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« Risposta #195 inserito:: Novembre 17, 2012, 09:20:23 pm » |
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Editoriali 17/11/2012 Il fattore inaffidabilità economica Federico Geremicca Difficile chiamarle pressioni. Ma anche difficile far finta di niente. Soprattutto se da pronunciamenti isolati e un po’ generici, la faccenda si è andata trasformando - se non in una vera e propria campagna - certo in un coro ormai assordante. E un coro nel quale a dichiarazioni sempre più esplicite vanno ormai aggiungendosi iniziative politiche che ai piani alti di Largo del Nazareno - sede del Pd - definiscono dal profilo «ambiguo e preoccupante». C’è un mondo che non vuole che il prossimo governo, qui in Italia, sia guidato da una personalità diversa da Mario Monti. C’è un mondo, più in particolare, che non ritiene che il prossimo esecutivo possa essere presieduto da un esponente del centrosinistra: peggio ancora se ex comunista. Non è una novità perché, fino alla caduta del Muro, questa era una regola non scritta (pur se talvolta perfino scritta...). Ma il Muro è crollato un quarto di secolo fa: e Pier Luigi Bersani - nonostante fosse rimasto colpito da alcuni segnali ricevuti fin dalla ripresa dopo la pausa estiva - davvero non immaginava che potesse esser riproposto una sorta di veto simile. Larga parte delle gerarchie ecclesiali; il mondo della finanza nel suo complesso; le agenzie di rating; la Bce e la Commissione europea; autorevoli capi di governo come Angela Merkel: l’elenco dei sostenitori di un Monti-bis - per dirla in sintesi - non è né breve né ininfluente. E se a questo elenco si aggiunge ora la nuova amministrazione Obama, il quadro è completo. E per Pier Luigi Bersani e il suo partito, tutt’altro che tranquillizzante. Non è, naturalmente, che il leader del Pd queste cose abbia dovuto leggerle sui giornali. E’ il discorso che si è sentito fare almeno un paio di volte da autorevoli esponenti dell’amministrazione Obama (anche qui in Italia). Gli argomenti utilizzati non erano ovviamente ignoti a Bersani: la credibilità di Monti in Europa, il fatto che questo costituisse una garanzia per gli Usa, il rischio insito nel cambiare uomini e linee di programma di una strategia di risanamento che qualche risultato lo sta dando... Il segretario del Pd ha ascoltato le opinioni dei suoi interlocutori ma ha naturalmente tenuto il punto: l’idea di andare al voto proponendo la riedizione di un governo Monti è irricevibile, e dell’Italia, dei suoi elettori e dei suoi partiti bisogna fidarsi. Per Bersani, il governo futuro - dunque - sarà quello che sceglieranno i cittadini. Una come Rosy Bindi - presidente dell’Assemblea nazionale del Pd - che conosce bene Bersani per il lavoro comune svolto assieme negli ultimi tre anni, arriva addirittura ad ipotizzare che una delle ragioni per le quali il leader Pd ha deciso di accettare la sfida delle primarie avanzatagli da Matteo Renzi, sia proprio qui: nella ricerca di una legittimazione popolare ampia alla sua ambizione di guidare il futuro governo. Difficile esserne certi, ma l’indurimento dei toni verso Monti e il suo governo («non scommetterei un centesimo sul suo bis»...) e la rivendicazione del diritto della politica a tornare in campo, sembrano segnali fatti apposta per confermare l’indisponibilità Pd ad esaudire i desiderata provenienti dall’Europa e da oltreoceano. E’ anche per questo che i democrats guardano con sospetto crescente alla nascita della «Lista per Monti» targata Montezemolo-Olivero-Riccardi-Bonanni. Perché proprio ora? Perché Monti non ne prende le distanze? Perché alcuni suoi ministri sono tra i protagonisti e addirittura tra i co-fondatori? E quanto può aver contato il peso nel mondo di un esponente come Andrea Riccardi, «ministro degli esteri» di un pezzo importante di mondo cattolico, nel convincere Cancellerie e governi europei dell’opportunità di mantenere in sella Mario Monti? Sono gli interrogativi che ormai da giorni accompagnano Pier Luigi Bersani nel suo tour in giro per l’Italia a caccia di voti per le primarie. Un tour che nasconde, a questo punto, un doppio pericolo: quello di rischiare l’osso del collo contro Renzi e quello di ottenere la classica vittoria di Pirro. Vincere le primarie, cioè, poi vincere le elezioni ma non poter diventare capo del governo. E stavolta non per «generosità politica» ma per una sorta di veto che ancora pochi mesi fa non avrebbe certo immaginato. Un tempo si diceva «inaffidabilità democratica», ora qualcuno la chiama «inaffidabilità economica»... da - http://lastampa.it/2012/11/17/cultura/opinioni/editoriali/il-fattore-inaffidabilita-economica-32pmnmcrU54En9JR1Ae7BP/pagina.html
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« Risposta #196 inserito:: Novembre 23, 2012, 09:37:54 pm » |
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Editoriali 23/11/2012 Il doppio segnale del Colle Federico Geremicca Con uno sforzo estremo di semplificazione, le parole pronunciate ieri a Parigi da Giorgio Napolitano sulla incandidabilità di Mario Monti e sull’eccentricità di una «Lista per Monti» alle elezioni («Non so che senso avrebbe») potrebbero esser tradotte così: partiti, basta tirare la giacca a Monti. Ma anche: Monti, basta farti tirare la giacca dai partiti. E per quanto il commento alle parole di un Presidente della Repubblica vada sempre prudentemente ponderato, è evidente che una novità sembra esserci: per la prima volta, forse, un intervento del Capo dello Stato lascia infatti trasparire in controluce una qualche insofferenza anche verso certi tentennamenti del premier. Fino ad oggi, il Presidente della Repubblica si era limitato a segnalare - in colloqui privati con Monti - i molti rischi che vedeva legati ad una eventuale perdita di neutralità e «terzietà» da parte del premier: i partiti, già in sofferenza, avrebbero infatti certamente mal reagito di fronte anche al solo sospetto che il presidente del Consiglio tecnico si stesse trasformando - con l’avvicinarsi delle elezioni - in presidente «di parte». Questo, secondo il Capo dello Stato, avrebbe potuto pregiudicare non soltanto la tenuta e l’operatività del governo in un momento ancora assai complicato, ma perfino la possibilità che l’esperienza-Monti potesse aver un seguito - dopo il voto - in caso di necessità (necessità economica, certamente, ma anche politica). A fronte di questi consigli, dal Quirinale hanno potuto osservare - diciamo da settembre in poi - una crescita esponenziale della confusione e dei rischi segnalati: ministri, viceministri e sottosegretari «testimonial» di questa o quella iniziativa politica, esponenti di punta dell’esecutivo presenti al battesimo di nuove compagini o movimenti e addirittura l’annuncio dell’intenzione di presentare alle elezioni di primavera una «Lista per Monti». E di fronte a questa pericolosa effervescenza - che non ha mancato, come il Quirinale temeva, di moltiplicare timori e sospetti - il silenzio di SuperMario, nella migliore delle ipotesi, e nella peggiore, dei poco comprensibili avanti e indietro, chiarimenti, smentite e contro-chiarimenti che hanno reso ancor più nervosi i partiti che si preparano a difficilissime elezioni. Il richiamo di ieri nasce da qui: arriva, cioè, da lontano. Un richiamo ai partiti, certo, che dimenticano la circostanza che Mario Monti - nominato senatore a vita da Napolitano proprio per garantirne la «terzietà» - non è candidabile alle elezioni. Ma come non leggere, nelle parole di Napolitano, un nuovo invito al premier a ponderare bene le sue prossime mosse? «Quale sarà il peso di questo ipotetico gruppo (la lista per Monti, ndr) in Parlamento»? E non è noto che l’incarico di formare il futuro governo verrà dato dal Presidente della Repubblica «sulla base dei risultati elettorali»? Insomma: cosa ha da guadagnarci, Monti, a sponsorizzare una lista o un movimento che ottenesse alle elezioni politiche poco più o poco meno di Beppe Grillo, e comunque certamente non la maggioranza (nemmeno relativa...) dei voti che verranno espressi? C’è forse - infine - un ultimo elemento che potrebbe aver pesato nel doppio monito parigino del presidente: ed è cioè il fatto che Giorgio Napolitano si consideri, in qualche modo, il garante dell’equidistanza e del profilo tecnico di Monti e del suo governo. E’ per questo che lo ha voluto senatore a vita; è per questo che, quando decise per l’incarico a SuperMario piuttosto che le elezioni, patì qualche incomprensione da parte del suo partito d’origine (il Pd, dato vincente al voto già allora); ed è per questa scelta che si è ritrovato oggetto di pesanti attacchi da molte delle forze contrarie al governo-tecnico. Sarebbe paradossale, ora, che a smentirlo nella giustezza della scelta compiuta fosse proprio Mario Monti: magari scendendo in campo come padre nobile di un nuovo partito, dopo aver contribuito a rottamare quelli vecchi... da - http://lastampa.it/2012/11/23/cultura/opinioni/editoriali/il-doppio-segnale-del-colle-bNpfyMiIvx7bAQTTeKBJWI/pagina.html
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« Risposta #197 inserito:: Novembre 26, 2012, 12:10:26 pm » |
