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Autore Discussione: Luca Sossella. Ai poeti resta da fare la poesia onesta  (Letto 2336 volte)
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« inserito:: Agosto 04, 2018, 05:13:36 pm »

Sì, lo so, le parole onestà, onesta, sono state deteriorate dal fiato guasto degli sciacalli; ugualmente la "poesia onesta" che cento e passa anni fa Umberto Saba descrisse la invio ai poeti senza giogo e a quell'infimo cicisbeo sordo e occhiuto più nel torto che contorto.
[Scritto come articolo per la rivista fiorentina “La Voce”, definita da Saba in una lettera a Slataper come la “sola rivista possibile”, ma poi rifiutato, il testo non è più stato pubblicato sotto forma di articolo giornalistico.

Ora in Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, con un saggio introduttivo di Mario Lavagetto, Mondadori, Milano 2001, pp.674-681.]

Trieste, febbraio 1911
Ai poeti resta da fare la poesia onesta

Umberto Saba

C’è un contrapposto, che se può sembrare artificioso, pure rende abbastanza bene il mio pensiero. Il contrapposto è fra i due uomini nostri più compiutamente noti che meglio si prestano a dare un esempio pratico di quello che intendo per onestà e disonestà letteraria: è fra Alessandro Manzoni e Gabriele d’Annunzio: fra gli Inni Sacri e i cori dell’Adelchi, e il secondo libro delle Laudi e la Nave: fra versi mediocri e immortali e magnifici versi per la più parte caduchi. L’onestà dell’uno e la nessuna onestà dell’altro, così verso loro stessi come verso il lettore (perché chi à un candido rispetto per l’anima propria, lo à anche, all’infuori della stima o disistima, per quella cui si rivolge) sono i due termini cui può benissimo ridursi la differenza dei due valori.
A chi sa andare ogni poco oltre la superficie dei versi, apparisce in quelli del Manzoni la costante e rara cura di non dire una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione: mentre vede che l’artificio del d’Annunzio non è solo formale ma anche sostanziale, egli si esagera o addirittura si finge passioni e ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento: e questo imperdonabile peccato contro lo spirito egli lo commette al solo e ben meschino scopo di ottenere una strofa più appariscente, un verso più clamoroso. Egli si ubriaca per aumentarsi, l’altro è il più astemio e il più sobrio dei poeti italiani: per non travisare il proprio io e non ingannare con false apparenze quello del lettore, resta se mai al di qua dell’ispirazione. Questa austerità, in lui innata, era poi accresciuta da motivi religiosi; perché certo egli credeva che Dio che gli aveva dato il genio, gli avrebbe chiesto conto di ogni parola, direi quasi di ogni interpunzione. Ne viene che quando a uno dei due manca con la perfetta espressione la perfetta opera d’arte, se questi è il Manzoni, non per tanto egli ci diventa antipatico, come uno che erra per imperizia o per paura di derogare da quello che in buona fede ritiene sia il giusto e il vero; se invece è il d’Annunzio egli ci irrita e disgusta come un individuo che spenda la sua ammirevole eloquenza meridionale per imporci una mercanzia sospetta. E se gli imitatori o i minori danno un’idea ancor più precisa di una tendenza, come quelli che o la esagerano o non la superano universalizzandosi, si vede che mentre la lirica del Manzoni, anche immiserita in quella dei seguaci, dà pur sempre qua e là alcune strofe degne di essere apprese con rispetto, le Laudi si gonfiano ed esplodono nei manifesti stradali del Futurismo. Da un manzoniano, anche di non altissimo ingegno, si poteva sempre attendersi qualcosa di buono, perché aveva appreso dal maestro non la necessità di essere un grand’uomo, né uno scrittore originale a ogni costo: ma quella di essere, nella vita come nella letteratura, un uomo onesto.
Chi non fa versi per il sincero bisogno di aiutare col ritmo l’espressione della sua passione, ma à intenzioni bottegaie o ambiziose, e pubblicare un libro è per lui come urgere una decorazione o aprire un negozio, non può nemmeno imaginare quale tenace sforzo dell’intelletto, e quale disinteressata grandezza d’animo occorra per resistere a ogni lenocinio, e mantenersi puri e onesti di fronte a se stessi: anche quando il verso menzognero è, preso singolarmente, il migliore. E come la nobiltà dell’atteggiamento così ignora l’estrema rarità del successo, o è capace d’illudersi d’averla pienamente raggiunta, senza nemmeno sapere in che consista, perché non c’è per credere di saper tutto che chi non sa niente. Ma quei pochi che m’intendono e riconoscono nel mio travaglio il loro travaglio, e nella mia speranza la loro speranza, quelli riconosceranno con me che ben pochi passi sono stati ancora fatti in questa che è la via eterna dell’arte, e in questo momento anche la più ardita e la più nuova. Nuova! Ecco la parola che se fa trasalire gli artisti fa tremare i poeti, perché in nessun’arte le inconscie reminiscenze sono più frequenti che in poesia, dove vengon favorite dalla natura stessa e dall’inevitabile virtù del suono, che le imprime indelebilmente nella memoria. Di una poesia non resta solo, come di una prosa, lo spirito che l’animava, ma anche la materia in cui s’è incarnato; non è la commemorazione dei protestanti, ma l’ostia del rito cattolico; tutto il corpo e tutta l’anima del Signore. Quando parlando di un romanzo, di una novella, di un’opera d’arte o di pensiero, si riportano solo i fatti o i sentimenti o le idee che vi sono espressi, di