FIDUCIA E IMPRESE
Ascoltiamo gli allarmi del nord-est
Sarebbe un errore sottovalutare le tante proteste che in queste settimane sono arrivate dagli imprenditori del Nord-Est sul decreto dignità e sull’introduzione di dazi commerciali. Dietro le critiche di questi giorni ci sono le ragioni di un sistema industriale guidato da una coorte di medie imprese profondamente radicate nel territorio che la politica (governo e opposizione) dovrebbero prendere in considerazione.
Sono la testimonianza di un pezzo di Italia che ha preso sul serio la crisi e che, nell’ultimo decennio, ha avviato con successo una modernizzazione che guarda alla parte più dinamica dell’Europa.
Le osservazioni sollevate dagli imprenditori hanno a che fare con due temi principali: il lavoro e l’internazionalizzazione. A proposito del lavoro, il decreto dignità ha riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica una lettura del rapporto fra impresa e lavoratore in chiave di netta contrapposizione di interessi.
Per chi guarda da vicino il mondo della media impresa manifatturiera che ha segnato la ripresa della competitività a Nord-Est, questa contrapposizione ha poco di veritiero. Mai come in questi ultimi anni gli imprenditori hanno maturato la convinzione che sono le persone a fare la competitività delle imprese. L’investimento sul capitale umano è essenziale per trattenere a Nord-Est giovani che altrimenti trovano più facile intraprendere una carriera all’estero sfruttando diplomi il cui valore è ampiamente riconosciuto fuori dai confini nazionali. Il “quarto capitalismo” italiano investe sulle persone con strumenti sofisticati, dalle Corporate university al coaching personalizzato. La migliore manifattura non crede ai “lavoretti” ma scommette sulla possibilità di costruire percorsi di professionalizzazione fondati su fiducia e merito. Irrigidire questi percorsi costituisce un vincolo per chi entra nel mondo del lavoro e un limite alla dinamica di crescita delle imprese.
Considerazioni analoghe riguardano il tema dell’internazionalizzazione. In questi dieci anni di crisi, le imprese che hanno contribuito al rilancio dell’economia del Nord-Est si sono aperte a una dimensione internazionale. Non si solo limitate a vendere all’estero. Hanno iniziato a produrre in aree geografiche diverse, non tanto per delocalizzare e ottenere particolari vantaggi di costo quanto piuttosto per seguire le richieste dei leader dei rispettivi settori di appartenenza, dall’automobile alla farmaceutica. Hanno iniziato a collaborare con designer di tutto il mondo. Hanno stretto partnership con istituzioni di ricerca internazionali. Questo sforzo di apertura al confronto internazionale è stato promosso grazie a una leva di tecnici, ingegneri, manager italiani che ha creduto e investito in questi progetti. Paradossalmente, gli imprenditori che più si sono impegnati a costruire un futuro per l’economia italiana sono quelli che oggi rischiano di pagare il prezzo maggiore per una riduzione dei margini di libertà nel commercio internazionale.
L’appoggio che questa base produttiva ha sempre accordato alla Lega, ampiamente confermato nel corso delle ultime elezioni, non ha mai preso in considerazione un irrigidimento del mercato del lavoro, ipotesi sovraniste sul versante della produzione né tanto meno presunte uscite dall’euro. Ha riguardato piuttosto il tema dell’autonomia e dell’allargamento dei margini di manovra del governo locale. Questa richiesta di autonomia non è figlia di un atteggiamento di chiusura rispetto al mondo ma è espressione, piuttosto, della consapevolezza che solo politiche specifiche rispetto a un determinato territorio possono favorire la capacità di presidiare mercati sempre più estesi e il rinnovamento di un’idea di comunità, la competitività e l’inclusione. I risultati del referendum dell’ottobre dell’anno scorso sono la testimonianza che questa domanda di autonomia attraversa trasversalmente l’elettorato del Veneto. Chi non ha colto il senso e la forza di questa richiesta ha pagato un prezzo politicamente rilevante (vedi il rigetto per la riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi nel dicembre 2016).
Nel Nord-Est del 2018 non si respirano rigurgiti anti-impresa. Si guarda piuttosto con apprensione a una tornata di provvedimenti legislativi che sembra non tener in conto dell’enorme sforzo fatto in un decennio da imprenditori, lavoratori, professionisti, studenti, professori, pubblici dipendenti per stare al passo con i tempi e agganciare quel livello di modernizzazione che caratterizza aree come la Catalogna e la Baviera, da sempre prese a riferimento dai decisori locali.
I risultati di questo percorso sono ben lungi dall’essere un risultato acquisito per sempre.
Le imprese sono consapevoli della necessità di proseguire in questa direzione. Se si vuole dare dignità al lavoro è necessario sviluppare la formazione tecnica e promuovere la ricerca per i settori del Made in Italy. Su questo terreno il Nord-Est ha dimostrato determinazione sul piano della promozione degli Its, creando una vera e propria academy territoriale, così come sul fronte del Competence center per Industria 4.0 che, per la prima volta, aggrega tutte le università delle tre regioni. Se vogliamo ridurre gli sprechi nelle infrastrutture, meglio guardare altrove sulla carta geografica: Pedemontana veneta e alta velocità Brescia-Padova sono priorità consolidate, percepite come essenziali da una larga fascia della popolazione che studia e lavora sperimentando una mobilità che fa della Venezia-Milano un’unica grande città metropolitana. Su questi obiettivi il Nord-Est continua a investire e su questo terreno reclama la sua autonomia.
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Stefano Micelli
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