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Editoriali 26/11/2012 La migliore risposta all’antipolitica Federico Geremicca Oltre tre milioni e mezzo di cittadini pazientemente in fila per votare, decine di migliaia di volontari ai seggi, altre migliaia nei comitati elettorali dei diversi candidati, spalmati da Nord a Sud lungo tutto il Paese. Le primarie del centrosinistra sono state prima di tutto questo una boccata d’ossigeno e quasi un’assicurazione sulla vita per il sistema-Italia nel suo complesso. Non è retorico annotarlo: soprattutto all’indomani del voto siciliano, che ha infranto e superato la barriera del 50 per cento di astensioni. C’è un pezzo di Paese - insomma - che partecipa, vota, resiste e crede ancora che abbia un senso impegnarsi per cambiare. Il dato è sensazionale, gonfio di significati e però - paradossalmente - non è certo piaciuto a tutti. Fa sensazione, ad esempio, la durezza che traspare dalle dichiarazioni di Beppe Grillo, leader del M5S. Ai milioni di cittadini in fila, ha riservato giudizi e commenti stizziti: «L’ennesimo giorno dei morti», «un grottesco viaggio nella follia», «una autocelebrazione di comparse» e via recriminando. A testimonianza, forse, che davvero la partecipazione attiva dei cittadini - e la buona politica, diciamo così - continuano ad essere il miglior antidoto alla cosiddetta antipolitica. Nel cuore della notte e a dati tutt’altro che definitivi, le cifre dicono che la partita tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi va al secondo tempo, al ballottaggio. Il segretario - che stravince soprattutto al Sud - è davanti con un distacco tra i cinque e gli otto punti, lontano dal 51% ma comunque saldamente in testa. Il dato più sorprendente, però, è il risultato ottenuto da Matteo Renzi, che miete consensi nelle «zone rosse» - Toscana e Umbria in testa - e nelle città medie. A quasi metà spoglio è attorno al 35%, e si può dire - in una battuta - che Bersani ha voluto le primarie, ma Renzi ha dato loro un senso e un’anima. Il sindaco di Firenze, infatti, aveva contro gli stati maggiori di tutti i partiti del centrosinistra, eppure è riuscito a costringere Bersani al ballottaggio: non è poco. Soprattutto - con i suoi slogan aspri - ha reso chiari i termini della scelta che propone. Rottamazione contro usato sicuro, è stato detto. Tradotto in opzioni politiche: cambiamento radicale contro mantenimento dello status quo. Una sfida elettrizzante, quella di Renzi, ma generatrice - contemporaneamente - di molti timori. Il nuovo, infatti, spesso spaventa: e spaventa ancor di più in fasi come quella attuale, quando la crisi che scuote il Paese non invita certo a «salti nel buio». Pier Luigi Bersani, che ha voluto le primarie contro il parere spesso esplicito (da Veltroni a Bindi a D’Alema) di molti leader della sua maggioranza, ora dovrà serrare ulteriormente le file infatti, anche se il suo vantaggio è notevole, è difficile immaginare che tutti i voti raccolti dagli altri tre contendenti (Vendola, Puppato e Tabacci) confluiranno automaticamente sul suo nome al secondo turno. E’ anche per questo che l’esito finale della sfida resta aperto. Molto dipenderà da se e chi decideranno di votare gli elettori di Vendola. E molto sarà determinato dalle dinamiche politiche (e perfino psicologiche) che il ballottaggio innescherà, dentro e fuori il centrosinistra. Il cambiamento - la «piccola rivoluzione» - a molti sembrerà a portata di mano: alcuni ne saranno esaltati, altri - forse - spaventati. E così, l’interrogativo - alla fine - resta lo stesso: se è meglio scommettere sulla rottamazione o andare più tranquilli tornando a scegliere l’usato sicuro... da - http://www.lastampa.it/2012/11/26/cultura/opinioni/editoriali/la-migliore-risposta-all-antipolitica-HOZrum9KHJ5Kv1qXKZladL/pagina.html
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« Risposta #198 inserito:: Dicembre 03, 2012, 06:44:44 pm » |
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Politica 03/12/2012 - centrosinistra, le sfide del pd Il partito adesso non potrà più ignorare Renzi Come ha detto il segretario, sarà necessario “dare occasioni alle nuove generazioni” Federico Geremicca ROMA Le elezioni primarie, maggioritarie per definizione, hanno una regola molto semplice: chi vince vince, chi perde è fuori. Pier Luigi Bersani ha prevalso - e bene - nella sfida lanciatagli due mesi fa da Matteo Renzi: eppure è difficile immaginare che il sindaco-“rottamatore” sia fuori dai giochi. E questo non soltanto per la quantità di consensi ricevuti. Ma anche perché è difficile immaginare che sia proprio il segretario Pier Luigi Bersani a considerarlo fuori... Quel che infatti da oggi dovrebbe essere evidente - o semplicemente: ancora più evidente - è quanto fosse sbagliato pensare (se qualcuno ai vertici del Pd l’ha pensato sul serio) che l’insoddisfazione per come vanno le cose, la rabbia per il pantano in cui è finita la politica e la voglia di cambiamenti radicali, fossero sentimenti che riguardassero altri, ma non il “popolo del centrosinistra”. Se non erano bastate le primarie-choc per la scelta dei candidati-sindaco in città come Milano, Genova, Cagliari e Napoli (finite tutte con la sorprendente sconfitta dei “candidati ufficiali”) i consensi raccolti da Matteo Renzi sono lì a confermarlo. Il quaranta per cento degli elettori andati alle urne in questa domenica di freddo e pioggia, ha infatti votato per il sindaco-rottamatore. Il dato è politicamente rilevante. Ma lo è anche numericamente, se si considera che Renzi aveva come avversario il segretario del partito, la quasi totalità degli apparati e dei gruppi parlamentari, la larghissima maggioranza dei sindaci e dei governatori del centrosinistra e - al ballottaggio - anche gli altri tre candidati al primo turno (Vendola, Puppato e Tabacci). Aver raggiunto in queste condizioni il 40 per cento dei consensi, è un risultato non scontato e che può soddisfare Renzi. E che - visto che questa partita è ormai chiusa - può servire non poco allo stesso Pier Luigi Bersani. Al segretario uscito vincitore da una sfida che nascondeva (come poi si è visto) più insidie di quante fossero prevedibili in avvio, Matteo Renzi - meglio: le esigenze di cambiamento da lui raccolte e rappresentate - offre una straordinaria occasione per far “girare la ruota” del rinnovamento, come più volte promesso dal segretario prima e dopo la sfida delle primarie. Lo stesso discorso con il quale Renzi ha commentato la sconfitta e “passato la palla” al vincitore, gliene offre tutta la possibilità. Sta al segretario, adesso, coglierla: sapendo, naturalmente, che il momento non è dei più facili e gli ostacoli che gli verranno frapposti saranno molti. Non c’è dubbio che i primi arriveranno dal suo stesso partito, il Pd. E’ dentro il Partito democratico prima di tutto - come annotato dallo stesso Bersani - che la ruota deve girare. Vinte le primarie, quell’impegno non lo ha rinnegato, anzi: «Adesso - ha detto nel discorso col quale ha celebrato la vittoria - devo predisporre i percorsi e gli spazi per dare occasioni alle nuove generazioni». Non ha taciuto, inoltre, la circostanza di aver voluto le primarie nonostante lo scetticismo - quando non la esplicita contrarietà - dei maggiorenti del suo partito, e sa perfettamente che è con loro che adesso dovrà a fare i conti. Potrà farlo, però, da una posizione di grande forza. «Bersani adesso è fortissimo», ha annotato dopo il voto Romano Prodi, che pure ha apprezzato e guardato con simpatia alla campagna di Matteo Renzi. Molti, addirittura, hanno parlato - ed a ragione - di una sorta di vera e propria “reinvestitura” per il segretario del Pd: non ci sono precedenti, infatti, di un leader eletto con primarie segretario e scelto - di nuovo attraverso primarie - come candidato premier del centrosinistra. Infine Renzi. Chiaro, corretto e molto “moderno” il discorso con il quale ha riconosciuta la vittoria di Bersani. Ha confermato lealtà al segretario e disponibilità all’impegno. Solo un improvviso impazzimento - crediamo - potrebbe convincerlo ad accettare le “lusinghe romane”, una candidatura, una poltrona, un posto qualunque ai vertici dell’apparato. La rotta da seguire, in fondo, gliel’ha indicata proprio Romano Prodi, commentando il suo risultato: «Il futuro di Renzi è essere un’alternativa». Ha 37 anni, molto credito e qualche idea brillante. Il voto di ieri, in fondo, più che una bocciatura sembra un rinvio a settembre... Se non farà errori, il suo tempo inesorabilmente arriverà. da - http://lastampa.it/2012/12/03/italia/politica/lo-sconfitto-adesso-nel-partito-non-potra-piu-essere-isolato-21iRqI895tdkJT3IWnPvHI/pagina.html
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« Risposta #199 inserito:: Dicembre 22, 2012, 06:33:35 pm » |