un poeta si ripetono addirittura i versi. E quanto più son facili le involontarie imitazioni tanto più necessaria diventa la loro medicina, che è quello che ò chiamato onestà letteraria: che è prima un non sforzare mai l’ispirazione, poi non tentare, per meschini motivi di ambizione o di successo, di farla parere più vasta e trascendente di quanto per avventura essa sia: è reazione, durante il lavoro, alla pigrizia intellettuale che impedisce allo scandaglio di toccare il fondo; reazione alla dolcezza di lasciarsi prendere la mano dal ritmo, dalla rima, da quello che volgarmente si chiama la vena. Benché esser originali e ritrovar se stessi sieno termini equivalenti, chi non riconosce in pratica che il primo è l’effetto e il secondo la causa; e parte non dal bisogno di riconoscersi ma da uno sfrenato desiderio dell’originalità, per cui non sa rassegnarsi, quando occorre, a dire anche quello che gli altri ànno detto; non ritroverà mai la sua vera natura, non dirà mai alcunché di inaspettato. Bisogna – non mi si prenda alla lettera – essere originali nostro malgrado. E infatti, quali artisti lo sono meno che quelli in cui è visibile lo sforzo per diventarlo? Essi non riescono il più delle volte a essere nemmeno personali: e vanno tanto più famosi per la spudoratezza dei furti e la vastità dei saccheggi: in quanto che nello stesso tempo che compiono una rapina la condannano, e si affermano miliardari che vivono del proprio. Anche mi apparisce dannosa la paura di ripeter se stessi: quando un sentimento è innato ed è innato il bisogno dell’espressione, è naturale che fino a che l’uomo non può uscire dal proprio io, quel sentimento e quell’espressione si ripetano, con l’ossessione di chi sente qualcosa che la parola e il suono e tutte le arti e tutti i mezzi esteriori non possono mai rendere alla perfezione: quindi l’inappagamento dopo ogni opera e la speranza di dir meglio la prossima volta. Sono pieni di ripetizioni il Canzoniere del Petrarca e quello del Leopardi e la parte più sublime della Commedia, il Paradiso; perché questi poeti cercavano di sfogare una loro grande passione e non di sbalordire come dei giocolieri, che guai se ripetono due volte lo stesso numero.
E se l’ispirazione è sincera, e subisce quindi l’influenza del particolar momento in cui nasce, c’è sempre, per quante volte si ripeta, qualcosa che la contradistingue; una inaspettata freschezza o una più grande stanchezza, uno scorcio di spettatore o di paesaggio, una diversa stagione od ora del giorno; qualcosa che dà al verso il suo colore unico e che solo l’occhio del profano può confondere con l’impressione antecedente. Né questa onestà è possibile che in chi à la religione dell’arte, e l’ama per se stessa e non per la speranza della gloria, ma il paradiso del successo o il purgatorio dell’insuccesso, se non lo lasciano del tutto indifferente, non menomano il suo amore e non lo fanno, per avidità di battimani, volgere né a destra né a sinistra. Così egli si guarda bene dallo sforzare l’ispirazione anzi, per il dubbio d’ingannarsi, resiste a essa, e non le cede che quando à acquistato la violenza dell’istinto. Ma proprio allora è più che mai difficile e necessario questo studio di non oltrepassarsi, di non verseggiare sopra una falsariga d’altri; è nei momenti più impetuosi che si corre il rischio di perdere la propria strada, come un cavallo lanciato a un galoppo troppo sfrenato. È pertanto che bisogna con lunga disciplina prepararsi a ricevere la grazia con animo proprio; fare un quotidiano esame di coscienza, rileggersi in quei periodi di ristagno in cui è più possibile l’analisi, cercando sempre di ricordarsi lo stato d’animo che à generato quei versi e rilevando con eroica meticolosità la differenza fra il pensato e lo scritto. Vorrei si facesse per l’arte quello che i modernisti ànno fatto per la religione, senza paura di distruggere quello che amavano dall’infanzia: cade una chiesa e un’altra ne sorge: se dopo la vivisezione alcuno si accorgesse che ben pochi dei suoi sentimenti richiedono la poesia, che faccia solo quel poco o magari niente, e ricerchi in un laborioso ozio quello che può sostituire per lui la poesia in versi. È solo con questo metodo che potrà una buona volta esser messo in chiaro quanto è rimasto di vivo della più antica forma di espressione letteraria, contro la quale oggi ci son tante e in parte così giustificate prevenzioni: solo quando i poeti, o meglio il maggior poeta di una generazione, avrà rinunciato alla degradante ambizione propria – purtroppo! – ai temperamenti lirici, e lavorerà con la scrupolosa onestà dei ricercatori del vero, si vedrà quello che non per forza d’inerzia, ma per necessità deve ancora essere significato in versi.
Tolgo dalla mia esperienza personale (come dalla sola possibile) un esempio, che meglio d’una nuda affermazione, può dimostrare la difficoltà che c’è a non introdurre prima e a espellere poi gli elementi estranei alla nostra visione.
Una notte, in sogno, avevo sorpreso in me sentimenti di cui mi credevo guarito da anni, avevo e sfogavo beatamente brame di cui nella veglia mi sarei almeno provato a respingere la tentazione.
Il giorno, vedendomi in uno specchio assai diverso da come, senza di esso, la mia imaginazione mi rappresenta, mi ricordai a un tratto del sogno; e dal paragone fra quello che era stato per la mia anima il sogno e per il mio corpo lo specchio presi lo spunto a una breve poesia, di cui ecco la prima quartina, come mi venne fatta di getto.

