono le battute, come inevitabile: «Nella mia veste di scrofa ferita e aspirante serial killer...». Qualche faticosa autocritica: «La mia sorte non è importante, non farò l’errore di personalizzare». Un avvertimento a Berlusconi (e non solo) di cosa potrebbe riservare l’alba del 5 dicembre, se vincesse il No: «Lui dice “il giorno dopo ci sediamo al tavolo con Renzi” ... No, a quel tavolo ci troverà Grillo e Massimo D’Alema». Ma nella lunga intervista concessa ieri dal premier a Massimo Gramellini, c’è soprattutto - in controluce - l’asse portante della possibile strategia futura: certo buona in caso di vittoria del Sì, ma ugualmente utile anche in vista di una campagna elettorale che molti ormai vedono vicina.

Una sorta di Renzi 3.0, che ha bisogno di una premessa nella quale il segretario-premier, naturalmente, crede ancora: la vittoria del Sì al referendum. Una vittoria che - a giudizio di Renzi - farebbe dell’Italia e del suo governo (premier in testa) il soggetto più forte in Europa, considerate le fatiche e le insidie elettorali che attendono Angela Merkel e François Hollande. E una forza che, acquisita in Italia, Renzi intenderebbe spendere - ed è una novità - soprattutto in Europa: «Il 2017 sarà cruciale per l’Europa, l’Italia deve avere una sua forte strategia».

Una strategia, una linea, che il presidente del Consiglio ha sintetizzato con una battuta: «Tra populismo e globalizzazione». Tradotto in politica - e col volto dei due leader che oggi meglio paiono incarnare quei due filoni - fra Trump e Merkel: una specie di terza via tra populismo nazionalista e certo rigore tecnocratico europeo. Che comunque obbligherebbe Renzi a trovare un equilibrio tra la fase uno del suo governo (convintamente europeista) e l’attuale fase due, segnata da polemiche quotidiane, veti annunciati e rivendicazione di sovranità. 

 Per il premier si tratterebbe, in fondo, di dare spessore e sistematicità a quel che in qualche modo è già stata la sua discussa pratica di governo in questi mille e passa giorni: accompagnare a classici provvedimenti «di sinistra» iniziative (leggi) che parlino anche all’elettorato più moderato, di centrodestra. Un tentativo, insomma, di tener conto del vento che tira e provare ad evitare al Pd la sorte che si è abbattuta sui socialisti spagnoli, francesi e greci, e sugli ancora provati laburisti inglesi.

 

Si tratta, come è evidente, di un tentativo non facile e già oggetto di contestazione - nell’ultimo anno almeno - per l’implicito «snaturamento» di approcci e valori classici e cari alla sinistra italiana. Ma soprattutto, questa ipotetica terza via sarebbe più difficilmente percorribile senza la forza - una sorta di investitura - che una vittoria del Sì attribuirebbe a Renzi ed al governo, tanto sul piano interno quanto sullo scenario europeo. Ma che possibilità ha il Sì di prevalere nelle urne del 4 dicembre?

Difficile dirlo. Ma da qualche giorno, paradossalmente, la campagna referendaria - dopo tentativi di spersonalizzazione e discussione nel merito - sembra esser tornata precisamente al punto di partenza: il referendum sul premier. Con una novità non da poco, dettata - forse - dall’avvicinarsi della sentenza. Infatti, al cacciamo (o salviamo) Matteo Renzi, si è andata aggiungendo una domanda: va bene, lo cacciamo, ma dopo che succede? Anche per questo è difficile immaginare che il rush finale di questa campagna venga lasciato ai costituzionalisti e a dotti confronti sul bicameralismo: lo scontro sarà tutto politico, e l’arma più forte in mano al Sì - checché se ne pensi - oggi sembra proprio essere quella certa e atavica paura italiana del «salto nel buio». Come forse, mesi e mesi fa, Matteo Renzi aveva immaginato. O forse soltanto sperato.
 
Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2016/11/26/cultura/opinioni/editoriali/un-premier-per-rovesciare-il-pronostico-aKgbiFXJsjefosG7LU3s3I/pagina.html
Registrato
Pagine: 1 ... 16 17 [18] 19 20
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!