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Editoriali 22/12/2012 La scelta del Pd tra Vendola e il Prof Federico Geremicca Nel giorno in cui tutto doveva finire e per fortuna nulla finì, qui - nel cuore della cittadella politica, cioè a Montecitorio - qualcosa invece si conclude per davvero. Si chiude la XVI legislatura, e va bene. Ma finisce anche la «carriera parlamentare» di due leader che hanno profondamente segnato la vita politica (e non solo politica) del Paese. Per «Walter» e «Massimo», infatti, questo venerdì della presunta Apocalisse è il giorno del passo d’addio al Parlamento: e Veltroni e D’Alema - diversissimi da sempre - affrontano in maniera differente anche quest’ultimo e non semplice passaggio. Veltroni parla in aula (piena solo per le tante presenze nei banchi del Pd) e D’Alema invece no. Il primo interviene per motivare il sì dei Democratici alla legge di stabilità, e lo fa con un discorso in puro stile veltroniano: parla del «limbo limaccioso» in cui è finita l’Italia, descrive il populismo come una sorta di «voto di scambio tra disperazione e demagogia», cita Olof Palme e invita a guardare avanti, ai giovani, al futuro; il secondo - D’Alema - ascolta, non regala battute, ma pare comunque di ottimo umore mentre chiacchiera con Fini, poi con Marianna Madia e infine si congratula con l’amico di tanti dissidi e tante battaglie. Mentre il sipario (parlamentare) cala su due personalità che certo non usciranno dalla scena politica, Pier Luigi Bersani è a pranzo con Laurent Fabius, ministro degli esteri francese ed ex leader del Psf. Per il segretario si tratta di un passaggio non irrilevante in quella sorta di «giro delle sette chiese» che ha dovuto intraprendere presso le diplomazie europee per rassicurarle - diciamo così - circa l’affidabilità del Pd e dei suoi alleati come forza di governo. In vista del voto di febbraio, infatti, due cose hanno molto preoccupato (e naturalmente preoccupano ancora) Bersani: l’incessante pressing europeo per una discesa in campo di Mario Monti e l’attacco concentrico che viene mosso al Pd in ragione della sua alleanza con Vendola. Per settimane il leader Pd ha dovuto difendersi dalla contestazione di esser «troppo poco montiano», e lo ha fatto a volte con toni anche duri, dicendosi stufo dei «prelievi che mi vengon fatti ogni mattina per stabilire il mio tasso di montismo». Sembrava quello il massimo della contestazione possibile. E invece, a Monti dimissionario, ecco il nuovo affondo: questo Pd sarà anche una cosa diversa dal vecchio Pci e dai suoi eredi, ma è ancora troppo poco riformista e l’alleanza col «radicale» Vendola lascia presagire una linea quanto mai massimalista. Che sia una preoccupazione sincera oppure no, in verità importa poco. Quel che conta - e Bersani lo sa - è che l’obiezione è in campo ed è insidiosa quanto mai. Infatti, mentre per quel che riguarda il «tasso di montismo» possono parlare i fatti di questi 13 mesi (e la lealtà al governo sempre ribadita dal leader del Pd), l’accusa di radicalismo investe il futuro - cioè le prossime elezioni - e non è analogamente risolvibile richiamando dei «fatti». Anzi. Ad avere memoria, gli unici «fatti» in campo - in verità - riguardano la deludente esperienza di governo di centro e sinistra (governo Prodi 2006-08) e non sono granché rassicuranti. E’ vero che a quell’epoca il Pd non esisteva ancora, ma si tratta di una rassicurazione che appare insufficiente. Soprattutto se si annota che Vendola attacca quotidianamente Monti, il suo governo e la sua agenda; e che anche nel Pd si alzano sempre più di frequente voci critiche circa la linea tenuta in questi 13 mesi dal Professore. Nessuno può aver dubbi intorno al fatto che la prossima campagna elettorale sarà tutta giocata sul terreno dell’economia e delle politiche da perseguire per arginare la crisi in atto: in questo senso, allora, esser rappresentati come una forza «inaffidabile» sul piano delle ricette (riformiste) da mettere in campo, contiene in sè un pericolo mortale. E’ per questo che dal Pd e dalla coalizione in costruzione è lecito attendersi - se possibile - posizioni e proposte che fughino le perplessità in campo (genuine o strumentali che esse siano). Si lancino dei segnali, e si tratteggino prime linee di intervento che rassicurino le cancellerie, i mercati e gli elettori. E anche Vendola farebbe bene a considerare meglio tanto i rischi quanto la posta in palio. Perché il tempo stringe ed una scelta netta e chiara non pare più rinviabile. da - http://www.lastampa.it/2012/12/22/cultura/opinioni/editoriali/pd-alla-prova-del-riformismo-4xkpu9WaEhVynFElPR6PaM/pagina.html
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« Risposta #200 inserito:: Febbraio 02, 2013, 05:51:21 pm » |
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Elezioni Politiche 2013 02/02/2013 Il patto Bersani-Renzi per conquistare i voti moderati E il segretario ammette: sì, Matteo è protagonista del grande allargamento di consensi Federico Geremicca inviato a Firenze I suoi - cioè gli uomini e le donne dello staff messo in piedi per la dura e lacerante campagna delle primarie - spiegano che la frase chiave del discorso di Matteo Renzi sarebbe la seguente (pronunciata a metà dell’intervento e sepolta dagli applausi): “Non ci sono bersaniani e renziani: ci sono i democratici. I democratici, sì: che porteranno questo Paese fuori dalle secche”. L’entourage del segretario, del resto, insiste sul rilievo da attribuire alla risposta arrivata da Bersani: “Riconosco a Matteo di essere stato un protagonista del grande allargamento di consensi determinato dalle nostre primarie”. Tutto qui, verrebbe da dire? Cioè, un migliaio di persone nella sala e alcune centinaia rimaste fuori sotto la pioggia, solo per una sorta di pace postuma all’insegna della nostalgia? L’evento mediatico atteso da giorni - la Grande Pace tra i due competitors - è dunque tutto in questo scambio di gentilezze e cortesie? No, naturalmente no. Le gentilezze ci sono, certo. Ma a sentirli e a vederli, lì sul palco - prima il sindaco e poi il segretario - si può apprezzare ancora meglio di quanto fosse possibile nella Guerra delle primarie, la distanza che corre tra di loro. Complementari, forse. Ma certo diversi: il presente e il futuro, azzarda qualcuno. Quel che conta oggi, però, è il presente, cioè la campagna elettorale, le elezioni, la sfida a Berlusconi e Monti: ed è un presente che grava tutto sulle spalle di Bersani. Il piglio del segretario è quello ormai solito, fatto di repliche aspre e di risposte dure ad attacchi duri. Il cuore dello scontro, ormai, è la vicenda del Montepaschi. Dice a Berlusconi: “Non accetto che ci faccia la predica gente che ha abolito il falso in bilancio: che noi reintrodurremo subito”. E a Tremonti: “Quando ero al governo, dietro le mie porte c’erano le banche che urlavano: dietro quelle di Tremonti non le ho sentite urlare mai”. Duro, durissimo, con chi pensa di vincere la campagna a colpi di bugie. E tagliente con Mario Monti: “Battuta veramente infelicissima, la sua... Attacca un progetto di rinnovamento che non conosce nemmeno lontanamente”. Rievoca l’allarme europeo per la situazione nella quale Berlusconi aveva precipitato l’Italia, ma tiene sulla corda la platea che applaude: “Non mi piace questa cantilena che noi avremmo già vinto le elezioni. Non lasciatevi incantare dalle sirene. La destra esiste, ed è in campo contro di di noi”. Contro questa destra, Matteo Renzi può esser utile: e infatti scende nell’arena su richiesta del segretario, e proprio nei giorni in cui lo scontro si arroventa. E’ possibile che non l’avesse immaginata proprio così, questa sua prima, importante uscita fiorentina dopo le primarie, e cioè un teatro pieno di simboli e bandiere pd (rare nella sua campagna per la candidatura a premier) e lui sul palco, certo, ma secondo: o sconfitto, per dirla meglio. Ma è un impeccabile padrone di casa: “Benvenuto - esordisce - al prossimo presidente del Consiglio, Pier Luigi Bersani”. Il resto, però, è “renzismo” puro: le foto che scorrono sui maxischermi (Balotelli, il 16enne iraniano che piange sulla spalla del suo boia), le battute (”Berlusconi ingaggia calciatori, ma nemmeno ingaggiando il mago Silvan riuscirebbe a far sparire i disastri che ha combinato”) e la politica, dove non ha cambiato idea: “Resto convinto che dobbiamo snidare gli elettori insoddisfatti del centrodestra”. Lo ripete quasi con le identiche parole usate durante le primarie: anche se proprio quel certo feeling con chi sta “dall’altra parte” gli è costato voti, e forse addirittura la vittoria alle primarie. Bersani (durezza, certo, ma anche un grande senso dell’ironia) ride e si diverte ora che il “format renziano” non è più un pericolo per lui. Alla fine - e a discorsi conclusi - i due inforcano addirittura occhiali alla Blues Brother’s, il segretario è di ottimo umore e forse ripensa a quanto abbia avuto ragione volendo le primarie “anche contro il parere di qualcuno gli era vicino - annota Renzi -. Dicevano che ci saremmo indeboliti. Vi sembra che il Pd sia più debole, adesso?”. Una tregua, se non proprio una pace (che in politica spesso si sigla sulla base di interessi: e qui gli interessi non sono proprio convergenti...). Ma comunque può servire ad un Pd circondato da sirene che lo illudono di esser già sicuro vincitore. Di questo avevano parlato nel breve faccia a faccia a Palazzo Vecchio, dove Renzi aveva invitato Bersani per presentargli i candidati “renziani” della Toscana. Battute, buon clima, tutto che va come doveva andare: perfino il trasferimento al Teatro Obihall, dove sindaco e segretario arrivano assieme su un’auto elettrica guidata da Renzi. Tutto ok, a differenza di quella volta che il sindaco attraversò la città su un mezzo simile per andare a un convegno e tamponò un’altra auto. Segno dei tempi e conferma del fatto che sbagliando s’impara... da - http://lastampa.it/2013/02/02/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/il-patto-bersani-renzi-per-conquistare-i-voti-moderati-eGlrpdBt1hYgKAxKLJAuiM/pagina.html