Credevo sia un gioco sognare;
ma il sogno è un temibile Iddio
è il solo che sa smascherare
l’animo mio.
Rileggendo, dopo alcuni giorni questa strofa, che pure non à nulla di apparentemente falso, io solo avvertivo alcunché di diverso, di discordante dal mio pensiero; e dopo studiato alquanto riuscii a determinare la discordanza nella similitudine fra il sogno e il temibile Iddio. Quando mai avevo pensato di paragonare il sogno a una divinità vendicatrice? Era certo una reminiscenza letteraria, insinuatasi di furto per qualche sottile legame di pensiero o di ritmo. Cercai di rimediarci alla meglio, sostituendo al Dio un semplice giudice.
Credevo sia un gioco sognare:
ma un giudice è il sogno...
Peggio. Originariamente io non avevo pensato affatto a giudici. Mi provai a ritornare indietro, a rifare il processo psicologico da cui era nata la poesia, e fu solo pensando a quelle circostanze che potevano parere le più trascurabili; a circostanze di luogo e di tempo; che mi sovvenne dello specchio e del paragone da cui erano derivati i versi, dove invece esso non appariva cambiato in un Dio o in un giudice.
Credevo sia dolce sognare;
ma il sogno è uno specchio, che intero
mi rende, che sa smascherare
l’intimo vero.
Respirai. Fu come se un bruscolo mi fosse uscito dall’occhio, o un nervetto slogato fosse ritornato al suo posto. Eppure, a rileggere le tre quartine con le tre diverse similitudini non so quale, letterariamente, sia la più efficace. Ma è un caso. E se non si stabilisce come principio che non si può, per il più bel verso di una letteratura, falsare consciamente o no la propria visione, e fare di uno specchio un giudice o un temibile Iddio, per uno in un certo senso più bello, cento saranno di cattiva lega; e il risultato complessivo la morte della personalità.
A questa maggiore onestà nel metodo di lavoro, deve necessariamente corrispondere un più austero programma di vita. Il poeta deve tendere a un tipo morale il più remoto possibile da quello del letterato di professione, e avvicinarsi invece a quello dei ricercatori di verità esteriori o interiori, le quali, salvo forse la più alta forma di intellettualità che occorre per investigare le seconde, sono tutt’una cosa. Alcuni poeti della vecchia generazione furono come dei contemplativi, che per nausea dell’antica aspirazione, o per impotenza a raggiungere per quella via l’estasi, vollero diventare una specie d’uomini d’azione. Allora scambiarono l’abito claustrale per l’uniforme soldatesca, e partirono per una guerra dove il loro eroismo diventò vigliaccheria mascherata di temerarietà: dove il loro gesto di comando, tanto più elegante quanto più sbagliato, suscitava il turpiloquio o la giusta indignazione dei commilitoni, così pieni nei loro combattimenti, di un facile buon senso e di un abbominevole senso pratico. Essi disprezzarono la loro alta femminilità per esaltare la virilità abbietta dei conquistatori di mercati e d’imperi. Cercarono i loro modelli e le loro similitudini fra gli eroi dell’armi, quando avrebbero dovuto cercarli fra quelli ben più nobili del pensiero e del sentimento. Al di là del mondo del poeta non c’è che quello dei santi e forse quello dei filosofi; essi, per uscire dalla vecchia cerchia, entrarono in un girone inferiore, fra anime più volgari e aspirazioni più meschine. Ivi essi apparirono al confronto ancor più meschini: e non riuscirono che a sciupare le energie personali e il patrimonio della tradizione.
Ai poeti della generazione presente resta da fare quello che dovrebbero fare i figlioli, i cui genitori furono malamente prodighi di averi e di salute: una vita di riparazione e di penitenza, senza la preoccupazione di essere essi o i posteri a cogliere il frutto dell’attività riparatrice. Essi si possono anche confrontare a dei malati, lontani dalla loro patria, la cui ultima speranza di guarigione è l’aria nativa. Così resta a essi, per condurre un’esistenza utile e generare figli sani, un ritorno alle origini: con un’opera forse più di selezione e di rifacimento che di novissima creazione: resta a essi quello che finora fu solo raramente e parzialmente compiuto, la poesia onesta.

Da Luca Sossella Fb del 28 luglio 2018
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