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« Risposta #201 inserito:: Febbraio 27, 2013, 05:31:53 pm » |
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Elezioni Politiche 2013 27/02/2013 - colloquio Renzi: niente polemiche, ma non vengo ai summit di partito con Rosy BindiIeri il sindaco di Firenze non ha rilasciato dichiarazioni ma gli è scappata una battuta: «Oggi non è giornata» Parla il sindaco di Firenze: “Abbiamo regalato un rigore a Beppe Grillo e sottovalutato Berlusconi” Federico Geremicca ROMA I giornalisti telefonano, pressano, insistono per le interviste... Ma che cosa dovrei dire che non ho già detto? E se poi pensano che ora mi metta ad attaccare Bersani, vuol dire che non hanno capito niente: io non faccio lo sciacallo». Pomeriggio inoltrato, Palazzo Vecchio, il sole che tramonta mentre Matteo Renzi conclude una rapida riunione di staff per poi riunire la sua giunta. Come da subito dopo le primarie, infatti, è tornato e continua a fare il sindaco a tempo pieno: ma da 48 ore a questa parte è inseguito da struggenti appelli al ritorno in campo o da tweet e messaggini che evocano quel che avrebbe potuto essere e non è stato. Scrivono: «Con Renzi avremmo vinto a mani basse»; «Se candidavamo Matteo, Grillo se lo sognava il 25%»; «Altro che smacchieremo il giaguaro: ci ha fatti neri così». Sono militanti, cittadini qualunque, giovani che avevamo scommesso su un giovane. Ma arrivano anche dichiarazioni sorprendenti, inattese: come quella del sindaco di Bologna Virginio Merola, ultrà bersaniano alle primarie del centrosinistra e fierissimo avversario del primo cittadino di Firenze, definito addirittura “un golpista”: «Matteo Renzi - dice ora Merola - è la nostra possibilità di rinnovamento: e di questo dobbiamo prenderne atto». Riconoscimenti postumi. Ricostruzioni - ma senza controprova - di quel che poteva essere e non è stato. E la speranza - soprattutto - che possa finalmente decollare un progetto che lo stesso “popolo del centrosinistra”, però, ha affondato nel ballottaggio del 2 dicembre. Nessuno, naturalmente, può sapere se Matteo Renzi, in cuor suo, avesse puntato sul naufragio elettorale di Bersani sperando in reazioni così. La linea tenuta nelle ore successive al voto, però - nessun commento, nessuna polemica e l’invito agli uomini a lui più vicini di tacere e lavorare - sembra dire che, se anche lo avesse sperato, ora non intende maramaldeggiare su un partito scosso e pronto a dividersi. «Sto zitto e non faccio polemiche, come dal ballottaggio in poi - ha confermato ieri allo staff riunito -. Ma non mi si chieda di condividere, e soprattutto di venire a Roma per fare riunioni di “caminetto”, come lo chiamano, assieme a Rosy Bindi: non è cosa che faccia per me». Ieri mattina, infatti, qualcuno ha chiamato Renzi per invitarlo a partecipare al vertice romano che si sarebbe svolto in serata nella sede del Pd per analizzare il voto e decidere cosa fare: ma il sindaco aveva una riunione di giunta e ha potuto motivatamente rifiutare l’invito. Del resto, come aveva appena spiegato agli uomini dello staff, cosa potrebbe dire che non aveva già detto? «Dovrei ripetere che il nostro compito era snidare gli elettori delusi del centrodestra? Che non bisognava sottovalutare Berlusconi? Oppure che dovevamo fare nostri alcuni temi di Beppe Grillo? Inutile, ora. Inutile, dopo aver voluto le primarie salvo poi chiuderle al secondo turno per paura che venissero a votare elettori esterni al centrosinistra: che sono precisamente quelli che di cui avevamo bisono alle elezioni vere e che, naturalmente, non ci hanno votato». Il punto sarebbe che cosa fare adesso. Ma su questo Renzi passa la palla al segretario: «Ha vinto le primarie, ha fatto la sua campagna elettorale ed è giusto che adesso sia lui a indicarci la rotta», spiega ai suoi che gli chiedono quale sia la via da seguire. «Annoto solo che ci stiamo mettendo nelle mani di Grillo. Gli abbiamo regalato un rigore, e ora vediamo come lo calcerà. Naturalmente, penso ai timori in Europa di fronte a un centrosinistra che pende dalle labbra di Beppe Grillo». La sensazione che gli uomini a lui più vicini ricavano dai mezzi ragionamenti del sindaco, è che anche la sua rotta sia ancora da definire. Quel che sembra chiaro, è che per ora non si attacca il segretario (col quale Renzi ha scambiato un paio di sms di commento e solidarietà) ma nemmeno si dà sostegno a una linea che non pare condividere granchè. In un altro tempo si sarebbe detto “nè aderire nè sabotare”: ora si può azzardare un meno enfatico “aspettare e vedere”. Con la certezza che non ci sarà molto da aspettare per vedere che accadrà... Resta un ultimo punto: lo stato d’animo della «speranza di cambiamento», come lo definisce oggi Virginio Merola. Onestamente, non pare un granchè, considerata la confusione tra rammarico e spinta a guardare avanti che agita i suoi pensieri. Senza confessarlo, Renzi lo ammetteva in qualche modo regalando ai suoi fedelissimi un’ultima battuta: «Durante le primarie dicevo che il Pd con me sarebbe arrivato al 40% e senza di me al 25. Oggi gli amici mi chiamano per prendermi in giro. “Caro Matteo, il candidato premier non lo potevi fare, ma come sondaggista hai un bel futuro”...». Magra soddisfazione, si potrebbe ipotizzare. Anzi: nessuna soddisfazione, a dir la verità . da - http://www.lastampa.it/2013/02/27/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/niente-polemiche-ma-non-andro-a-nessun-vertice-con-la-bindi-cnwYp3TvbDlsXV9IShM0UJ/pagina.html
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« Risposta #202 inserito:: Marzo 05, 2013, 05:12:42 pm » |
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Politica 05/03/2013 - retroscena Il cortocircuito dei democratici tra Quirinale e dissidi interni Pierluigi Bersani, segretario del Partito democratico, domani si misurerà con la direzione del suo partito L’obbligo della prima mossa le pressioni istituzionali e i sospetti reciproci Federico Geremicca Roma Che situazione è quella nella quale la presidenza della Repubblica si vede costretta a precisare (con una lettera a l’Unità) che dal giorno delle elezioni ad oggi nessun colloquio è mai intercorso tra il Capo dello Stato e i dirigenti del principale partito (il Pd) della coalizione che ha la maggioranza dei seggi alla Camera? O ancora: che situazione è quella nella quale la Direzione del Partito democratico si riunisce (domani) per dare il via libera ad una proposta politica - governo con Beppe Grillo o addirittura di minoranza - sulla cui praticabilità lo stesso organismo dirigente forse non scommetterebbe un euro? Una situazione insidiosa e pesante, naturalmente. E forse perfino peggio, considerato che partiti e istituzioni si trovano a dover dare un governo a quella che è gia stata frettolosamente definita Terza Repubblica, dopo un voto espresso con una legge elettorale (maggioritaria) da Seconda Repubblica e un esito (frammentato) addirittura da Prima Repubblica... Il risultato di questo cortocircuito - largamente prevedibile già prima del voto - è una sorta di rassegnata confusione nella quale ognuno avanza ipotesi di soluzione difficilmente praticabili, annuncia (o minaccia) ritorni alle urne e intanto spera che da qualche parte - dal Quirinale, presumibilmente - qualcuno tiri fuori il classico coniglio dal cilindro: e poichè questo non avviene (o non avviene ancora) il nervosismo dilaga, e le tensioni paiono cominciare a mettere seriamente alla prova soprattutto la tenuta del Partito democratico, uscito già sufficientemente scosso dalla ultima tornata elettorale. Quello in corso, infatti, è un dopo-voto che non ha assolutamente nulla del post-elezioni degli ultimi 20 anni, dove leggi elettorali maggioritarie (il Mattarellum prima e il Porcellum poi) avevano sfornato risultati che si sono sempre (1994, 1996, 2001, 2005 e 2008) tradotti automaticamente in governi del Paese. Stavolta, invece, in presenza di un Senato non governabile, una soluzione va costruita: ed essendo diverse le ipotesi percorribili, trappole e tagliole sono già disseminate sul campo. Appunto come al tempo della Prima (famigerata e in parte rivalutata) Repubblica. È del tutto ovvio che al centro del centro delle tensioni ci siano il Pd e il suo segretario, Bersani, ai quali tocca - come si dice - la prima mossa. E la prima mossa di Bersani, se per un verso convince il partito (governo con Grillo e mai con Berlusconi) per un altro verso, cioè nel suo sviluppo (in caso contrario si torna al voto) preoccupa e perfino insospettisce parte del Pd. Bersani - questo è l’interrogativo - intende forse dire «a Palazzo Chigi o io o nessuno»? Ed è una posizione vera oppure qualcuno - sempre a Largo del Nazareno - ha già pronta una subordinata? Ai tempi della Prima Repubblica, quasi mai la prima proposta di governo avanzata era quella «vera», o comunque destinata al successo. E adesso? «Adesso non vorremmo pasticci» - dice Matteo Orfini, tra i leader dei «giovani turchi« che hanno ripreso fitti contatti con Matteo Renzi, interessatissimo all’epilogo di questa crisi. «Il timore - confessa Orfini - è che se la proposta di Bersani non dovesse aver successo, il Pd potrebbe spaccarsi sulla seconda mossa da fare. Noi - e crediamo anche Renzi - siamo per il ritorno alle urne, piuttosto che per un pateracchio che ci rimetta al governo assieme al Pdl. Ma non escluderei affatto che ci possa essere chi insista per un “atto di responsabilità” che eviti le urne, lasciando ancora in Parlamento - dopo l’abbandono di D’Alema e Veltroni - un gruppo dirigente che abbiamo già cominciato a rinnovare». È un possibile scontro generazionale, quello che teme Matteo Orfini. Un braccio di ferro che certamente non segnerà la Direzione di domani, però, impegnata a meglio definire la proposta-Bersani, piuttosto che ipotetici piani b. Intanto si proverà a ricostruire rapporti politici incrinati durante la campagna elettorale (con Monti, prima di tutto) e magari si valuteranno le obiezioni che, secondo alcuni, il Quirinale avrebbe già maturato di fronte alla rigida posizione che il Pd va definendo. Per esempio: il leader dei democratici ritiene che il suo «governo del cambiamento» debba, tra l’altro, ridurre il numero dei parlamentari e modificare la legge elettorale. Bene. La prima è una riforma costituzionale: è pensabile farla senza i voti del centrodestra? E dopo i risultati dell’ultimo voto, è pensabile riformare la legge elettorale senza i voti di Grillo? E soprattutto: in un sistema politico fattosi almeno «tripolare», è ipotizzabile - per chiunque - tornare alle urne e pensare di vincere con una legge che certamente non ridarebbe una maggioranza chiara al Senato? Obiezioni non di poco conto; alle quali, naturalmente, fanno da contraltare difficoltà politiche concretissime. Occorrerà tempo, dunque: nel Pd lo sanno, e qualcuno lavora e qualcun altro - intanto - affila i coltelli. E se si pensa che in appena un mese dovranno essere eletti i presidenti di Camera e Senato, quello del Consiglio e il nuovo capo dello Stato, facile immaginare che sia il lavoro sia tanto e i coltelli forse ancor di più... da - http://lastampa.it/2013/03/05/italia/politica/il-cortocircuito-del-pd-tra-quirinale-e-dissidi-interni-MZ8InfpqJksCsmjou111nO/pagina.html
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« Risposta #203 inserito:: Marzo 07, 2013, 06:49:08 am » |
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L'alternativa di Renzi come interlocutore Il Cavaliere tentato: telefonare al leader PD L'ex premier convinto che Napolitano «non possa affidare la guida del governo a chi non ha una maggioranza» ROMA - Una telefonata può allungare la vita di una legislatura? Chissà. E chissà se stamattina Berlusconi avrà fatto quella telefonata che ieri sera aveva in mente: «Sono indeciso se chiamare Bersani». L'ultima volta che si sono parlati, il segretario del Pd si era ripromesso di dare una «smacchiatina» al Cavaliere nelle urne. Che possano mettersi d'accordo pochi giorni dopo per formare una maggioranza di governo appare impossibile. «Lo so che Bersani è un tipo testardo», sostiene il leader del centrodestra: «Ora vedremo se è un leader. Lui sa che l'unica soluzione naturale sarebbe una collaborazione tra noi e loro su precisi punti programmatici. Così come noi sappiamo che la base del suo partito è ostile a questa collaborazione. Però in certi passaggi storici un politico deve dimostrare di essere un leader. Se è un leader si fa seguire dalla base, perché indica qual è la strada giusta in quel momento». Una telefonata può bastare per ripristinare le comunicazioni tra acerrimi rivali? «Non lo so, sono indeciso se chiamarlo», diceva ieri sera Berlusconi. Chissà se l'avrà fatto, pensando davvero di far cambiare idea a Bersani, che nel documento da presentare oggi in direzione ha voluto inserire un passaggio vincolante per il partito: senza far cenno all'ipotesi del voto anticipato - così da non esacerbare un rapporto già surriscaldato con Napolitano - il capo dei democrat ha posto una pregiudiziale sull'intesa con il Pdl. È un paletto che dovrebbe impegnare il Pd qualunque sorte toccasse al suo tentativo di formare un governo. Insomma, è un giro di parole per evocare comunque le urne, se il suo tentativo dovesse fallire. «Ma l'idea di incastrare i Cinquestelle in maggioranza non può riuscire», secondo Berlusconi: «Grillo non si farà mai ingabbiare. La radice del suo successo poggia sul fallimento della politica economica europea. Eppoi, come potrebbero i Democratici accordarsi con uno che teorizza la rinegoziazione del debito? Queste parole sono un crimine contro lo Stato: come reagirebbero gli investitori stranieri?». Se è chiaro come reagirebbe il Pd nel caso in cui Bersani aprisse al Pdl, è altrettanto evidente nel ragionamento di Berlusconi che un tale progetto non potrebbe approdare nelle Aule parlamentari. E senza voler interferire con le prerogative del capo dello Stato, immagina che «Napolitano non possa far formare un governo a chi non ha una maggioranza». Una telefonata può servire per esortare un rivale a siglare una tregua? Ieri sera il Cavaliere era indeciso se farlo: «La mia impressione è che Bersani voglia andare al voto mentre temo che vada a sbattere». In quel caso, dopo, inizierebbe un altro giro e «comunque si dovrebbe ragionare». Nella testa di Berlusconi sarebbe Renzi «l'interlocutore», non per indicarlo come presidente del Consiglio. No, in questa legislatura il leader del centrodestra immagina un governo a guida tecnica con innesti di esponenti politici, che duri «almeno tre anni» e che - attraverso un percorso di riforme - «sgonfi il fenomeno Grillo, lasciato intanto all'opposizione». Con il sindaco di Firenze si dovrebbe invece ragionare di futuro, da parti contrapposte, per avviare una «rivoluzione di quarantenni che dia una svolta al Paese». I fondamentali del bipolarismo sarebbero salvi, perché questo è l'obiettivo di Berlusconi, che vede il «centrino» montiano come una sorta di Polonia a cui già stanno preparando l'assalto il Pdl e Renzi per spartirsi le spoglie. Alfano - all'incontro di ieri con gli eletti lombardi - lo ha teorizzato: «C'è una massa elettorale di dieci punti che è aggredibile, lo riscontriamo già nei sondaggi. Sono quanti hanno seguito Monti, Casini e Fini, e hanno visto fallire quel progetto. Questi dieci punti saranno il carburante per vincere alle prossime elezioni». Resta da capire quando si terranno le prossime elezioni, e quale sarà la nuova geografia politica, perché - secondo il segretario del Pdl - il centrodestra avrà come avversario o il Pd o Grillo, «contro cui alla fine prevarremmo». Secondo Alfano, «dipenderà da Bersani» - dalle sue imminenti mosse - quale sarà lo scenario futuro. È stato un modo per lanciare al segretario democratico un messaggio, affinché comprenda la delicatezza del momento. Una telefonata può anche essere inutile, e chissà quindi se Berlusconi stamattina avrà chiamato il leader dei democrat. Ma c'è un motivo se Alfano ha puntualizzato al vertice del Pdl che «noi vogliamo tentare di costruire un nuovo bipolarismo insieme al Pd». Francesco Verderami 6 marzo 2013 | 10:08© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_06/berlusconi-napolitano-governo-maggioranza_dbce405e-861f-11e2-8496-c29011622c49.shtml
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« Risposta #204 inserito:: Marzo 07, 2013, 06:56:07 am » |
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Elezioni Politiche 2013 06/03/2013 - il dopo voto Renzi è scettico: “Giusto provarci ma sarà difficile” Per il sindaco incontri romani e lungo colloquio con Monti “Napolitano saprà trovare la soluzione con saggezza” Federico Geremicca Roma Bersani, certo. La linea resta quella che indica Bersani, ma i toni cominciano a cambiare: «Dopo le primarie il Pd si è seduto... Abbiamo sbagliato, ma non mi piacciono quelli che accoltellano alla schiena il giorno dopo. Quello che dovevo dire, a Pier Luigi l’ho detto in faccia. E prima, non dopo...». Sono le otto della sera e Matteo Renzi lascia gli studi di Ballarò, dove ha appena finito di registrare una intervista con Floris. Stamane lo attende la Direzione del Pd: anzi, lo attendono alla Direzione del Pd ex nemici, nuovi amici e quant’altri - molti, cioè - paiono paradossalmente prontissimi a saltare sul carro di un leader sconfitto. «La prima e ultima volta che ci sono andato - ricorda Renzi - è stato a gennaio, per le liste. Non parlai: fu il gelo. Mi dicono che stavolta l’accoglienza sarà diversa... Vedremo, non so se sarà vero». Sarà vero, altroché. In un Pd lacerato e scosso, infatti, Matteo Renzi è vissuto ormai come l’uomo della possibile rivincita. Lui, invece, si muove con i piedi di piombo: un po’ perché non vuole aggiungere la sua coltellata a quelle già pronte per il segretario, e un po’ perché si orienta ancora con qualche impaccio in mezzo alle trappole romane. Ma ha cominciato a muoversi: e l’ordito della tela che ha in mente, inizia a rivelarsi... Due ore con Monti a Palazzo Chigi, poi gli incontri con Vasco Errani (uomo di raccordo con Bersani) e Dario Franceschini. Matteo Renzi comincia ad avere una rotta, e cerca di capire tra quanti scogli dovrà navigare. Con il Professore ha discusso del futuro: che ha in testa, Monti? Resta in campo o pensa al ritorno in Europa? Punta al Quirinale e ha bisogno di una mano? E che sarà della sua «Scelta civica»? La ripresa del dialogo con gli alleati possibili, è la prima mossa di Renzi: che ha chiaro come anche la rotta del Pd vada totalmente ritracciata. «E ha ragione - spiega Beppe Fioroni, mentre passeggia sotto la sede del Pd -. Se mettiamo la testa di Matteo sul corpo di questo Pd, siamo punto e a capo. Anche il partito va rivoluzionato». Mario Monti è interlocutore privilegiato: sia per le possibili alleanze future, sia per «nuove case» che dovesse improvvisamente essere necessario costruire... La seconda mossa è il sostegno alla linea e al tentativo Bersani, anche se si intende a chilometri di distanza che Renzi vede all’orizzonte un naufragio certo: «Difficile, molto difficile - risponde a proposito di un possibile governo Pd-M5S -. Ma Bersani ha diritto a fare la prima mossa». La prima, appunto: e poi? «Napolitano troverà, con saggezza, una soluzione». Un governo-Renzi è possibile? «E le pare che dopo aver perso le primarie entro a Palazzo Chigi dalla porta secondaria?». E lei si sarebbe dimesso al posto di Bersani? «Ognuno reagisce alle sconfitte a modo suo... Ma non riduciamo queste elezioni a una resa dei conti». E nemmeno, diciamo la verità, a una fiera dove ognuno spara la sua. Per dire: al suo malcapitato vicesindaco - Dario Nardella - era capitato di dire in mattinata che «se il tentativo di Bersani dovesse fallire, trovo legittimo pensare ad un accordo Pd-Pdl». Il tempo che Renzi si infuriasse, ed ecco di nuovo Nardella: «Non ho auspicato un governo Pd-Pdl, che nascerebbe da tentativi di inciucio...». Non è tenero con i suoi, Renzi: anzi. E non lo è a maggior ragione ora, ora che non un solo passaggio deve essere sbagliato in vista della mossa numero tre: l’assalto a Palazzo Chigi quando (quando?) si voterà di nuovo. Farà altre primarie? «Le farò. Certo che rischio che alla terza sconfitta mi regalino una bambolina...». L’umore è buono, la lingua affilata. Renzi non lo cita, ma davvero non gli riesce di non parlare di D’Alema: «Ho visto che uno statista ha proposto di dare le presidenze delle Camere una a Grillo e l’altra a Berlusconi... Trattare Beppe come fossero i dorotei, non mi pare una via, con tutto il rispetto per i dorotei». Altre sono le cose che andavano fatte, e prima: «Non aver dato risposta all’antipolitica ha aperto le porte a Grillo, ed eccoci qua. E poniamoci anche il problema di com’è possibile che Berlusconi, nonostante i disastri che combina, sia di nuovo al 30%...». Questo dirà stamane alla Direzione, se alla fine deciderà di intervenire. Ma l’incipit, l’avvio, sarà lo stesso: «Caro segretario, io che con te sono stato leale...». Ecco, quel che cambierà saranno i tempi: e al presente e al futuro utilizzati durante le primarie, Renzi sostituirà un enigmatico tempo passato... da - http://lastampa.it/2013/03/06/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/renzi-e-scettico-giusto-provarci-ma-sara-difficile-0xFO4PnhMoTka86OI5aN7J/pagina.html
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« Risposta #205 inserito:: Marzo 07, 2013, 05:17:40 pm » |
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POLITICA 07/03/2013 - il ribelle non ci sta Renzi lascia la sala in anticipo “Così non cambieremo mai” Il sindaco ai fedelissimi: da Pier Luigi nemmeno una parola sui temi anti-casta Federico Geremicca Roma La faccia di Matteo Renzi in tv in una carrellata che riprende D’Alema, Bersani, Epifani, Marini e chissà chi altro; oppure un primo piano zoomato che lo porta nelle case degli italiani, a ora di pranzo, mentre parla alla piccola tribuna del Partito democratico avendo affianco, magari, il presidente Rosy Bindi... Chissà se sono precisamente questi i pensieri ed i volti che ieri si sono materializzati nella testa di Matteo Renzi quando - poco dopo mezzogiorno - ha voltato le spalle alla compagnia e se ne è tornato a Firenze. Fatto sta che è successo: ed è un nuovo piccolo-grande-caso. C’è molto di studiato, naturalmente, nella mossa con la quale ieri Matteo Renzi ha deciso di riprendersi un po’ di titoli di giornali abbandonando, senza nemmeno intervenire, la Direzione del Pd: evitare il rischio, per esempio, di finire ritratto in quella sconsigliabile sorta di album Panini della nomenclatura democrats (e non solo democrats). Ma c’è anche molto di nient’affatto studiato, cioè di assolutamente incontrollabile: come un’allergia, un prurito tremendo, che resisti, resisti, ma alla fine ti devi grattare. Così, Renzi ha resistito, ha resistito, ma poi - appena finito l’intervento di Dario Franceschini - non ha retto più: ha girato le spalle alla presidenza e se ne è andato, percorrendo rapidamente i pochi metri che separavano il fondo della sala (dov’era in piedi) dal terrazzo che abbellisce l’ultimo piano della sede Pd. Diremo poi se la mossa può esser considerata più giusta o più sbagliata: per ora raccontiamola. «Onestamente, quello che dovevo dire l’avevo detto - ha spiegato Renzi a qualche fedelissimo convinto che, stavolta, avrebbe addirittura preso la parola in Direzione -. Sostengo il tentativo di Bersani: posso pure impararlo a memoria e dirlo in cinese... Ma oltre questo, che devo fare? Tra me e lui le differenze ci sono: dovevo intervenire per esasperarle?». È la verità: fino ad oggi il sindaco di Firenze ha messo su un disco che dice “sto con Pier Luigi, sto con Pier Luigi” e non l’ha mai cambiato. Ma è anche solo una mezza verità: l’altra metà della spiegazione (dell’abbandono della sala della Direzione, intendiamo) è in una sorta di repressa delusione. «Ma come - si è sfogato tornando a Firenze - sono giorni che insisto a dire che se avessimo cavalcato noi l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti avremmo spuntato qualche unghia a Grillo, e Bersani che fa? Nemmeno ne parla nella relazione introduttiva... Qua si rischia di andare avanti come prima. Ma come prima non va bene affatto». Dietro l’abbandono della Direzione, dunque, ci sono tante cose. Un po’ il timore di venir catalogato anche lui come “casta”, cosa che considera un pericolo mortale; un po’ un’insofferenza genuina verso certi interminabili vertici, considerati inutili liturgie di partito; ma un po’ anche la circostanza che con Bersani le cose continuano a non andare granché bene: Sono andate male durante le primarie, sono andate male in campagna elettorale e continuano ad andar male a fine campagna. Uno spaccato di come sono andate le cose durante la battaglia elettorale lo offre, per esempio, Claudio Burlando - governatore ligure - quando va alla tribuna della Direzione: «Negli ultimi giorni della campagna ho invitato Renzi a Genova e mi sono reso conto che, ormai vicini al voto, non era impegnato altrove: un altro segnale che le cose non stavano andando nel verso giusto». Se era - se è - una risorsa (è l’implicita obiezione di Burlando) perché è stato lasciato così tanto in panchina? Comunque sia, lo strappo è consumato. Niente di gravissimo, ma a tanti (da Fassina a Cuperlo) non è piaciuto. E non è piaciuto nemmeno a qualcuno nella folla di cittadini e militanti che ha seguito la Direzione via Internet e l’ha commentata via Twitter. Scrive Patrizia: «Sarebbe utile che Renzi parlasse al partito, oltre che a Ballarò. Coraggio, fallo». Il partito, già... Il sindaco di Firenze ne ha in mente uno del tutto diverso, rispetto a quel che è oggi il Pd: un partito “liquido”, leggero, senza praticamente apparati ma capace - attraverso i nuovi strumenti - di arrivare fin dentro le case degli italiani. Ma questo è il partito che sarà: se e quando sarà. Per ora il Pd è altro: e magari ignorarlo, mostrare fastidio e starne lontano potrebbe non essere un grande affare. Non è tempo di scelte a metà. O dentro o fuori, in genere è meglio. Mezzo dentro e mezzo fuori, si rischia molto: come proprio a Renzi hanno dimostrato le primarie perse giusto tre mesi fa... da - http://lastampa.it/2013/03/07/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/renzi-lascia-la-sala-in-anticipo-cosi-non-cambieremo-mai-4x1Iay7TihS08anMZPP0aL/pagina.html
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« Risposta #206 inserito:: Marzo 11, 2013, 06:12:24 pm » |
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Editoriali 11/03/2013 Un macigno sulla strada di Bersani Federico Geremicca Ci sono porte che si chiudono, porte che vengono sbattute e porte che non erano mai state aperte. Quella di Beppe Grillo, per esempio, non si era mai nemmeno socchiusa, nonostante il bussare insistente del Pd. E invece per una settimana si è voluto far finta di credere (o di far credere) che l’ipotesi di un governo Bersani-Grillo - viene da sorridere al solo scriverlo - fosse una ipotesi, come si dice, in campo. Non lo era, e non lo è: e la giornata di ieri, con Grillo che annuncia l’addio alla politica se il M5S darà la fiducia «a chi ha distrutto l’Italia», e i capigruppo grillini di Camera e Senato che chiudono alla possibilità perfino di prendere un caffè «con quelli che ci hanno portati fin qui», dovrebbe averlo chiarito con sufficiente nettezza. Beppe Grillo, Gianroberto Casaleggio e le schiere di parlamentari arrivate a Roma sull’onda di uno tsunami che continua a produrre effetti, non sono spendibili (perchè non intendono esserlo) nella soluzione del complesso ingorgo politico-istituzionale che è di fronte al nuovo Parlamento. Saggezza e senso di responsabilità consiglierebbero, dunque, di guardare in faccia alla situazione con maggior realismo, così da concentrarsi - finalmente - sulle due opzioni rimaste in campo. La prima: un governo di un qualche tipo che - sostenuto dai voti di Pd e Pdl - vari una nuova legge elettorale e porti il Paese al voto presumibilmente con le europee della prossima primavera; la seconda: elezioni subito (cioè già a giugno) con la prospettiva, però, che - aperte le urne - ci si ritrovi poi di fronte a una situazione sostanzialmente identica a quella attuale... Comunque sia, la giornata di ieri ha cambiato le carte in tavola, consegnando al Presidente della Repubblica una matassa difficilissima da sbrogliare. Pesano, naturalmente, le difficoltà oggettive determinate da un voto che non ha prodotto maggioranze in grado di governare; ma pesano anche gli impacci - per usare un eufemismo - che frenano l’azione dei tre leader che dovrebbero indicare la via da imboccare. Silvio Berlusconi, per esempio, non ha nemmeno avuto il tempo di gioire per lo scampato disastro elettorale, che si è ritrovato sballottato tra aule di tribunale e corsie d’ospedale, per i suoi vecchi e nuovi guai giudiziari; Beppe Grillo, invece, ha certo avuto il tempo di esultare, salvo poi realizzare che il successo elettorale gli consegnava responsabilità politiche che non vuole o non è in grado di affrontare. E Pier Luigi Bersani, infine, ha subito un colpo così inatteso - e che lo ha così duramente provato - che ancora si attende di capire quale sia la via che intende davvero perseguire. Non si può credere, infatti, che il leader del Partito democratico pensi sul serio che l’ipotesi di un governo con Beppe Grillo sia realmente percorribile (e se lo credeva, in ogni caso, da ieri può metterci una pietra sopra). È all’interno dello stesso Pd, del resto, che molti pensano che il segretario sia già concentrato sul suo personalissimo «piano b», che prevede un rapido ritorno alle urne. I più maliziosi, anzi, si spingono addirittura a ipotizzare che proprio le elezioni anticipate già a giugno siano - da subito dopo il risultato del voto - il vero «piano a» del segretario: i tempi stretti, infatti, renderebbero difficili nuove primarie, rinvierebbero a tempi migliori l’inevitabile «regolamento di conti» con Matteo Renzi e gli consegnerebbero quasi automaticamente una nuova chance di guidare da candidato premier il centrosinistra anche alle prossime elezioni. Si vedrà se le cose stanno così. Alcuni segnali, però, lo lascerebbero credere. Chiuso in una sorta di «torre d’avorio», è giorni che Pier Luigi Bersani ha scarsissimi contatti con i dirigenti del suo partito: chi vuole parlare con lui, deve per ora accontentarsi dei fidati Errani e Migliavacca. «Ho capito - dice polemicamente Matteo Orfini - che dovrò chiedere a Crimi, capogruppo Cinque Stelle, quali sono i nomi che il Pd indica per le presidenze di Camera e Senato...». Già, le presidenze: cioè il primo impegno istituzionale di fronte al nuovo Parlamento (si inizia a votare venerdì). Circolano molte ipotesi confuse, ma una pare essere diventata più forte delle altre: offrire la presidenza del Senato ai centristi di Monti e tenere quella della Camera per Dario Franceschini. Non è un’offerta che allarga la maggioranza, certo; né può esser considerata una «cortesia istituzionale» rivolta all’opposizione (o a una significativa forza di opposizione). Ma somiglia molto, invece, a una sorta di patto pre-elettorale: per portare il Partito democratico al voto il prossimo giugno forse ancora con Nichi Vendola, ma ancor più certamente - stavolta - da alleati con Mario Monti... da - http://www.lastampa.it/2013/03/11/cultura/opinioni/editoriali/un-macigno-sulla-strada-di-bersani-bqeeSUaDOvg162UGKWuH1N/pagina.html
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« Risposta #207 inserito:: Marzo 12, 2013, 06:44:14 pm » |
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politica 12/03/2013 - retroscena Pier Luigi bacchetta Matteo “Accuse inaccettabili” Il segretario: “Non siamo qui a cercar deputati e senatori” Federico Geremicca Roma dice Fabio Melilli, ex presidente della Provincia di Rieti e parlamentare neo-eletto: «Caro segretario, abbiamo trovato la protesta nelle nostre case, nelle nostre famiglie, dove meno ce lo aspettavamo». Aggiunge Ermete Realacci: «In campagna elettorale abbiamo parlato di lavoro, ma nemmeno i disoccupati ci hanno votato...». Avverte Lapo Pistelli: «Il nostro stordimento dopo il voto è diventato una specie di senso comune». Protesta Laura Garavini: «Però non lasciamoci trascinare nella sindrome del perdente». E mentre nel grande teatro Capranica i nuovi senatori ed i deputati del Pd discutono con Bersani di che diavolo fare, Grillo mette in rete un documento col quale annuncia la rinuncia del M5S ai rimborsi elettorali, sfida il leader Pd a firmarlo e Michele Emiliano, sindaco di Bari, twitta: «Scacco di Grillo a Bersani... Se non firmiamo, siamo finiti». Non poteva essere che questo, forse, la prima assemblea dei neo-eletti parlamentari del Pd: un confuso miscuglio di paura, orgoglio ferito, incertezza e perfino spaesamento. Le elezioni sono andate come sono andate, non c’è una cosa - dalle presidenze delle Camere a quelle dei gruppi, dal nuovo governo al futuro presidente della Repubblica - che vada come deve andare e i volenterosi ottimismi di Bersani non bastano a tirar su il morale: «C’è comprensione per la nostra proposta, più di quanto si possa immaginare... La strada è stretta, certo - dice il segretario - ma non è che in giro ci siano autostrade». Mal comune mezzo gaudio, insomma: è un modo di vedere le cose. E al momento, uno più definito (e propositivo) forse davvero non c’è. Lo si capisce da come Bersani stesso avvia il ragionamento sulle questioni - caldissime - che sono sul tappeto: dicendo poche cose, e senza introdurre novità. Sul governo: il Pd farà il suo tentativo «e poi si rimette al percorso istituzionale previsto, confermando stima e affetto nei confronti del Capo dello Stato». Sulle presidenze di Camera e Senato: «Dobbiamo incoraggiare la discussione, e non accetto che se si parla di presidenze si sta facendo uno scambio di poltrone». Poi propone tre nomi (Calipari, Zanda e Zoggia) per una mini-delegazione che - sul tema presidenze - «faccia una ricognizione sul dialogo possibile, perché siamo ancora nella nebbia più totale». Oggi l’incontro con i grillini, gli altri (Pdl, Scelta civica e gli altri) a seguire... Quel che Bersani non accetta (e il rimprovero è senz’altro rivolto a Renzi) «è che venga messa in giro la voce che siamo qui a cercare deputati e senatori: non lo accetto, tantomeno se viene da qualcuno di casa nostra». Il resto è tutto un inevitabile rosario di avvertimenti, preoccupazioni e inviti alla riscossa. Corradino Mineo: «Nessuno può chiederci di fare un governo col nostro principale avversario». Lapo Pistelli: «Da dieci anni i presidenti delle Camere sono diventati uno degli strumenti dell’attività di governo: quindi, prima di offrire presidenze a chi occupa aule di Tribunale o a chi ha definito il Parlamento una scatoletta di tonno, ci penserei due volte». Dario Franceschini: «Dobbiamo sostenere il tentativo di Bersani sia nelle riunioni che sui giornali, evitando comportamenti sdoppiati... E a voi neo-eletti dico: state per entrare nel tempio della democrazia, non nel covo della casta...». Infine, Giorgio Tonini, durissimo nell’analisi del voto: «In campagna elettorale ci sono mancate tre cose: una vera coalizione, una vera proposta di governo e la capacità di apparire alternativi di fronte a chi voleva scappare da Berlusconi». Come a dire che al Pd è mancato tutto, e che se la sua coalizione è risultata comunque vincente, è solo per un miracolo: poco meno o poco più... DA - http://lastampa.it/2013/03/12/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/pier-luigi-bacchetta-matteo-accuse-inaccettabili-QFbN48289YmVJSV8oBYvsO/pagina.html
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« Risposta #208 inserito:: Marzo 12, 2013, 10:57:07 pm » |
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D'Alema, altro nome in campo: «No agli arroccamenti antistorici delle toghe» Ora la partita vera è per il Quirinale Parisi: Prodi candidato più accreditato ROMA - È iniziata la campagna elettorale. Ma non per le nuove consultazioni politiche, non ancora, bensì per la presidenza della Repubblica, l'unico appuntamento che conti in questa legislatura nata già moribonda. Fallita nelle urne la sfida per il governo del Paese, centrosinistra e centrodestra stanno già preparandosi alla battaglia decisiva per il Colle. Ed è un fatto che Prodi sia formalmente ai blocchi di partenza, nonostante abbia smentito a più riprese. Di più. Come sostiene l'ex ministro Parisi - che fu braccio destro del Professore ai tempi di Palazzo Chigi - il fondatore dell'Ulivo «oggi è il candidato più accreditato per il Quirinale. Certo, il fixing cambia di giorno in giorno, ma al momento Romano ha le maggiori chance di essere eletto», anche perché nel caos di questa fase «lui è l'unico che ha avuto e ha tuttora un progetto». Analizzando l'attuale scenario, Parisi tiene da conto anche le tensioni provocate dal conflitto tra politica e magistratura, e contesta la tesi che l'avvento del Professore al Colle possa essere vissuto dal Pdl come un «atto provocatorio e divisivo». Eppure è questa la reazione nell'area berlusconiana solo a sentir nominare lo storico rivale del Cavaliere. L'idea nel centrodestra è che al Colle debba sedere una personalità che ponga fine all'«accanimento giudiziario» contro il loro leader, e Prodi non viene vissuto come l'uomo adatto. «E se andasse diversamente?», obietta Parisi, che si rifugia in una citazione storica: «De Gaulle fu l'unico che riuscì a fermare i militari». Il riferimento è al '58, alla caduta della Quarta Repubblica francese, quando l'allora generale evitò il putsch dei militari, e dopo esser giunto all'Eliseo li fece rientrare nei ranghi. È voluta l'analogia. Ed è concisa la chiosa di Parisi: «Magari Prodi...». Non c'è dubbio che il cortocircuito tra politica e giustizia sia uno dei temi subliminali della campagna elettorale per il Colle. E c'è un motivo se anche D'Alema è della partita. Non è la citazione dell'inciucio fatta davanti alla direzione del Pd ad averlo inserito tra i partecipanti alla sfida, semmai è un ragionamento svolto un mese fa alla presentazione del proprio libro che ha colpito il Cavaliere. E una frase, che il capo del Pdl ha sottolineato con matita rossa e blu. Criticando i giudici di Palermo per il ritardo nella distruzione delle intercettazioni di Napolitano, D'Alema aveva prima spiegato che «simili comportamenti da parte della magistratura sono il risultato dell'aggressione berlusconiana di questi anni», per poi condannare gli «arroccamenti antistorici delle toghe»: «E chi governerà il Paese dovrà rimettere a posto queste cose»... Sia chiaro, non c'è via d'uscita politica ai guai giudiziari di Berlusconi. Anche la storia delle pressioni per ottenere la grazia non regge, perché quell'istituto può valere per quanti sono stati condannati in via definitiva. Nel frattempo però il Cavaliere sarebbe spazzato via, e con lui il suo partito. Perciò, per quante manifestazioni possano organizzare i dirigenti del Pdl, è impossibile salvare il «soldato Silvio». Ne ha contezza anche lui. Semmai l'aventino politico che viene minacciato dal centrodestra serve per far saltare il timing impostato dal Pd, che vorrebbe prima affrontare il tema delle presidenze delle Camere, poi quello del governo, e infine il rebus del Colle. Alfano ha rispedito al mittente la proposta dei democratici: «Sarebbe anche valida l'idea di procedere seguendo il modello europeo, cioè assegnando gli incarichi parlamentari in base ai gruppi e non in base alla logica maggioranza-opposizione. Ma per noi o si discute subito di Quirinale oppure non se ne fa nulla». In tal caso il disimpegno sembrerebbe già estendersi anche a un ipotetico «governo del presidente», per puntare alle urne entro giugno. Il Pdl non vuole arrivare all'autunno, per non farsi logorare, ed è convinto che i tempi per arrivare alle elezioni ci sarebbero, come ammette anche un dirigente del Pd: «Dopo aver sperimentato il voto in pieno inverno, potremmo sperimentare il voto in piena estate». Ecco spiegato il motivo per cui i vertici istituzionali stanno costruendo delle «reti di protezione» per la legislatura: qualora tutti i tentativi di formare un governo non dovessero aver successo, ci sarebbe la possibilità di mandare il governo Monti alle Camere per affidarlo a un voto del nuovo Parlamento. E il premier, bloccato a Palazzo Chigi, vedrebbe così sfumare l'aspirazione di diventare presidente del Senato, dovendo traghettare le Camere verso nuove elezioni. Dettagli, mentre si prepara il tavolo del risiko per il Quirinale. Francesco Verderami 12 marzo 2013 | 7:14© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_12/quirinale-prodi-verderami_26f428b8-8adb-11e2-b7df-bc394f2fb2ae.shtml
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« Risposta #209 inserito:: Marzo 13, 2013, 11:41:54 am » |
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Elezioni Politiche 2013 13/03/2013 - analisi Ora impossibili i patti col Cavaliere ma nel Pd c’è chi chiede prudenza
Si fa sempre più forte la convinzione che Berlusconi voglia andare subito al votoFederico Geremicca Roma È praticamente un coro: ammesso che ce ne fosse la possibilità - e soprattutto l’intenzione - da lunedì 11 marzo non si può più. Non si può più, cioè, immaginare il Partito democratico al governo - in qualsiasi forma - con Silvio Berlusconi. Lo dice, con tutta la chiarezza possibile, Rosy Bindi, presidente dell’Assemblea nazionale del Pd. «È chiaro e giusto, per le cose che sapevamo prima e per quello che è successo a Milano, che noi non si possa fare un governo con Berlusconi». Lo dice Matteo Orfini, tra i leader dei «giovani turchi»: «Lo pensavo già prima di Milano che col Pdl non ci si può alleare: perché poi come fai le leggi in materia di corruzione, falso in bilancio e tutto il resto, con Silvio Berlusconi al governo con noi?». Già, come fai? Ma allo stesso modo, come lo fai un governo se con Berlusconi intese non se ne possono stringere e se Grillo non vuole stringerne con te? È la domanda senza risposta di queste due prime settimane post-voto. E se la forza della cronaca e dei fatti si incarica di introdurre novità, fino ad ora si è trattato di novità che hanno ristretto - piuttosto che allargare - lo spettro delle opzioni possibili. Si potrebbe dire che è comunque qualcosa, un elemento di chiarezza, cioè: ma un altro paio di elementi di chiarezza così, e la strada verso le elezioni rischia di trasformarsi in un’autostrada... È per questo che, nonostante l’«assalto» al tribunale di Milano, dentro il Pd qualcuno reclama un minimo di prudenza. Nicola Latorre, per esempio, senatore cresciuto alla scuola politica di Massimo D’Alema: «Non vorrei essere drastico... Però è chiaro che i fatti di Milano rendono assai più problematica l’ipotesi di un governo con il Pdl. Ma a mio avviso la vera questione ormai è addirittura un’altra: proprio la scelta di manifestare davanti al Tribunale, segnala una rilevantissima novità, e cioè che Berlusconi vuole il voto. Ecco, il vero partito delle elezioni anticipate da ieri è il Pdl». È una tesi della quale cominciano a essere convinti in molti nel Pd: e non rappresenterebbe un buon affare, visto che ancora ieri Beppe Grillo - a scanso di equivoci - ha regalato ad amici e nemici uno dei suoi inequivocabili tweet: «Se per caso non fosse chiaro, il Movimento Cinque Stelle non fa alleanze con nessun partito». E dunque? «Ora Bersani ha intorno al 30% delle possibilità di convincere i parlamentari di Grillo a votare la fiducia al suo governo», dice ancora Orfini: una percentuale che è meglio di niente, ma certo non può apparire rassicurante. È anche per questo, per le oggettive difficoltà sul terreno, che all’interno del Pd si vedono fiorire posizioni che somigliano più a desideri che a proposte politiche. A metà pomeriggio, per esempio, Luigi Zanda (reduce da un indimenticabile incontro con una delegazione «grillina»: «Arrivavano uno alla volta, alla fine erano una quindicina che chattavano, registravano, non si capiva nulla...») Luigi Zanda, dicevamo, esprime una opinione così: «Basterebbe che Berlusconi si tirasse indietro. Non è più il 1994... non è amato come allora. Tre quarti dei gruppi parlamentari stanno con Alfano: e se il Cavaliere fa un passo indietro, un governo lo si riesce a mettere in piedi». Anche quel che Rosy Bindi vede come ultima e unica soluzione possibile non appare di semplicissima realizzazione. «Dopo aver detto o Grillo o morte non è che possiamo tornare indietro, soprattutto dopo quanto accaduto. Sia il presidente della Repubblica, allora, a proporre un governo al Parlamento, e il Parlamento assuma le proprie responsabilità. Del resto, c’è qualcuno che pensa che tornare al voto con questa elegge elettorale ci dia un Senato governabile? Dobbiamo riformare quella legge, andare al pareggio di bilancio e poi, in autunno o nella primavera prossima, richiamare gli italiani alle urne». Un governo del Presidente. Lo si è già ipotizzato nei giorni scorsi: ma con i voti di chi? «Forse non possiamo dire con chi - annota Matteo Orfini - ma possiamo dire mai senza chi: e io dico mai senza il Movimento Cinque Stelle, perché non si può escludere il primo partito del Paese. Dunque, il Pd deve dirsi disponibile a fare un governo solo se lo vota anche Grillo. Dopo di che, se loro dicono di no a tutto, non restano che le elezioni, con tutto quel che significa...». A due settimane dal voto, dunque, nulla o quasi si è ancora mosso. Intanto la tensione sale, la situazione si incancrenisce e chissà per quanto ancora si potrà contare sull’indifferenza - se non la benevolenza - dei mercati. Prima o poi, il conto verrà presentato. E far finta di non saperlo è prova di massima irresponsabilità... da - http://lastampa.it/2013/03/13/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/ora-impossibili-i-patti-col-cavaliere-ma-nel-pd-c-e-chi-chiede-prudenza-PWI8WYrDbuRXMeRnuMqAIJ/pagina.html
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